Tra i personaggi del mito greco, Odisseo è forse il più celebre nonché il più vicino alla sensibilità e all’immaginario contemporaneo, tanto in ragione della sua consistente presenza nella tradizione didattica scolastica e nella divulgazione scientifica quanto per le innumerevoli riscritture e rivisitazioni della sua storia in ambito letterario, musicale, artistico e cinematografico.
A rendere il sovrano di Itaca così popolare presso i moderni sono però soprattutto le sue peculiari attitudini morali e intellettuali, che lo differenziano da tutti gli altri eroi del mito fin dagli albori della letteratura greca: già nell’Iliade e nell’Odissea – che costituiscono la più antica testimonianza della civiltà letteraria ellenica – Odisseo viene rappresentato dal poeta come il campione umano della metis, una prerogativa percepita in origine come eminentemente divina[1].
Nella tradizione mitica, in effetti, Metis è innanzitutto una dea, figlia di Oceano e Teti; complice di Zeus nella sua ascesa al trono dell’Olimpo, è lei che somministra a Crono il pharmakon capace di far vomitare al Titano tutti i suoi figli precedentemente divorati[2]; dopo la vittoria, Zeus la sceglie come sua prima sposa; la dea vorrebbe sottrarsi, assume molteplici forme per non farsi catturare, ma alla fine deve cedere al potere del nuovo signore. Rimasta incinta di una femmina, verrà poi inghiottita dallo stesso Zeus che in seguito darà alla luce la figlia già adulta e in armi, facendola uscire direttamente dalla sua testa[3]: si tratta di Atena, la dea della saggezza e della strategia e – non a caso – la principale protettrice e sostenitrice di Odisseo.
Intesa come nome comune, la metis – un termine dalla storia lunga ma usato prevalentemente in contesti poetici, spesso in epiteti composti – indica una forma di intelligenza ‘applicata’ per così dire, una saggezza volta alla risoluzione di problemi contingenti attraverso l’esercizio di un sapere tecnico-pratico e/o di artifici ingannevoli[4].
Nei poemi omerici, l’epiteto più usato per caratterizzare Odisseo è quello di polymetis, ‘dalla molteplice metis’; l’aggettivo ricorre, tra Iliade e Odissea, poco meno di una novantina di volte, sempre legato all’eroe di Itaca[5] e quasi sempre nella medesima posizione metrica, in contesti per lo più formulari. Si tratta cioè, a ben vedere, di un vero e proprio marchio, che accompagna il personaggio attraverso tutte le sue peregrinazioni per terra e per mare, e che resterà a segnarlo anche oltre i confini della letteratura greca antica.
Ma in cosa consiste esattamente la metis di Odisseo?
Per comprenderne appieno le sfaccettature, può essere utile analizzare e contestualizzare anche gli altri attributi dell’eroe, in parallelo alle vicende mitiche che lo vedono protagonista.
In termini frequenziali, il secondo epiteto usato nell’epica arcaica per caratterizzare Odisseo è polytlas, ‘che molto sopporta’[6]. E in effetti, uno dei tratti distintivi della personalità dell’eroe è proprio la capacità di sopportare le sventure, di accettare stoicamente tutte le situazioni, anche le più difficili, e di fare fronte alle avversità con abnegazione, senza tuttavia arrendersi all’inazione; è con questo spirito che Odisseo affronta i numerosi naufragi, la violenza brutale del ciclope Polifemo, la perdita progressiva di tutta la sua flotta[7] e la lunga prigionia dorata nell’isola di Calypso[8]; soprattutto, è con la medesima attitudine che, in panni da mendicante, subisce in silenzio nella sua stessa casa gli abusi e le vessazioni dei pretendenti e dei loro servi[9]. In questi atti di sottomissione c’è per un verso la cognizione di essere, in quanto mortale, ineluttabilmente sottoposto alla mutevole volontà degli dei e del fato; ma c’è anche la consapevolezza che solo dopo aver abbracciato lucidamente il proprio destino è possibile affrontarlo, esercitando l’intelligenza per aggirare gli ostacoli: l’accettazione, in altre parole, è il primo passo della metis.
