SAREMO L’INFERNO CHE CI STATE LASCIANDO
Parte Terza

SOGNATE UN MONDO MIGLIORE E COSTRUITELO

La principale virtù politica oggi è il coraggio di praticare e difendere le proprie idee, di affermare non semplicemente un’opinione personale – che non fa male a nessuno e a cui nessun potere impedirà di esprimersi[1] -, ma ciò che ha la struttura e la forza di un’Idea. Si tratta innanzitutto del coraggio di avere un’idea perché l’imperativo degli ultimi decenni è: “Vivete senza un’idea”. Troppe persone pensano ancora che si vive semplicemente per sé stessi, per i propri interessi, e che basti consumare. La partita, invece, si può giocare se si riesce a dimostrare che il proprio della vita è viverla facendo crescere un’idea. Almeno questo sembra essere ciò il presente ci sta lasciando come compito a venire. Un compito che si persegue nel tempo, e che ha un nesso con un’altra questione emersa negli ultimi tempi, che riguarda la difficoltà di sognare. Sognare qui sta per la capacità di immaginare situazioni di vita alternative rispetto a quelle che il mondo offre. Il sognare si può pensare come una sorta di poesia della mente, come il livello psichico dove viene coltivato il significato personale (emotivo) delle proprie esperienze vissute. Anche l’individuazione delle capacitazioni di Sen presuppongono la capacità di sognare, nel senso (psicoanalitico) di attribuire un significato personale all’esperienza, laddove la parola “significato” rinvia alla socialità e la parola “personale” invece all’individuo.

Molti si domandano come ha fatto il modello economico di produzione a rubare i sogni di una generazione. La prima risposta viene facile: innanzitutto perché ha tolto il sonno, letteralmente non fa dormire. Non ce ne siamo accorti perché siamo troppo impegnati a stare svegli. Il capitalismo 24/7 non è altro che una continua erosione del tempo dedicato al sonno (Crary). Il sonno interrompe il furto di tempo che il sistema produttivo compie ai nostri danni, tenendoci svegli per renderci produttori e consumatori, ovvero ingranaggi di questa megamacchina (abbiamo bisogno di prodotti pure per dormire). Da questo punto di vista il tempo che dedichiamo al sonno, o a tutte quelle attività che sono fuori dal cerchio di produzione e consumo (tra cui rientra anche tutto ciò che serve al sistema produttivo per funzionare) è una forma di resistenza alla voracità del capitalismo contemporaneo. Da questo punto di vista, se riusciamo ad affrancarci un po’ da quella congerie di bisogni artefatti, il grido di battaglia diventa: “Giovani di tutto il mondo, coricatevi!”

 

NON VIVETE NELL’ATTESA DI SOGNI IRREALIZZATI

Agisce molto forte una sorta di imperativo d’inerzia, che ordina la mera perpetuazione e dissuade dal compiere un’azione trasformatrice.  C’è una gioventù errante, un’adolescenza infinita, c’è la disoccupazione, le disuguaglianze sociali. C’è il disorientamento esistenziale, la complessità delle nuove relazioni, tra i sessi, con gli adulti. Nelle condizioni attuali non si può neanche più credere nel “merito” perché il complesso intreccio tra potere e valore falsa tutto. In un certo senso si può dire che nessuno merita la posizione sociale che occupa perché le diseguaglianze riflettono un mondo in cui il valore è diventato appannaggio di un connubio perverso tra potere e mercato. Esiste, allora, quello che può far sistemare in questo mondo, trovando facili compromessi alle contraddizioni, ma esiste anche ciò che fa andare più lontano, la capacità di esplorare, di andare oltre quello che si può solo confermare. L’erranza adolescenziale può essere orientata da simboli inediti, da un pensiero nomade, marittimo, da un pensiero vero dell’«oceano mobile del mondo» che sappia farsi fratello del sogno (Badiou). Svestirsi delle certezze è l’iniziazione che i più evitano. Non ci sono solo i sentieri già tracciati dal mondo adulto da ripercorrere, ma nuove filiazioni da prospettare dopo aver rifiutato l’idea imposta che all’ordine costituito non ci sia alternativa. Inventare nuove simbolizzazioni: di questo ha bisogno il mondo, “terra arabile del sogno!”. 

Per pensare le nuove forme dell’abitare occorre prima sognarle. Occorre sognare di separarsi dalle vecchie consuetudini, sognare, anche con ansia, di essere soli e perduti, lontano dalla terra ferma. Sognare di ricominciare, di ricreare. L’immagine del mondo a partire dall’«isola deserta» non vuol dire, come Robinson, ricomporre la vita così come era, recuperare tutto dalla nave, ma nemmeno una pura creazione, bensì una ri-creazione, un ri-cominciamento, con il materiale sopravvissuto della prima origine. C’è un sogno nel sogno da far emergere. Tutto avviene in due tempi, nascita e ri-nascita, e il secondo tempo è fondamentale quanto il primo. Anzi, occorre uno sforzo per pensare che il primo tempo sia nato per una ripresa e che rinasca in una catastrofe[2], in modo che il secondo momento non sia semplicemente un qualcosa che succede al primo, ma una riapparizione del primo.

Mezzo secolo fa si gridava “L’immaginazione al potere”. L’immaginario istituente è qualcosa di radicale che precede la realtà. Immaginare qualcosa significa già in qualche modo istituirla, facendo di un non-essere un essere. La logica dell’istituzione implica però una continua tensione con ciò che è fuori dalle istituzioni. Questo “fuori”, prima di istituzionalizzarsi, modifica l’assetto istituzionale precedente, sfidandolo. La difficoltà di riconoscere tale dialettica nasce da due pregiudizi: primo, la consuetudine a identificare le istituzioni con quelle dello Stato; secondo, considerare le istituzioni in termini statici piuttosto che in continuo divenire, quando invece esistono istituzioni “antistatali”, come i movimenti di protesta dotati di forme di organizzazione capace di esprimere un’energia istituente che le stesse istituzioni dovrebbero mantenere viva per mobilitarsi e, per certi versi, oltrepassarsi (Esposito).  

