Parla come mangi

Quando si affronta la tematica del cibo in una prospettiva filosofica, è quasi impossibile non partire dalle riflessioni di un importante filosofo attivo intorno alla metà dell’Ottocento, Ludwig Feuerbach. Il quale è riuscito a darci in un’unica formula l’essenza del cibo e quella dell’uomo: «L’uomo è ciò che mangia»[1].

Ai nostri tempi questa massima non suscita più alcuna reazione, è diventata una semplice banalità. Decenni di consumismo ci hanno reso tutti, senza accorgercene, un po’ materialisti e individualisti. Ci siamo abituati ad un certo benessere e valutiamo tutto ciò con cui veniamo a contatto sulla base del piacere immediato che ci offre[2].

In effetti, viviamo nel tempo della grande spettacolarizzazione del cibo e, come ci ricordano sociologi e antropologi, il mangiare si è trasformato in un autentico fenomeno sociale totale. Siamo bombardati da immagini di chef divenuti star mediatiche, gare televisive di cucina, consigli dietetici, cucine etniche, ricettari di tutti i tipi, ma anche aumento dei disturbi alimentari, invenzione di nuove “tribù alimentari” (carnivori, vegetariani, vegani, fruttariani ecc.).

Questo ci dice che l’umanità è passata da una condizione in cui la religione era il grande codice dei comportamenti alimentari ad una caratterizzata dall’emergere di una vera e propria «religione del cibo» (Niola). Un culto della tavola che va molto al di là della semplice nutrizione e che ha assunto forme sempre più ossessive di osservanza alimentare. Da una parte, sovraesposizione del piacere gastronomico e ricerca maniacale dell’eccellenza (“cibomania”), dall’altra, forme di salutismo estremo, dove la nutrizione diviene oggetto preferenziale di proiezioni delle paure e insicurezze (negazione del piacere della tavola caratteristica della “cibofobia”).

Visto che il pensiero scientifico ha inciso nella mentalità comune e nel sentire collettivo, oggi non è affatto un problema riconoscere che l’uomo è ciò che mangia. Del resto il cibo si trasforma nelle cellule e nei tessuti che costituiscono il nostro corpo. E dunque, se siamo il nostro corpo siamo ciò che mangiamo.

Al contempo però dobbiamo dire che c’è anche una “cattiva” scienza che diffonde disinformazione, la quale a sua volta, per guadagni e interessi personali, nutre la macchina del terrorismo alimentare. Una sorta di dittatura del nutrizionismo sempre bisognosa di nuovi spauracchi e di scintillanti miracoli[3].

A metà Ottocento però la frase di Feuerbach appariva piuttosto scandalosa, perché l’uomo pensava di se stesso che la sua essenza fosse altra. Come è noto la cultura europea, influenzata dall’incontro della tradizione platonica con il cristianesimo, si è costruita sulla separazione tra la materialità e la sensibilità del corpo e, dall’altra, l’immaterialità e l’intellegibilità dell’anima, facendo di quest’ultima il presidio del divino nell’umano. Naturalmente anche allora non si poteva negare che l’uomo provasse fame e sete, però c’era sempre la possibilità di distinguere tra un «appetito naturale», legato all’ambito fisiologico del bisogno, e un «appetito sensitivo», in cui il desiderio di cibo superava la soglia del bisogno e il cui eccesso costituiva il peccato di gola.

Tutto ciò che aveva a che fare con il desiderio poteva essere legittimo solo se rinviato oltre il bisogno e proiettato sul piano trascendente. Se il nostro desiderio è infinito solo dall’Infinito può essere colmato. Questo è stato per millenni il comune sentire diffuso nell’opinione popolare, nelle credenze, nell’immaginario e nella rappresentazione di sé stessi degli europei. L’uomo è la sua anima per cui identificarsi soltanto nel proprio corpo e nei suoi bisogni era considerato il nucleo stesso del vizio e del peccato.

Questo modo di pensare ha lasciato delle tracce nel modo di autocomprendersi dell’uomo contemporaneo, le quali tuttavia hanno preso una piega particolare. Mentre nel passato credere nell’anima comportava anche un certo modo di vivere, era cioè un orientamento esistenziale, oggi lo stile di vita contemporaneo sconfessa quella credenza. Permane l’idea di un desiderio infinito, ma questo si è secolarizzato nei dispositivi di una società che propone il consumo come unica strada per colmare il vuoto su cui il desiderio in quanto tale si attiva.