Un altro degli epiteti più usati dal testo epico per definire la personalità di Odisseo è quello di polymechanos, che con una perifrasi potremmo tradurre ‘dalle molte risorse’. Il verbo mechanao[10], già nei poemi omerici, definisce al contempo la capacità tecnica di costruire oggetti materiali e dispositivi, ma anche l’abilità di ‘macchinare’, ‘tramare’ e immaginare soluzioni ai problemi[11]. L’eroe di Itaca, a ben vedere, padroneggia compiutamente entrambe queste competenze: da un lato mostra di possedere una ‘intelligenza tecnica’ che gli consente ad esempio di costruire con perizia una perfetta imbarcazione[12] o di intagliare un talamo nel tronco di un ulivo e edificarvi attorno tutta la sua dimora[13]; dall’altro, non si contano le situazioni in cui un inganno ordito dalla metis di Odisseo riesce a risolvere fruttuosamente un problema apparentemente irresolubile. La tradizione mitografica ci informa ad esempio della circostanza in cui Tindaro, il padre di Elena, dovendo scegliere un marito tra i numerosi pretendenti della figlia e temendo possibili ritorsioni di coloro che fossero stati esclusi, si affidò proprio a Odisseo, che escogitò lo stratagemma di far giurare fedeltà, amicizia e alleanza militare a tutti gli eroi achei prima della scelta, con la clausola di sostenere e spalleggiare il futuro marito della donna contro chiunque avesse voluto sottrargliela[14]. Celeberrime poi sono le macchinazioni ingannevoli dell’eroe narrate nell’Odissea, dal cavallo di Troia[15] allo stratagemma della cera nelle orecchie dei compagni per non incorrere nella minaccia delle sirene[16], dall’accecamento di Polifemo dopo averlo fatto ubriacare alla fuga degli Achei dalla grotta del ciclope legati alla pancia dei montoni[17]; questi episodi, ben noti al pubblico dell’epica e poi ripresi, citati e assurti a paradigma dell’astuzia di Odisseo per tutto il corso della letteratura greca, hanno colpito fin dall’età arcaica anche l’immaginario di scultori, pittori e ceramografi, diventando dei veri e propri topoi iconografici per la rappresentazione dell’eroe.
Non sempre l’astuzia di Odisseo è volta al bene comune. Ampiamente noto è ad esempio il conflitto con Aiace Telamonio per il possesso delle armi di Achille, che porta il guerriero acheo alla pazzia e al suicidio[18]. Meno conosciuto è invece l’episodio di Palamede, colpevole di aver smascherato il sovrano di Itaca quando, nel tentativo di sottrarsi alla spedizione contro i Troiani, si era finto pazzo[19]; per vendicarsi, Odisseo ordisce un feroce inganno, accusando l’eroe di tramare con il nemico, fabbricando le prove del tradimento (una falsa lettera scritta da Priamo e una grande quantità di oro seppellita nella sua tenda) e condannandolo così alla morte[20].
Ma la metis del sovrano di Itaca, come vedremo, va ben oltre la semplice astuzia. Nell’Odissea, l’eroe viene più volte definito come polyphron, ‘dalla molta saggezza’; un attributo, questo, che egli condivide, nei poemi omerici, niente meno che con il dio delle tecniche e delle arti, Efesto. Il termine polyphron è connesso linguisticamente al verbo phroneo, che indica, già nell’epica arcaica, l’atto del pensare e del sentire insieme, il ragionamento che deriva dal sentimento[21]: una saggezza, dunque, che implica tanto un atto razionale quanto una intelligenza emotiva, una capacità di comprendere nell’accezione più ampia. Questa speciale saggezza di Odisseo si esplica innanzitutto sul piano del discorso: i suoi pensieri sono fitti[22], ma le sue parole sembrano fiocchi di neve in inverno[23]; nell’Iliade, la sua capacità di argomentazione e di mediazione fa sì che i guerrieri Achei affidino a lui le più importanti ambasciate pubbliche – come quella presso il sovrano di Troia Priamo per richiedere la restituzione di Elena ed evitare così la guerra[24] o quella al sacerdote Crise, per restituirgli la figlia Criseide[25] – nonché le più spinose questioni interne: su consiglio del vecchio Nestore, sarà proprio Odisseo a guidare la spedizione presso la tenda di Achille, per provare a convincere l’eroe a ritornare a combattere, nonostante il conflitto con Agamennone[26].