Questa duplice esigenza di istituzionalizzazione e mobilitazione non è riuscita a trovare una sintesi progressiva per cui a partire dagli anni Sessanta tra istituzioni e movimenti si è andata affermando una rigida contrapposizione. Da un lato non si è fatto altro che riproporre un modello conservativo di istituzione, refrattario a ogni trasformazione; dall’altro c’è stata una proliferazione di movimenti anti-istituzionali che non si sono coagulati in un progetto comune. Il risultato di una tale divaricazione è stato uno scollamento tra politica e società. D’altro canto, come dice Castoriadis, ogni società non può fare a meno di strutturarsi in un orizzonte simbolico che dia risposta a domande fondamentali su «chi siamo come collettività», «cosa vogliamo», «cosa ci manca». Sebbene le gli ordini simbolici siano il prodotto dell’immaginario, essi tendono a negare questo loro carattere storico-istituito. Per dare senso stabile alle pratiche istituzionali, queste non devono apparire come qualcosa di socialmente istituito. In realtà la società è sempre autoistituzione del sociale-storico. La consapevolezza della contingenza delle costruzioni sociali è fondamentale per non chiudersi di fronte alle possibilità che si possono sperimentare.

Non sarà possibile allora raggiungere un nuovo stadio di sviluppo se non disporremo di un nuovo equivalente antropologico potente quanto il consumo. Quest’ultimo può essere ridimensionato, superando la forma compulsiva che ha assunto in questi ultimi decenni, se saremo capaci di riconoscere e valorizzare un movimento altrettanto profondo, quello generativo. Non basta mettere dentro, consumare, ma c’è bisogno anche di mettere fuori, creare. Sempre di più le persone, e in modo particolare i giovani, chiedono di essere riconosciuti, di poter svolgere attività dotate di senso e di poter mostrare quello che valgono. Esistono bisogni troppo a lungo negati di partecipazione al mondo circostante, di creazione di nuovo valore, anche al di là della immediata traducibilità in denaro di quest’ultimo. Serve un cambio culturale che permetta di superare l’economia del prendere (modello estrattivo) in favore di un’economia del dare, e di rendere protagoniste le persone che lavorano, di mettere a valore il loro contributo, non più ingranaggio anonimo di un processo impersonale.

 

CAMBIATE QUESTO MONDO!

Lo stesso Presidente della Repubblica ha esortato più volte i giovani con un: “Prendetevi il vostro futuro!”
Questo invito ad essere protagonisti della storia è un’impresa ardua per la sproporzione dei mezzi rispetto alle generazioni più anziane e al loro sistema di scambi e di gerarchie strutturate. C’è qualcosa di beffardo in quel “Dovete restare a lottare” che si sente ripetere in modo un po’ paternalistico: «Ma contro chi?», potrebbero essere la risposta, «se siete precisamente voi quelli contro cui lottare, voi che avete occupato i posti del potere, voi che fate le regole del gioco?».

Il problema sollevato dalla questione della autoistituzione della società è quello dell’obbedienza e va al cuore di ciò che si deve intendere per “democrazia”. Come sappiamo la struttura democratica esige che i decreti adottati a maggioranza siano rispettati da tutti, in quanto il voto è espressione dell’interesse generale. Una democrazia intesa come un insieme di procedure standardizzate rischia però di ridursi ad un sistema irrigidito di distribuzione dei poteri. Fino a che punto, allora, le decisioni pubbliche che hanno seguito una procedura normale possono essere rimesse in discussione da una minoranza attiva (o una frangia iperattiva)? Per rispondere iniziamo col dire che le fonti di senso dell’obbedienza sono molteplici, ma ce n’è uno di particolare interesse dal punto di vista della filosofia politica perché chiama in causa lo statuto del cittadino: il consenso. Il consenso è un atto di obbedienza in cui si acconsente liberamente, come una sorta di obbligazione pienamente accettata. In una prospettiva storico-politica, situare il consenso al cuore del rapporto politico è stata una conquista per la modernità con la sua condanna del teologico-politico e del paternalismo ad esso implicito, che spingeva ad accettare da bravi sudditi docili l’ordine superiore delle autorità. Immaginare al principio del rapporto politico un contratto originario significava considerare i cittadini come soggetti autonomi, esseri liberi, adulti responsabili.

Seppur con significative variazioni, nei grandi pensatori del contratto (Hobbes, Locke, e Rousseau) ritroviamo una opposizione tra uno stato di natura originario e lo stato sociale attuale retto da regole del convivere e da leggi pubbliche regolate da autorità istituzionali. Ovunque la società è vista come il risultato di una decisione comune e libera, attraverso la quale l’umanità si strappa dal caos. Se oggi viviamo in società politiche è perché un tempo abbiamo acconsentito a vivere insieme sotto comuni leggi. Questo vuol dire che, in un certo senso, è sempre troppo tardi per disobbedire. Attraverso l’ideologia del consenso istituente noi possiamo vivere in in una società retta da leggi comuni, in uno stato di diritto. Pensiamo al modello di Rousseau. Qui il popolo non può mai dare il proprio consenso se non a se stesso, ossia ad un “Noi” che è allo stesso tempo causa e risultato del consenso. Ogni cittadino deve sforzarsi di lottare contro la spinta a privilegiare l’interesse personale. Il peggior nemico è lui stesso in quanto singolo. Secondo questo modello nell’atto di disobbedienza si consuma necessariamente lo scandalo di una preferenza egoista. Se a dominare la coscienza del cittadino è l’orizzontalità del “Noi” e della “volontà comune” si determina un consenso di tipo “verticale”. Di conseguenza, nel momento in cui sorgono movimenti di disobbedienza si sente spesso gente che dice: «Guardate questi irresponsabili, vogliono soltanto il disordine». «Questi figli di papà fannulloni ci portano dritti all’anarchia con i loro sogni impossibili, le loro utopie». Oppure: «Questi egoisti non pensano che a difendere convinzioni minoritarie, dimenticando la grande maggioranza dei lavoratori silenziosi».