Verrebbe da dire che se c’è qualcosa di infinito oggi sta nel fatto che il vuoto non può mai essere completamente riempito attraverso gli oggetti. Di conseguenza questi devono essere continuamente rinnovati per saturare la mancanza, in un movimento circolare, ingannevole e, appunto, senza fine. Frammentando l’esperienza in una serie di azioni tutte tese soltanto a riempire provvisoriamente il vuoto, la “società dei consumi” sradica il desiderio dal legame che ha con la condizione esistenziale dell’uomo, riducendolo a semplice godimento.

Questo punto è cruciale, perché parlare di cibo comporta innanzitutto riferirsi ai bisogni e ai desideri ad esso connessi. Osservando le trasformazioni culturali che hanno interessato la mentalità comune europea è come se si fosse passati da una teologia (cristiana) del desiderio ad una bioeconomia del desiderio, che ha introiettato il bios nel circuito della produzione, come territorio in espansione per lo sfruttamento economico.

Se nel passato, dunque, c’era il tentativo di oscurare il radicamento nella finitudine e nella corporeità del bisogno proiettando il desiderio nella fuga a specchio verso l’infinito (l’uomo a immagine di Dio), a caratterizzare il presente è un cortocircuito tra bisogno e desiderio che porta ad una infinitizzazione del bisogno stesso. Il desiderio diventa un acceleratore di insoddisfazione per tutto ciò che non ho o non sono.

Cosa ci può offrire allora la formula feuerbachiana (anche oltre le intenzioni dello stesso pensatore tedesco)?

Sicuramente una complessità e una stratificazione che rischiano di perdersi ad una lettura frettolosa. L’aforisma del filosofo costituisce un punto di partenza materialistico in favore di un’antropologia filosofica in grado resistere alla tentazione di surrogare l’onnipotenza di Dio con l’esaltazione dell’umanità. Anche questo non è scontato.

Dire «l’uomo è ciò che mangia» significa che la nostra conoscenza si deve basare sull’esperienza: la fame che ci spinge a nutrirci svela, nella sensazione del vuoto, una comprensione concreta per il pieno di un essere reale, realmente esistente. Il vivente umano ha la tendenza ad alienarsi, a proiettarsi in altro, in un fuori, senza riuscire a riconoscersi in questo altro.

Allora il mangiare diventa un’ottima metafora[4] per disalienare l’essenza dell’uomo, perché ci consente, per un verso, di smascherare quella plurisecolare “sublimazione” del desiderio, dualistica, metafisica e teologico-cristiana; dall’altra, e mi riferisco alla problematica attuale, ci consente di mettere in questione l’idea che il vivente umano si realizzi nel suo diritto infinito al godimento individuale. Riconoscere nel desiderio il bisogno, la sua dimensione naturale significa disinnescare la carica alienante del primo dovuta alla sua tendenza a proiettarsi nell’infinito (oggi del consumo), una tendenza questa di cui si appropria il dispositivo di potere per trasformare il desiderare in un meccanismo di asservimento economico-politico.

Se una buona parte dell’etica degli antichi consisteva nella ricerca di una “metretica” del desiderio (katà mètron, giusta misura, dicevano i greci, come contenimento del desiderio), noi oggi possiamo riferirci, attraverso l’uso metaforico della fame, ad una dietetica del desiderio, allo scopo di costruire un’immagine organica dell’uomo.

La sua stessa corporeità può diventare una misura fisica, morale ed anche estetica. Per riconoscere la misura, però, occorre farla finita con il desiderio infinito dell’Uomo-Dio. Feuerbach ci consente di mettere a tema il cibo in rapporto alla natura umana, nel modo di un filosofare che ha il coraggio di riconoscere al suo inizio il proprio contrario, il non-filosofico, l’impatto con un reale che «è per noi una verità suggellata col nostro sangue». Nell’economia attuale, ad esempio, la perpetuità della crescita crea l’obbligo di tenere il passo con un consumo materiale indefinito, privo del ritmo del vivente, che è fatto di espansione e stabilizzazione[5].

Se si prendesse in considerazione questo ritmo, potremmo capire in che direzione si sta procedendo, valutare i processi a partire da parametri di giustizia sociale. Il materialismo antropologico di Feuerbach ci può aiutare a capire che il segreto dell’essere si rivela innanzitutto all’intuizione sensibile, alla sensazione e alla passione. Solo ciò che altera il mio stato, ciò che è piacevole o doloroso, mostra ciò che «è» oppure ciò che manca.

L’esigenza di nutrimento è preliminare alla soddisfazione di qualunque altro bisogno e questo significa che, ad un primo livello, non esiste un’essenza umana diversa dalla materia che compone il corpo, costruito proprio grazie al cibo ingerito. Dobbiamo pur dire che la svolta materialistica operata a metà Ottocento era stata ampiamente preparata da Hegel, il maestro tanto criticato.