Quanto poi all’Odissea, le parole del sovrano di Itaca nel lungo e faticoso viaggio di ritorno a casa, spesso menzognere per necessità di sopravvivenza, non sono certo meno sottili e raffinate: emblematico in questo senso è il gioco linguistico con il quale egli inganna il ciclope Polifemo dicendo di chiamarsi ‘Nessuno’, Outis, che alle orecchie del pubblico greco doveva suonare come una pronuncia corrotta e biascicata del suo vero nome Odysseus[27]. Menzognere, poi sono anche le perfette parole con cui a Itaca, in vesti da mendicante, racconta a Eumeo una storia ambientata sotto le mura di Troia, per indurre il porcaro a cedergli la tunica per la notte[28]: una storia falsa, ma perfettamente credibile nei toni, nella caratterizzazione dei personaggi (protagonista lo stesso Odisseo) e nell’ambientazione bellica. Con la stessa techne narrativa – molte menzogne simili al vero[29], dice il poeta – il mendicante racconterà prima a Eumeo, poi ad Antinoo e infine a Penelope le vicissitudini che lo hanno portato a Itaca[30]: anche queste storie sono fittizie ma pienamente plausibili, simili tra loro nello schema generale ma differenti l’una dall’altra per piccoli particolari, studiati appositamente per suscitare di volta in volta la pietà, la simpatia e l’immedesimazione di ciascun interlocutore.
Non solo di parole, tuttavia, si sostanzia il phronein di Odisseo. L’eroe mostra in più occasioni di possedere e padroneggiare anche una acuta intelligenza dello spazio, una metis prossemica che gli consente di posizionarsi, fisicamente e simbolicamente, nei luoghi più opportuni in relazione alle diverse situazioni e ai diversi soggetti con cui interagisce[31]. Quando, nudo e coperto di salsedine, si trova davanti alla principessa Nausicaa, Odisseo è indeciso se gettarsi alle ginocchia della fanciulla supplicando pietà o se invece rivolgersi a lei da lontano con parole di miele[32]: valutato il contesto[33], l’eroe sceglie la seconda ipotesi, e con questo semplice accorgimento di natura spaziale orienta opportunamente fin dal principio tutte le interazioni con i sovrani di Scheria, ponendosi non come un derelitto disperato in cerca di protezione ma come un loro pari, un sovrano di popoli anch’egli, temporaneamente caduto nella sventura. Perfetta è poi, nella seconda parte dell’Odissea, la sua conoscenza dei codici prossemici dell’accattonaggio: nella sua casa, in panni da straccione, Odisseo agisce – afferma il poeta – come se fosse stato un mendicante da sempre[34], tendendo la mano per chiedere cibo, sopportando gli insulti e posizionandosi sulla soglia, il luogo marginale deputato ad accogliere chi chiede l’elemosina.
Con il travestimento da mendicante, veniamo così a un altro epiteto che definisce la personalità di Odisseo, quello meno usato dal punto di vista frequenziale ma probabilmente il più icastico ed efficace, se il poeta dell’Odissea sceglie di impiegarlo nel verso di apertura del suo poema, ben prima di pronunciare il nome stesso dell’eroe: polytropos[35]. Potremmo tradurre il termine usando un unico aggettivo: versatile, multiforme, mutevole, ad esempio; ma l’attributo – in accordo con il verbo trepo (volgersi, adattarsi, mutare) che ne costituisce uno dei due componenti linguistici – significa letteralmente “colui che si volge da molte parti”.
In tutti i racconti che lo riguardano, Odisseo mostra in effetti una capacità di adattamento e una ‘intelligenza del contesto’ che sono sconosciute ai soggetti con cui interagisce; questa versatilità si esprime e si realizza nei numerosi travestimenti che l’eroe assume ogni volta che se ne presenta la necessità[36], imitando in ciò – con mezzi umani – il potere trasformativo della dea Metis: è un mercante di tessuti quando deve smascherare Achille a Sciro[37], un pezzente che impreca contro i Greci quando deve entrare di soppiatto a Troia per prendere informazioni[38]; è un naufrago a Scheria e un mendicante a Itaca, e le sue maschere – lo sottolineano singolarmente tutte le fonti in nostri possesso, fino alle testimonianze più tarde – non sono solo ben congegnate dal punto di vista del maquillage, per così dire: l’eroe riesce cioè a immedesimarsi fino in fondo nel personaggio che sta interpretando, adottandone comportamenti, modalità prossemiche e discorsi.