Da questo angolo di visuale il paradigma del contratto rende impossibile ogni disobbedienza, se non fosse che in esso rimane implicito qualcosa di sovversivo. Si potrebbe, infatti, obbiettare: «Attenzione, noi non abbiamo preventivamente acconsentito ad obbedire né a fonderci in un’unità verticistica, ma soltanto ad essere, o meglio, a creare insieme una società». Un “noi” senza maiuscola, immanente, mutevole, plurale. Qui è evidente il cambio di paradigma. Ad operare è il principio di molteplicità, che non è il molteplice opposto all’uno e da questo degradato secondo lo schema del pensiero classico. Prendiamo l’articolo 4 della Costituzione[3], in esso è esplicito il richiamo all’”uno”, in questo caso la Repubblica, ma questo uno è aperto, coincide con la stessa molteplicità. C’è, da una parte, la duplice connotazione del lavoro come diritto e dovere la cui chiave di raccordo è il riferimento alla Repubblica, ovvero alla collettività e ai pubblici poteri, chiamati entrambi a cooperare e, dall’altra, la facoltà di scegliere l’occupazione che si ritiene più confacente alle proprie inclinazioni. Il che significa valorizzare l’aspetto personalistico del lavoro, sottolineandone l’importanza per la crescita personale del singolo e della collettività. La molteplicità dei soggetti vive soprattutto di se stessa, non è molteplice a qualcosa, ma ha solo determinazioni, grandezze, variazioni.

Allora chi tradisce l’accordo?
Qual è il punto dirimente del contratto?
Di cosa vive una comunità, seppur complessa?

La democrazia dovrebbe funzionare un po’ come il cervello, esempio di sistema che si auto-organizza: connessioni molteplici e reticolari, eterogenee e senza rigide organizzazioni significanti. Un sistema ad accessi multipli, plastico e flessibile, capace, entro certi limiti, di ricostruire connessioni interrotte a partire da qualsiasi punto. Più che da una struttura, è definito dallo stato in cui si trova in ogni momento, di modo che la sua attività si può coordinare senza istanze gerarchiche di controllo. In fondo era il sogno del neoliberalismo, che aveva puntato tutto sul mercato, senza immaginare che questa “molteplicità” fondata sul profitto e l’interesse personale avrebbe riprodotto gruppi di potere e la più capillare delle forme di controllo. Secondo la Arendt, ciò che conta innanzitutto è di essere un solo corpo istituente, l’obbedienza politica viene dopo. Il rispetto di questa o quella legge deriva da un consenso primario, fino in fondo “orizzontale”, ad essere una società, per cui l’obbedienza a chi governa deve essere guardinga, provvisoria, intermittente. Il cittadino delega, ma può sempre riprendere in mano il gioco. Collettivamente, con un progetto comune.

Da questo punto di vista i movimenti di disobbedienza civile, i movimenti appunto di contestazione collettivi e non le proteste isolate, sono a tutti gli effetti momenti di riattivazione del contratto sociale, ritorno al grado zero, essenziale, della democrazia, a ciò che la rende in ultima istanza tale. La disobbedienza civile poggia sulla costituzione di una collettività che esprime il suo rifiuto e afferma pubblicamente: «Non voglio essere governata in questo modo». Prima ancora delle posizioni personali espresse dal voto, è sempre in gioco l’essenza vitale del contratto: “formiamo un corpo, una società, quando disobbediamo collettivamente, quando portiamo avanti un progetto di vita insieme alternativo, quando facciamo vibrare una promessa sociale, ossia la tessitura della pluralità, e non la costruzione di un’unità di tutti a prezzo della rinuncia di ciascuno” (Gros). Da una parte, il “contratto sociale”, questo grande mito politico, questa narrazione delle origini, può esistere come principio di legittimità astratto, come riferimento vincolante: «Non siete autorizzati a disobbedire». In questo caso, come pura finzione regolatrice, si fa sentire per le sue conseguenze pratiche: censura, multe, interdizione fino all’imprigionamento. D’altra parte, il contratto vive e trae la sua forza vitale legittimante anche nell’esplosione degli atti di disobbedienza concertati in nome di una società più giusta e più uguale. Riattualizza questo momento originario in cui una collettività decide del suo destino, quel momento generativo in cui il “politico” acquisisce la sua ragione ultima. 

Queste considerazioni mirano a dare una misura al conflitto e sono tanto più opportune oggi che ci troviamo di fatto in una guerra culturale. La complessità sociale, le ambiguità e le contraddizioni tra le nostre vecchie abitudini e la nuova coscienza ecologico-politica, rendono impossibile organizzare la guerra in due campi contrapposti, tanto più che per mettersi sotto una bandiera bisognerebbe credere alle identità, mentre la crisi attuale ci rivela i limiti di qualsiasi concetto di identità. Tuttavia le posizioni non sono tutte indifferentemente uguali, ma si possano individuare quantomeno due tendenze generali. In relazione alla questione dell’abitabilità della Terra la definizione del mondo è radicalmente diversa tra le parti in conflitto. In ballo ci sono le pratiche generative e la possibilità o meno di conservare, se non addirittura di estendere, le condizioni di abitabilità delle forme di vita, una sorta di aggiornamento della vecchia lotta tra classi divenute ormai classi “geosociali”, in cui il plusvalore non riguarda più soltanto quella parte del valore prodotto dal lavoro salariato di cui il capitalista si appropria, ma le capacità di sussistenza, le capacità generative. Ci sono due modalità di abitare il pianeta Terra: quella di coloro che credono di poter oltrepassare i limiti per proiettarsi fuori da questo mondo, coloro che pretendono di stabilire il paradiso sulla terra attuando, come dice Latour, due forme di perversione: “una pseudoreligiosa che auspica un’uscita dal mondo, l’altra pseudosecolare che pretende di introdurlo sulla terra”. Accanto a costoro ci sono quelli che possono dirsi veramente terrestri, che usano un’altra scala di valori e i significati, molto più concreta, coloro che non sono più fuori ma all’interno perché capaci di riconoscere ciò che li fa esistere e allo stesso tempo li travalica.