Per il filosofo di Stoccarda l’uomo è «autocoscienza», rispecchiamento di sé in altro (anche sul piano teologico, era stato il pensiero speculativo a dire che Dio non va cercato all’esterno ma all’interno del soggetto). Prima di istituirsi come soggetto logico-epistemico (soggetto di sapere, appartenente al campo concettuale del cogito, dell’”io penso”), l’autocoscienza appare, al primo grado del proprio sviluppo, come desiderio (Begierde), che «non ha ancora alcun’altra determinazione che quella dell’impulso (Triebes), nella misura in cui esso, senza essere determinato dal pensiero, è rivolto ad un oggetto esterno, nel quale cerca soddisfazione…»[6].
In questo passo il termine Begierde pare acquisire semplicemente il significato di fame animale: ciò che viene desiderato è il mondo sensibile e percettivo nel senso che esso viene consumato per la conservazione e la riproduzione della vita.
Sembra un ritorno alle origini, dalla massima cartesiana cogito ergo sum, per la quale il pensiero fa da fondamento all’essere, alla condizione naturale dei nostri progenitori, per i quali valeva piuttosto il detto edo ergo sum («mangio dunque sono»)[7].

Dunque, alla base dell’«autocoscienza» (hegelianamente la forma di esistenza propriamente umana) non c’è la contemplazione ma il desiderio. A differenza dell’atteggiamento puramente contemplativo, il desiderio consente al soggetto di autoesternarsi e autoconoscersi.

Infatti, come dice sempre Hegel, l’uomo che contempla «viene “assorbito” dall’oggetto che contempla» e «non può essere richiamato a sé se non da un Desiderio: per esempio dal desiderio di mangiare». Ma a differenza anche dell’animale, che non s’innalza al di sopra della natura, negata (consumata) nel suo desiderio animale, se non per ricadervi immediatamente con la soddisfazione di questo desiderio (per questo l’animale non può parlare di sé, non può dire “Io”).

Prioritario nella nostra esperienza non è la consapevolezza del fatto che pensiamo e dunque esistiamo. Anche nello stesso Cartesio il Cogito ergo sum non è il primo passo ma il secondo (il primo è Dubito ergo cogito: siccome ha dubitato la ragione gli garantisce che chi dubita pensa, e quindi è).

La mia esperienza primaria non è quella di pensarsi come soggetti, è vedere il mondo attorno a me, non me stesso. Abbiamo un’idea di «me stesso» solo perché ad un certo punto impariamo a proiettare su di noi l’idea di essere umano che abbiamo sviluppato per trattare con i nostri simili, che abbiamo visto specchiato negli altri membri del nostro gruppo. Quello che noi siamo, anche il nostro gusto, dipende da ciò che nel passato ha influito sul nostro sistema: un’immagine sfocata, ma tale da racchiudere mondi. Quelli stessi che, ad esempio, il giovane Marcel di Proust ritrova nel sapore della madeleine, nel suo profumo. La realtà è una collezione di tracce prodotto dall’ordinarsi e disordinarsi del mondo. C’è uno strano empirismo all’origine, costituito da un intreccio di idealismo e materialismo, di cui il mangiare e bere ne è la prima esperienza.      

A questo livello ancora l’uomo, come l’animale, è ciò che mangia, è fatto della materia di cui si nutre, del cibo che lo mantiene in vita.

Rivendicare la piena legittimità del bisogno umano, la sua stessa animalità, naturalità, consente di sviluppare un pensiero critico verso la tendenza dell’uomo ad alienarsi, letteralmente a trasferire il proprio essere in altro, in immagini, idoli, in dispositivi di asservimento e potere. È un po’ come se due secoli fa, dal cibo e dalla funzione primaria del mangiare (con tutti i suoi risvolti sociali, politici, estetici e morali), fosse nata una nuova sensibilità, una nuova attenzione da parte della coscienza europea per i problemi della realtà e per gli interessi della vita materiale. Il corpo con i suoi bisogni diventa la misura di ogni istanza critica[8].

Guardando gli operai inglesi, pressati uno sull’altro nelle fabbriche e nelle abitazioni, dove manca il necessario alla vita, questo nuovo umanesimo poté affermare: «dove per miseria non hai alcuna sostanza in corpo, non hai nemmeno nella tua testa, nella tua sensibilità e nel tuo cuore alcuna ragione e sostanza per la morale» (Feuerbach). Il fondamento della vita è anche il fondamento della morale.