In questo senso, Odisseo rappresenta un caso unico tra i personaggi dell’epica omerica. Gli eroi dell’Iliade sono per lo più bidimensionali: vivono passioni brucianti, si scontrano tra loro all’ultimo sangue, odiano, amano e soffrono sempre al massimo grado; sono sovrani e sono guerrieri, e in questo si esaurisce la loro identità, che è suggellata e sostanziata da correlativi oggettivi quali le armi di battaglia, i bottini di guerra e i doni regali offerti e ricevuti. Nessuno di loro – non Agamennone o Aiace, non Menelao o Ettore né, meno che mai, Achille – possiede la duttilità necessaria per spogliarsi, anche solo temporaneamente, di questa essenza identitaria monolitica, sopportando la pressione emotiva di indossare i panni altrui.
Odisseo, al contrario, esibisce una personalità tridimensionale, complessa, mutevole e adattabile; a questa identità multipla corrispondono dunque intelligenze multiple; poikilometis è definito ancora nei due poemi omerici: la sua metis è cioè colorata, screziata, variopinta e piena di sfumature.
È proprio grazie a questa metis multiforme che egli riuscirà – unico tra i suoi compagni d’armi – ad ottenere alla fine tanto il kleos, la gloria eroica della vittoria in guerra, quanto il nostos, il ritorno alla sua Itaca, dove potrà essere finalmente riconosciuto[39].
Ed è proprio in ragione di questa metis, di questa mente colorata[40], che ancora oggi il suo personaggio riesce a emergere dalle pagine arcaiche di un’epica lontana tremila anni, moderno tra gli antichi e moderno tra i moderni, per interrogarci sulla complessità e sulla mutevolezza della condizione umana.
Bibliografia
- Beekes, Etymological Dictionary of Greek, Brill, Leiden – Boston 2010
- Boitani, Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, Einaudi, Torino 2014
- Citati, La mente colorata. Ulisse e l’Odissea, Mondadori, Milano 2002
- De Jong, A Narratological Commentary on the Odyssey, Cambridge 2001
- Detienne – J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1984 (Paris 1974)
- Dougherty, Nobody’s Home: Metis, Improvisation and the Instability of Return in Homer’s Odyssey, in Ramus 44 (2015), pp. 115-140
- Giammellaro, Il mendicante nella Grecia antica. Teoria e modelli, Morcelliana, Roma 2019 (Quaderni di Studi e Materiali di Storia delle Religioni 23)
- Lateiner, Heroic Proxemics. Social Space and Distance in the Odyssey, in Transactions of the American Philological Association 122 (1992), pp. 133-163
- Murnaghan, Disguise and Recognition in the Odyssey, Princeton 1987
- Nagy, The best of the Achaeans. Concept of the Hero in Archaic Greek Poetry, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1979
- Pucci, Les figures de la Métis dans l’Odyssée, in Metis 1 (1986) pp. 7-28
NOTE
[1] Nonostante gli anni trascorsi – ormai poco più di cinquanta – dalla sua prima pubblicazione, lo studio più lucido, ricco e completo sulla metis è ancora quello di Detienne – Vernant 1984. Cfr. anche Pucci 1986.
[2] Apollodoro, Biblioteca I, 2, 1
[3] Esiodo, Teogonia, 886-900; Apollodoro, Biblioteca I, 3, 6.
[4] Detienne – Vernant 1984, pp. 3-4.
[5] Con una sola eccezione, nel XXII libro dell’Iliade, riferito a Efesto.
[6] L’aggettivo è un composto di poly– (molto) con la radice del verbo tlao, ‘sopportare’, la medesima del verbo latino tollo. Se ne trovano 42 occorrenze, di cui 5 nell’Iliade e 37 nell’Odissea, spesso in dizione formulare.
[7] Odissea, IX e X.
[8] Odissea V.
[9] Odissea, XVII-XXII; per un’analisi delle violenze inflitte dai pretendenti a Odisseo mendicante, mi permetto di rimandare al mio Giammellaro 2019, pp. 99-105.
[10] Si tratta di un denominativo, derivato da un sostantivo, mechane, che tuttavia non compare mai nell’epica arcaica; cfr. Beekes 2010, pp. 949-950.
[11] Sulle abilità improvvisative di Odisseo, cfr. Dougherty 2015.
[12] L’intero procedimento è descritto con dovizia di particolari, anche di carattere tecnico, in Odissea V, 228-261.
[13] Odissea XXIII, 190-204.