C’è poi una ulteriore linea di tendenziale conflitto che divide chi considera un valore il carattere pluralistico e personalistico della democrazia e chi no. Per i primi la sfera pubblica non può che essere costituita dalla multiformità dei progetti di vita e dalle differenti “fioriture” individuali e collettive, uguali nella dignità morale, che la politica deve rendere possibili, rimuovendo gli ostacoli al pieno sviluppo umano dei cittadini. Per i secondi prevale invece l’esigenza di ribadire, per i più diversi motivi, la propria idea di “normalità”, un’ansia di uniformità e di restaurazione di abitudini rassicuranti, in base a cui distinguere ciò che è ”normale” da tutto ciò che non lo è e che per questo esprime disordine e anomalia[4].
Ma a noi l’anomalia non ci spaventa, perché ormai sappiamo, come ci ha insegnato Canguilhem, che è un’eccezione che contribuisce ad arricchire la specie, e che perciò può diventare una delle strategie più produttive della vita. L’”anomalo” è ciò che inventa nuove norme di sopravvivenza, nuovi valori vitali e diventa anormale solo quando l’ambiente si rende ostile a questa diversità. Se nel vecchio mondo poteva avere un senso spingere verso il fuori, sognando di diventare post-umani e immaginando di vivere come dei (Harari parlerebbe di un “homo deus”), nelle nuove condizioni di esistenza, in cui siamo costretti a riparare i resti, il movimento più importante è “sparpagliarsi” per esplorare tutte le possibilità e le capacità di sopravvivenza. Per cambiare il mondo occorre disporsi innanzitutto a cogliere ciò che accenna a quello che verrà, che genera del possibile “reale”, un poter fare, una potenza. Ci sono eventi che prima del loro accadere non rientravano neanche nell’ordine delle possibilità. Non c’è più un’unica “freccia del tempo” ma la storia si disperde in tante direzioni. Ci vuole un pensiero obliquo perché le linee del corso della storia si sono fatte oblique (lossodromie, da loxós, obliquo, e drómos, percorso). Non si può più stabilire fin da subito se riflettono un periodo di progresso o di declino.

 

NON ABBIATE PAURA DI IMBRATTARE I MURI…

Per cambiare il mondo bisogna fare la storia.
Complice la stessa psicoanalisi, la nostra cultura ha privilegiato una descrizione della conditio humana come quella di esseri viventi sostanzialmente motivati dalla dinamica libidica. In realtà le azioni umane sono mosse da un polo pulsionale altrettanto potente, composto da uno ventaglio ampio di passioni autoaffermative (raggruppabili sotto il nome aulico thymòs), che vanno dall’orgoglio al coraggio, al senso dell’onore, all’impulso a primeggiare, al risentimento, fino all’ira, con la quale è cominciata la nostra storia (mi riferisco ovviamente all’Iliade). In sua assenza ci sarebbe stato poco da raccontare. L’importanza degli eroi deriva dal fatto che testimoniano la possibilità per l’essere umano di fuoriuscire dalle circostanze date, dal semplice corso degli eventi di natura, e immettere nel mondo cose che non si erano mai viste. Il protagonista Achille, però, tende a bruciare la sua ira istantaneamente in maniera esplosiva e senza altra motivazione che quella di riparare il suo orgoglio ferito. Il suo mondo non può reggere alla prova della città, un po’ come le proteste isolate e tutti quei movimenti di contestazione collettivi che non riescono a raccogliersi in un progetto comune. Secondo Sloterdijk, il primo che si adira e che è capace anche di trattenere la sua collera e farla fruttare è colui che riuscirà a fare la storia. Ciò che conta è come vengono attuati i programmi di gestione e conduzione delle proprie energie timotiche, la decisione sui tempi di soddisfacimento della propria ira. Politicamente determinante è il momento in cui si sviluppa la capacità di dilazionare l’espressione della rabbia, che in questo modo può assumere la forma del progetto. La storia è una sorta di economia dell’ira.

Quando si parla di disobbedienza si pone anche la questione di come cambiare il mondo. Ma una necessità non subentra ad un’altra necessità da un giorno all’altro. Prendiamo un esempio recente di protesta che ha preso come cassa di risonanza i monumenti e le opere d’arte e chiediamoci: imbrattare i muri può essere considerata una modalità di protesta accettabile? Per capire le intenzioni di queste forme di contestazione va detta che si tratta di vernice lavabile, dunque di una simulazione per dimostrare che l’incuria dell’ambiente ci sta portando tutti dritti dritti verso qualcosa di tragico. Sono gesti dimostrativi per segnalare che corriamo ben altri pericoli catastrofici. Qui siamo in presenza di ciò che può essere definito, con linguaggio badousiano, una “rivolta latente”: c’è l’invenzione di nuove forme di azione, azioni collettive di natura virtualmente sediziosa, che tendono a unificare le persone e che hanno l’effetto di preparare il futuro. Dinnanzi a fatti come questi l’opinione pubblica comincia a dividersi sotto la pressione delle parole che rimandano al principio di unificazione dell’ordine. Questo ritorno alla politica da parte dei giovani segnala un netto rifiuto di farsi complici dell’eredità del vecchio ordine. Non a caso Lacan aveva associato la preghiera alla rivolta: entrambe hanno in comune il rifiuto dell’ordine delle cose già stabilito, della rassegnazione, dell’abitudine all’ingiustizia, e la necessità di invocare un nuovo possibile orizzonte di vita. Come la preghiera, la rivolta dilata, anziché restringere, l’orizzonte del mondo, introduce il respiro ampio del riscatto e del rinnovamento.