Vengono in mente le parole del papa: «Dimmi come mangi e ti dirò che anima possiedi», denunciando così l’attuale «follia del ventre», il fatto che la gola, la voracità con cui ci siamo scatenati verso i beni del pianeta, è forse il vizio più pericoloso. «Il problema non è il cibo ma la nostra relazione con esso».

Feuerbach direbbe che il problema non è tanto la gola, quanto l’ingordigia di chi non divide il pane quotidiano, di chi mangia anche per gli altri, ignorando la loro fame e la loro miseria.

Come quella del bracciante Satnam Singh, simbolo della condizione alienata e violenta dell’attuale sistema di vita.  

Al fondo di ogni cultura c’è una natura che si pone come limite, metro, misura. Per riconoscere e svelare il desiderio infinito, non è più la religione del vecchio Dio il luogo dove cercare. Da molto tempo una nuova forma religiosa (citata dal giovane Marx) era cresciuta intorno ad un dio visibile davvero magico, un dio che può tutto, anche le cose impossibili: il denaro.

Agli dei di tutte le altre fedi il denaro contrappone la pura astrazione dell’infinito sotto forma di numero; ovvero la promessa di benessere e felicità che si trasforma nel mostro Chimera, di cui la nuova personificazione è il Mercato neoliberista che, come divinità capricciosa, crudele e irrequieta, si mostra assetata di vita in carne e ossa da immolare. 

C’è un primo livello di assimilazione materiale (per così dire ontologica) del soggetto nell’oggetto, per cui diciamo che effettivamente siamo fatti di chimica. «Assimilare» significa rendere simile a sé l’altro, per cui l’uomo in un certo senso mangia sé medesimo. Il sangue materno nutre il feto, il latte della balia il bambino, e l’adulto si nutre di quelle sostanze che già lo costituiscono.

E questo era il primo livello. Ma ciò non basta.

Cosa fa l’uomo quando dice di sé «Io»?
Perché la realtà propriamente umana possa costituirsi, il presupposto necessario è certamente il desiderio come istanza che va oltre la sola necessità biologica. La disposizione dell’homo sapiens non è tanto quella di conoscere le cose fuori di lui, ma il riconoscersi in esse, l’autoconoscenza: l’uomo è tale in quanto conoscendo si conosce, è quel vivente che non ha altra identità specifica se non quella di potersi riconoscere.

Propriamente umano è chi, incontrando l’oggetto nel fare, nell’agire, nel pensare, riuscirà comunque a riconoscersi come tale. E aggiungiamo, con Hegel, che per conoscersi veramente il desiderio deve dirigersi verso un’altra autocoscienza, che sarà a sua volta un altro soggetto desiderante; ovvero il riconoscimento di sé attraverso un’altra autocoscienza, un altro uomo (ma qui siamo a un successivo livello, di cui al punto 3).

Ora ci troviamo già su un altro piano dell’esperienza, fatta di simboli, di riconoscimento. Come sappiamo, l’alimentazione è regolata da prescrizioni, ogni cultura ha i suoi divieti. Non mangiamo tutto ciò di cui potremmo cibarci. Dunque, c’è assimilazione del soggetto nell’oggetto, ma c’è anche differenziazione del soggetto rispetto all’oggetto.

L’uomo è anche ciò che non mangia.
Questa negazione non ha niente a che fare con il consumo. Ciò che l’uomo mangia è il risultato di operazioni simboliche. É l’aspetto idealistico, di contro a quello materialistico di base: l’animale umano mangia le sue prescrizioni, i processi culturali attraverso cui da forma al cibo. Qui ci spostiamo più sull’aspetto culturale rispetto a quello naturale. «L’uomo mangia ciò che è» ora vuol dire che non può nutrirsi se non dopo che il cibo sia stato manipolato materialmente, ovvero simbolicamente. Come aveva ben compreso Lévi-Strauss, l’atto apparentemente solo naturale di mangiare e bere è sempre mediato culturalmente attraverso riti, codici, strumenti, regole, divieti. Oltre a rendere visibile la relazione tra natura e cultura, il trattamento culinario del cibo ci mostra, attraverso il passaggio dal «crudo» al «cotto», il processo di umanizzazione. In questa metafora l’ordine della Cultura si sovrappone a quello della Natura imponendole una distorsione originaria, uno “snaturamento”. Nella cottura il «fuoco simbolico» strappa il cibo alla natura (carne) cruda dell’alimento primordiale[9].