[14] Apollodoro, Biblioteca III, 10, 8-9; Igino, Miti, 78; l’episodio era già noto dal Catalogo delle donne di Esiodo (fr. 204, vv. 78-85), dove tuttavia non compare l’intervento di Odisseo, probabilmente in ragione di una significativa lacuna testuale subito prima dei versi che riguardano il giuramento.
[15] Odissea IV, 271-290; VII, 499-520; cfr. anche XI, 523-537.
[16] Odissea XII, 166-200.
[17] Odissea IX, 317-397 e 420-445.
[18] L’episodio, che doveva essere narrato per esteso nella Piccola Iliade (uno dei poemi del Ciclo epico purtroppo perduto), è stato reso celebre dalla intensa rappresentazione che ne offre Sofocle nell’Aiace, ma se ne trova una reminiscenza già nell’Odissea (XI, 541-565), allorché Odisseo, sceso nell’Ade per interrogare Tiresia, incontra l’ombra del contendente che si rifiuta di rivolgergli la parola; è in questo frangente che il sovrano di Itaca si pente delle proprie azioni, rinnegando la vittoria nella contesa (548-551).
[19] Secondo il racconto mitico Odisseo, avendo avuto da poco il figlio Telemaco, cerca un espediente per sottrarsi alla spedizione a Troia; decide così di fingersi pazzo: indossa un pileo (copricapo assurto a simbolo della follia), aggioga ad un aratro due animali diversi (un bue e un cavallo) e comincia a spargere fiocchi di sale nei solchi. Per smascherarlo, l’eroe Palamede strappa il neonato dalle braccia della madre e lo colloca davanti all’aratro; Odisseo è costretto a deviare, rivelando così l’inganno. L’episodio, che doveva far parte dei Canti Ciprii (un altro poema perduto del Ciclo epico), è riportato, con diverse varianti, da Apollodoro, Biblioteca, Epitome 3, 7, da Igino, Miti 95 e da varie altre fonti.
[20] Anche la storia di Palamede doveva far parte dei Canti Cipri; la versione più nota è quella riportata dalle fonti mitografiche: Apollodoro, Biblioteca, Epitome 3, 7-8 e Igino 95 e 105, oltre che dal poema perduto di Ditti cretese, originariamente scritto in fenicio e successivamente tradotto in greco, di cui resta solo una traduzione latina del VI sec. d.C. col titolo di Ephemeris Belli Troiani.
[21] Il verbo deriva a sua volta dal sostantivo phren, spesso usato nella sua forma plurale, che definisce al contempo – come spesso accade nell’epica arcaica – una parte fisica del corpo (il diaframma) e una facoltà immateriale (la mente, l’animo o l’intelletto).
[22] Iliade, III, 202.
[23] Iliade III, 222.
[24] Iliade III, 203-224; Apollodoro, Biblioteca, Epitome 3, 28-29.
[25] Iliade I, 440-445.
[26] Iliade IX, 162-306.
[27] Odissea IX, 364-370.
[28] Odissea XIV, 456-509.
[29] Odissea ΧΙΧ, 203.
[30] Odissea XIV, 191-359; XVII, 419-444; XIX, 165-202 e 262-307.
[31] Cfr. Lateiner 1992.
[32] Odissea VI, 127-185.
[33] Il verbo usato (al v. 141) è qui mermerizo, che indica un ragionare esitante, una indecisione tra due opzioni che richiede una speciale attenzione.
[34] Odissea XVII, 366.
[35] Cfr. De Jong 2001, p. 7.
[36] Sulle dinamiche del travestimento nell’Odissea ancora valido è il saggio di Murnaghan 1987.
[37] L’episodio, che doveva far parte dei Canti Ciprii, è riportato, tra gli altri, da Apollodoro, Biblioteca III, 13, 8, da Igino, Miti, 96 e da Stazio, Achilleide I, 726 ss.
[38] Odissea IV, 240-258. L’episodio era narrato per esteso nella Piccola Iliade, e viene ripreso, tra gli altri, da Euripide nell’Ecuba (239-250), dallo Ps.-Euripide nel Reso (498-507 e 710-719) e da Apollodoro, Biblioteca, Epitome 5, 13, oltre che da vari autori più tardi. Cfr. Giammellaro 2019, pp. 85-95.
[39] Sulla questione kleos vs. nostos cfr. Nagy 1979, pp. 26-58; sulle varie forme di riconoscimento nell’Odissea cfr. Boitani 2014, pp. 64-99.
[40] Mutuo l’espressione dal titolo del libro di Citati 2002.