Questo genere di azione ha qualcosa di sovversivo perché non si lascia intimorire dalla solita opinione reazionaria; perché con essa si crea uno spazio condiviso ampio che rompe con il modo ristretto e localistico di considerare le azioni di protesta; perché attraverso l’azione si mettono in relazione diversi strati sociali che in genere sono separati; infine, conseguenza inevitabile, perché ci si deve preparare all’arrivo inevitabile della polizia. La rivolta diventa “storica” quando in uno spazio non più circoscritto si passa dal tempo limitato di una protesta informe e incerta (cioè la rivolta “immediata”) al tempo lungo, esteso nel futuro, di un’organizzazione politica.

Cosa ci comunica allora questa espressione «Saremo l’inferno che ci state lasciando»?

C’è innanzitutto un grido di rabbia, che non è rivolto tanto al potere, ai governanti, ma in un senso più esteso alle generazioni degli “Estrattori” di valore che hanno lasciato resti da riparare. È un grido della vita e del futuro delle generazioni e un grido per la vita della Terra. Un grido che vuole far presente che la vita non si esaurisce né nel confine della nostra nazione, né in quello del nostro io. Da questo grido nasce il “noi” con la minuscola, immanente, che non vuole più essere governato in base all’onnipotenza antropica che lascia il deserto dietro di sé. Prima ancora di definirsi come una protesta di una compagine politica contro un’altra, questo noi è un grido generazionale, un grido dell’essere che si ribella ad un gioco immaginario, alla passione moderna per il superamento continuo dei limiti. Questo grido ci colpisce come una pura impressione capace di lasciare una traccia che non ci lascia più vedere le cose come prima. C’è qualcosa di tragico nel tentativo di far valere un senso del sacro, dell’inviolabile contro lo strapotere del modello “antropico” di organizzazione (il termine “antropia” per indicare la varietà degli effetti entropici che, su piani diversi, si producono nell’era dell’Antropocene). Sembra quasi che gli dei abbiano voltato le spalle a chi lotta per la Causa ecologica, trasformando gli appelli in grida sterili e i riti in gesti inutili (il tragico dell’”ateismo” nel senso Hölderlin). È tragico dover contare solo sulla propria fragile convinzione da opporre ad un cielo vuoto, abbandonato da coloro che se ne sono andati (“a che porta il mio rispetto per gli dei”). Qui la disobbedienza diventa l’espressione di una disperazione, una provocazione che non attende più neanche una risposta. 

L’inferno sono gli altri” diceva Sartre, e questa frase sembra rimbalzare nel capolavoro di Mc Carthy La strada, dove in un cosmo distrutto può essere difficile individuare i buoni in un mondo di cattivi. C’è una regola semplice: i cattivi divorano le persone, i buoni no. Sembra una riformulazione dell’imperativo kantiano: “non trattare le persone come cose da consumare”. Bisogna lottare per essere giusti, per fare ciò che è bene in un mondo in cui la maggior parte delle persone sembra aver abbandonato ogni parvenza di moralità. Allora cosa dà significato alla vita umana? Cos’è che rende la vita dei sopravvissuti alla catastrofe un’esistenza senza senso? C’è un flashback nel romanzo che racconta un giorno dell’infanzia del protagonista, in cui assieme allo zio trascorre un’intera giornata in barca sul lago per rimediare un pezzo di legna da ardere. Non si parlano l’un l’altro ma condividono una profonda intesa reciproca: lavorano insieme per realizzare un compito condiviso. Ciò che dà valore alla vita umana, insomma, sono i rapporti con le altre persone. Questo ci dice che la mancanza di relazioni è la vera minaccia all’attribuzione di senso. Si pensa spesso all’inferno come a un luogo di grandi sofferenze, un luogo violento. Forse ciò che rende l’inferno veramente tale è alienare se stessi dal resto dell’umanità. «L’unica cosa che so è che il bambino è la mia garanzia. E se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato». Mentre l’uomo è sospettoso e diffidente verso il prossimo, il bambino invece cerca di andare verso gli altri, li segue con fiducia. La Grazia è una lucina. Dove la trovi? Nella generatività, nella nascita, nella fiducia connaturata al venire al mondo, nello sguardo innocente del bambino, del figlio che vede confermata la sua fiducia nell’amore del genitore, nel desiderio di continuità, di passare il testimone, nello slancio che lo porta nonostante tutto a mantenere accesa quella flebile lucina. Nell’amore, insomma. Però, nessuna illusione. Non c’è nessun sogno di mondi impossibili se non quello esistente, che deve spingerci a tenere gli occhi aperti. Perché se ci ritroveremo con gli occhi chiusi a sognare un posto migliore di quello in cui siamo, forse in quel momento ci saremo arresi. E arrendersi è il peccato più grande. Mai arrendersi perché, nonostante tutto, c’è un prima e un dopo, c’è qualcosa da consegnare, c’è una strada.     

Purtroppo quel mondo che dovrebbe contenere e accogliere le nuove generazioni per farle entrare pienamente nella vita activa, genera al contrario un sentimento di estraneità. Cosa dovrebbe definirle di più se non un guardare al futuro dal punto di vista delle possibilità? Invece questo mondo sembra smentire lo slancio, il progetto, quel principio heideggeriano a cui hanno creduto le generazioni passate: «Più in alto della realtà effettuale sta la possibilità». Quando non ci si può proiettare in un futuro promettente, allora il presente diventa un assoluto. Ma non come un fecondo e vitale invito a godere di una intensità che procura gioia, quanto un obbligo mortifero, maniacale, a vivere soltanto il presente perché questo consente di rimuovere l’angoscia che si prova ogni volta che si presenta la questione del senso. «Saremo l’inferno che ci state lasciando» attesta l’implosione culturale di una società che non investe sui giovani, parcheggiati nelle scuole, nella università o nel precariato. Che società è, si chiede Galimberti, quella che non impiega il massimo della sua forza biologica, che si esprime in un’età che va dai quindici ai trent’anni, progettando, ideando, generando, se solo si prospetta loro una meta realistica, credibile? In questa progettualità è implicita la “trascendenza di una speranza” (e non la regressiva speranza di una trascendenza) in grado di attivare quelle forze che essi sentono dentro di loro, ma che poi sono costretti a far implodere anticipando la delusione per non vedersela di fronte.

Per un verso l’inferno è questa implosione, è la delusione che non segue ad un fallimento ma che è anticipata perché il mondo non si presenta come un luogo dove proiettare i propri sogni. L’inferno è la tentazione di fare affidamento sulla vastità della catastrofe in corso per far evolvere le menti, come ci esorta a credere una vecchia citazione di Hölderlin: «Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva». Ma si può sperare che sia solo il pericolo, lo stare ad un passo dalla catastrofe a salvarci? Come se il messaggio da indirizzare alle vecchie generazioni fosse: «Dovete prendere atto che il ritorno improvviso dei limiti planetari implica che il mondo a cui conduceva ciecamente la modernizzazione non esiste, che è diventato sinonimo di sistema di distruzione. E se non lo capite dovremo incarnare questa distruzione. Saremo ciò che voi, con le vostre azioni, state facendo di noi». Certo si potrebbe trattare di rivolte isolate, che hanno il carattere dell’immediatezza, in cui a dominare è la negatività e la volontà di distruzione. A costituire questo “noi” potrebbe essere la pura espressione di una rabbia prepolitica, che si costituisce intorno degli obiettivi da distruggere.

D’altro canto, però, questa apparente dichiarazione di guerra può avere un senso opposto, che riflette un fatto straordinario: l’inversione dei legami generativi che il cambiamento climatico instaura tra le generazioni. Nella società presente, avvitata in un vortice sempre più drammatico di insicurezza cronica e autodistruttività, ci sono forze che non si lasciano irretire nella trama di vincoli sottili nella misura in cui questi non lasciano altra scelta che seguire la corrente o naufragare. Quando la nuova generazione, anche al di là dell’età, comincia ad associare la produzione alla distruzione delle condizioni di abitabilità del pianeta, questo fatto deve rendere consapevoli che la direzione dell’agire e della storia non può più essere la stessa. A quel punto non si può che provare un senso di estraneità rispetto al modo in cui è stato abitato il nostro pianeta. L’inferno sarebbe la non-abitabilità di un mondo, che i più ancora considerano come “il migliore dei mondi possibili”.

Scollegare il mondo che abitiamo dal mondo di cui disponiamo come risorsa per i nostri usi, non è solo una questione di spazio ma anche di tempo. Questa dissociazione ci ha portato a vivere ipotecando il futuro, con la conseguenza di far ricadere sulle generazioni successive l’onere di risolvere i problemi del presente. Da qui deriva la sensazione di essere stati traditi dalle generazioni più anziane e di ritrovarsi senza futuro, con un futuro che è stato divorato in anticipo. Tornano attuali le questioni generative del passato, quelle tradizionali che le generazioni adulte hanno deliberatamente sacrificato.

Dichiarare di voler essere l’inferno potrebbe esprimere il massimo del nichilismo, come quando si dice, seguendo Nietzsche, «tutti i valori si svalutano». A quel punto non resta che identificarsi con questa svalutazione e far agire la pulsione di morte, in una delle sue tante versioni, come depressione, disperazione, oppure come aggressività da riversare su quel mondo adulto che ha determinato questo stato di cose. Sappiamo però che per Nietzsche non esiste solo il nichilismo passivo, ma anche quello attivo: lo smascheramento dei falsi valori diventa la premessa per l’oltrepassamento dell’uomo così come lo abbiamo conosciuto, a cui subentra un essere umano capace di restaurare le ragioni della molteplicità e della potenza affermativa. L’”oltre-umanità” incarnata dalle generazioni a venire non ha più la prospettiva antropocentrica, ma assume il punto di vista dell’essere, e dell’essere non abbiamo nessun’altra rappresentazione se non come “vivere”. C’è una percentuale sempre maggiore di popolazione che non si vuole rassegnare. Non disconosce l’atmosfera pesante della mancanza del nichilismo senza scopo e senza perché, ma non si rassegna e si promuove in tanti modi diversi, sempre secondo una traiettoria antropodecentrica (per esempio nelle campagne di sostenibilità ambientale), senza spegnere i propri sogni.

La capacità della mente di sognare, l’immaginazione produttiva, è il pharmakon naturale antitetico al nichilismo della “società automatica” perché è il reale stesso: le sue immagini sono la traduzione, in termini di ideazione, della natura ancora viva in noi, il suo ultimo testimone contro ad una realtà sociale il cui modello consumistico è artificio, finzione. Fintanto che il capitalismo 24/7 non avrà distrutto le condizioni del sonno, le immagini del sogno rappresentano una resistenza, ciò che ci consente ancora di percepire che qualcosa non è compatibile con la nostra vera natura. Il sogno è resistenza, il luogo di una creatività originaria.  

Torniamo infine alla domanda: come si cambia il mondo? Qual è il compito che attende chi si propone di modificare il senso della storia? In che modo le battaglie ecologiche possono definire l’orizzonte politico come in altre epoche hanno fatto il liberalismo, i socialismi, il neoliberismo, e ora le destre?  Perché è fondamentale la lotta delle idee? Dichiarare «saremo l’inferno che ci state lasciando», non testimonia forse una drammatica presenza al proprio tempo, come accettazione del proprio destino? Essere presenti al proprio tempo è una forma alta di responsabilità, non esprime niente di individualistico, perché implica stare nel punto di incrocio e di scontro tra la propria posizione singolare e le appartenenze non scelte, di cui però in qualche modo si deve rispondere.  In essa si esprime una volontà affermativa, la volontà di essere e far sentire la propria presenza. Nonostante la drammaticità, si esprime anche qualcosa di gioioso, tenendo conto che la gioia non è la felicità. La felicità implica un mondo che corrisponda al nostro desiderio, che ci riconosca e ci dia il “mandato a vivere”, mentre la gioia esprime un più di vita al cuore della vita, a volte persino a costo della nostra vita. La gioia è il segno di ciò che in filosofia si chiama “evento” e l’evento non integra ad un mondo già dato, ma è creazione di mondo. La gioia ha dietro di sé il travaglio dell’orgoglio che si pone al di là del principio di piacere, ha a che fare con una nascita, e dunque con i patimenti che ogni espulsione comporta.

Abbiamo cominciato parlando del mondo come di una costruzione collettiva più o meno coerente di credenze e aspettative tacite. Nel libero gioco delle concordanze ogni società seleziona quali possibilità siano reali e quali no. Si tratta di un mondo logico i cui confini tracciati dalla selezione delle possibilità hanno un peso determinante per la stabilità dell’ordine sociale. Il problema è che nell’ultimo secolo tanto il sistema degli Stati sovrani quanto la rete mondiale dei mercati si sono sviluppati secondo una logica (competitiva) tale che, per stabilizzare il proprio mondo e creare ordine, ciascun soggetto organizzato non ha esitato a destabilizzare il resto del Terra e ad esportare disordine. Come afferma De Carolis, per trasformare gli equilibri i movimenti di massa dovrebbero far proprie le esigenze di autodeterminazione appartenute un tempo tanto al popolo quanto alla società civile.  Questi movimenti dovrebbero riuscire ad articolare assieme decisione collettiva e libertà individuale. Con l’aggiunta che, a differenza del passato, una tale convergenza dovrebbe realizzarsi in un’”antistruttura” fluida ed eterogenea, senza poter contare sul sostegno di alcuna autorità consolidata: né lo Stato né le forze egemoni all’interno del mercato, cioè quei soggetti organizzati interessati a capitalizzare la sua energia costituente per convertirla in potere e valore.  È come se le contestazioni delle aggregazioni giovanili, in cui riconosciamo qualcosa della energia delle primavere arabe o delle rivolte a guida femminista iraniane, fossero destinate a rimanere fenomeni estemporanei. Benché nessuno di questi episodi di rivolta sia riuscito a tradursi in un capovolgimento duraturo dell’ordine sociale, il loro fascino sta nell’immediatezza con cui si congiungono le due facce dell’autodeterminazione, politica ed economia (classi subalterne capaci di impersonare il popolo da una parte, ceti produttivi e borghesia liberale dei centri urbani dall’altra). Il problema è che mentre un tempo popolo e società civile, anche se agivano come antistrutture, possedevano pur sempre un ancoraggio nelle dinamiche istituzionali (rispettivamente dello Stato e del mercato), ciò cui danno luogo i movimenti di massa di oggi è solo un’antistruttura che si esprime nell’interruzione dell’ordine istituzionale, cui segue necessariamente un ripristino dell’ordine.

Questo conflitto non solo intergenerazionale è in realtà una guerra, in cui i nemici sono ovunque e soprattutto dentro di noi. È un conflitto che ci chiede di cambiare sentimenti, atteggiamenti, di comprendere il vero significato dell’agire. Ha il senso di una guerra tra due forme di cinismo. Già quarant’anni fa Sloterdijk aveva anticipato che si stava costituendo la moderna società dei cinici. Schiacciato da principi di autoconservazione, il cinico di oggi è un «asociale integrato», che rinuncia a qualsiasi originalità nella costruzione di sé, adeguandosi lucidamente e realisticamente alla tendenza generale, a costo di sacrificare la propria coscienza morale. Nonostante i suoi sintomi depressivi è in grado di conservare una certa capacità produttiva. Il cinico di oggi è così vittima di una scissione tra ragionevolezza e realtà: «Essi sanno quello che fanno. Ma lo fanno». Sappiamo benissimo che la nostra comprensione della realtà è distorta, ma nondimeno ci atteniamo a questa falsità e non la rigettiamo. Quanti di noi infatti non sarebbero disposti a concedere che il sistema nel quale viviamo produce crisi? Tuttavia non siamo disposti a cambiare quasi nulla del nostro stile di vita. Non si tratta semplicemente di accedere all’autentico stato delle cose dopo aver rimosso le lenti deformanti dell’ideologia. L’illusione non sta dalla parte del sapere (ideologia), ma dalla parte di quello che le persone fanno, dalla parte della realtà stessa. Si tratta di una consapevolezza che deve essere conquistata sul piano dell’esperienza. Quello che le persone non sanno è che la loro concreta attività sociale è guidata dall’illusione, da una sorta di inversione feticistica. Per esempio, posso considerarmi vicino alla causa femminista o criticare lo sfruttamento del lavoro o ancora essere un sostenitore della scuola pubblica, ma se poi picchio mia moglie perché non mi stira le camicie o acquisto i prodotti sottocosto e mando mio figlio nelle scuole private, con le mie scelte perseguo solo il mio interesse personale, dimostro di non vedere l’illusione che struttura il mio rapporto effettivo con la realtà.  So come stanno le cose, so ad esempio che la mia idea di libertà maschera una particolare forma di sfruttamento (legata a questo modello di sviluppo) e ciò nonostante agisco come se non lo sapessi (rimango fedele a questa idea di libertà) e resto comodamente attaccato a questa illusione inconscia che non vedo, a questa “fantasia ideologica”.

Di contro al cinismo del nostro mondo, strutturato su un’«apparenza reale», si sta facendo sentire un cinismo di tutt’altra specie, più fedele al suo significato originario. Come ha mostrato Foucault nelle sue ultime lezioni, nel cinico antico c’è uno sforzo di realizzare una «vita vera» per provocare gli altri a capire che si sbagliano, che si smarriscono, e per far esplodere l’ipocrisia dei valori ricevuti. Attraverso l’irruzione dissonante di atti eclatanti e gesti provocatori che rendono visibili iniquità dissimulate, i neocinici contrappongono un atteggiamento più pragmatico che argomentativo, nel senso che tende a sovvertire la cultura ufficiale facendola confrontare con la sua posizione ideologica, con la “posizione di enunciazione” piuttosto che con l’enunciato (si potrebbe dire con Lacan), svelando in questo modo gli interessi egoistici, il profitto, le pretese di potere. Si svela l’ipocrisia strutturale che sta dietro il nostro atteggiamento prevalente.

La vera azione politica è un gesto radicale che richiama ciò che in psicoanalisi è l’”attraversamento della fantasia”, dunque una decostruzione del livello fondamentale sul quale l’egemonia culturale organizza la realtà sociale. Un’azione capace di disturbare per così dire il “nucleo fantasmatico” su cui si regge una società. Tornando alle azioni di protesta si vuole dimostrare che il pericolo per il patrimonio culturale non è la vernice lavabile. Il suo messaggio potrebbe essere quello secondo cui non c’è nulla di irrimediabile. È il cambiamento climatico piuttosto che fa tracollare natura e patrimonio, che sono inscindibili nel nostro paese. Imbrattare il quadro vuole essere un atto dimostrativo per riaffermare che «il patrimonio artistico deve tenerci svegli e non addormentarci» (Montanari). Un atto vero e proprio ha il potere di cambiare (miracolosamente) gli standard con i quali valutiamo la nostra attività, quello che Nietzsche chiamava «trasvalutazione dei valori». In quanto seguono la logica dell’atto, questi gesti comportano la scelta dell’azione ritenuta insensata, criminale, incomprensibile, irrazionale. Questo per un motivo preciso, perché l’atto ha luogo quando la scelta del «Peggio» (di ciò che, all’interno di una certa situazione, appare come tale) cambia il parametro stesso di ciò che è buono e di ciò che è cattivo, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto (Zizek). In politica il moderatismo cinico, largamente egemone, solitamente sostiene che il mondo possa e debba sussistere tale e quale e quando fa delle concessioni lo scopo è di fare in modo che tutto resti nel quadro dell’ordine precedente. Sotto questo riguardo, le azioni di disobbedienza civile rappresentano delle azioni con valore trasformativo nella misura in cui si dimostra di far proprio esattamente ciò che il cinico pragmatico di centro considera essere una scelta catastrofica dell’”impossibile”, per far sì che questo gesto modifichi la cornice di ciò che viene ritenuto “accettabile”.

Li chiamerei “giovani, adulti”, separati solo da un piccolo segno di cesura, una virgola, a significare una “differenza minima” che li unisce e li separa e che si è aperto uno scarto all’interno del mondo. L’ampio orizzonte di persone che condivide la nuova razionalità ecologica, soprattutto i giovani attivisti, deve accettare che, rispetto all’emergere di una nuova sensibilità e di nuove idee, ci siano ostacoli dovuti alla dispersione delle forze e delle esperienze. L’esigenza di comporre le forze obbliga a rallentare per individuare le alleanze da stringere. È vero, questo movimento si caratterizza per la convinzione che non c’è più tempo («siamo l’ultima generazione»). Eppure, mentre si cerca di imprimere un’accelerazione alla storia, non si può non tener conto, realisticamente, della situazione economica, culturale e politica. Tutti i movimenti, tutte le lotte di classe del passato, hanno sempre richiesto un periodo di preparazione, una lotta delle idee all’interno dello stesso fronte e soprattutto la conquista dell’egemonia. Per questo occorre resistere ad una certa idea rivoluzionaria che pretenderebbe di cambiare le cose con un colpo violento. La protesta non può bruciare subito, rischierebbe di essere qualcosa di estemporaneo, che si spegne nel momento in cui si sfoga. Occorre la capacità di tenere viva il thymòs, l’energia trasformatrice, attraverso una pianificazione. Una pazienza fremente di rabbia è la virtù che i rivoluzionari diventati nel frattempo “Riparatori” devono apprendere per poter accelerare la maturazione dei tempi.

NOTE:

[1] Pensare che la democrazia si esaurisca in questa forma di libertà rivela l’impoverimento della politica e della stessa idea di libertà, ridotte a mera facciata.

[2] Qui il significato del termine catastrofe, ripreso dalla “teoria delle catastrofi”, intende un evento puntuale, locale, specifico all’interno dei processi di riproduzione del sistema che però ne scardina gli equilibri al punto di trasformare in modo rapido tutta la dinamica.    

[3] Vale la pena ricordare il testo di questo articolo: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

[4] Bergson ha affermato che la mente umana è fatta in modo tale che non può iniziare a comprendere il nuovo finché non ha fatto tutto ciò che è in suo potere per relazionarlo al vecchio. La maggior parte delle persone resiste a nuovi concetti che non sono familiari, o a quelli che non riescono a capire, per paura dell’ignoto, di dover lasciare le proprie zone di comfort. L’intolleranza verso l’ambiguità delle situazioni è il segno della paura di perdere potere. Come abbiamo detto, la filosofia può fare tantissimo per accompagnare la vera formazione, nella sua tendenza spontanea a mettere in movimento il già noto, per far crescere e sviluppare l’elemento eterogeneo, minoritario. C’è sempre altro da pensare. Il pensiero è incontenibile, va sempre verso altre possibilità. Per esso ci vuole coraggio.

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