Del resto l’animale si nutre mentre l’essere umano mangia. Cioè nel mangiare l’essere umano non si accontenta di consumare gli alimenti, ma insieme li immagina, li pensa, ha con essi un rapporto simbolico. L’uomo è sì un animale, ma un animale simbolico: «Il suo rapporto con la realtà», «è indiretto, circostanziato, differito, selettivo e soprattutto metaforico» (Blumenberg).

Nel suo essere nel mondo, l’animale uomo procede sostituendo prestazioni fisiche con prestazioni verbali, con risposte “retoriche” che implicano la rinuncia alle necessità istintuali per la mera sopravvivenza. Una rinuncia che attiene alla capacità della vita di passare da un livello ambientale di stimoli e risposte univoche alla “culturalità” di un mondo di esperienze polivoche e multiverse.

Abbiamo visto che l’oggetto ha una sua autonomia ed è collegato al bisogno. L’oggetto-cibo è innanzitutto corpo fuori che diviene il corpo che siamo. È addirittura la nostra essenza. Seguendo la logica della alienazione scopriamo l’arcano dell’antropologia, il «mistero» di come siamo fatti: il rapporto del vivente umano con l’oggetto è caratterizzato da un duplice movimento, di proiezione e di rispecchiamento.

Insomma Narciso non era solo un mito fra gli altri. L’animale umano si proietta in tante immagini, ad esempio nell’idea di Dio (da qui è partito Feuerbach), ma poi vede questa proiezione sdoppiata nello specchio. Alienandosi nell’altro da sé l’uomo riproduce se stesso (già davanti alla sua immagine riflessa allo specchio). Solo vedendo la propria duplicità può riconoscersi, mai una volta per tutte, nell’univocità di questo o quel significato: l’altro è sempre lui stesso ma, appunto, come altro da sé. Il mangiare e bere è proprio ciò che ci fa capire questo meccanismo logico, prevenendo le nostre alienazioni e le astrazioni del pensiero.

Il cibo in quanto oggetto esterno che viene consumato, ingerito, digerito, assimilato, è un oggetto necessario, di cui riconosco preliminarmente l’alterità. Un’oggettività dunque ben solida, che alimenta la vita del corpo e consente all’uomo di trasformarsi.

Si vede bene come il nutrimento e il metabolismo, che costituiscono il processo di assimilazione e trasformazione, sono una metafora perfetta per rappresentare la vita della nostra mente, quasi la matrice corporea della nostra capacità di metaforizzare.

Se il cibo è ciò assimilando il quale io mi trasformo, l’oggetto del pensare e dell’agire è a pari titolo, a livello simbolico, lo specchio in cui io mi conosco (mangiare/assimilaretrasformarsiconoscere-riconoscersi).

Il vivente umano non ha altra identità specifica se non quella di riconoscersi. Qualcuno potrebbe obiettare che anche ora che ci occupiamo di un oggetto concreto come il cibo, si finisce a parlare di conoscenza. Ma questo è il nucleo “idealistico” inaggirabile non solo del nostro vivere.

Il nostro modo di fare esperienza è impastato di linguaggio, di esso ci nutriamo. Siamo esseri di linguaggio, per cui quando ci rapportiamo alla cosa, anche la più concreta come il cibo, non possiamo non passare attraverso i simboli, anche se il cibo è una sostanza che può essere astratta dal suo essere per altro. Il cibo per noi non è solo cibo, ma è fatto anche di desideri, di paesaggi emotivi, di immagini.  Il nostro parlare (e scrivere) del cibo non è cibo.

E tuttavia c’è un legame inscindibile tra le funzioni legate al parlare e quelle alimentari, e questo lo vediamo nell’utilizzo di metafore (ancora linguaggio) che intrecciano il digerire della mente e il digerire dello stomaco.

Il problema è non perdersi per strada con le attività intellettuali, non errare per un eccesso di idealismo. Occorre mantenere vivo il riferimento al pensiero immanente dei sensi e degli organi corporei e, in particolare ad un organo fondamentale per rimanere ben impiantati nella esperienza: lo stomaco. Come dire, «parla come mangi» non è solo un detto popolare, ma rivela un fondo di verità.

Se il proprio dell’uomo risiede in questo movimento di rispecchiamento, nel riconoscersi nell’oggetto, allora l’identità si costruisce specchiandosi tanto in quello che si dice, nelle parole del linguaggio che dalla bocca escono, quanto nei cibi che nella bocca entrano (Tagliapietra)[10].

Con una certa ironia, il materialista inventa la «gastrologia» come una nuova disciplina, la quale è alla base della stessa antropologia per via della sua valenza metaforica in grado di esemplificare il funzionamento del dispositivo umano (alienante) della proiezione e la possibilità di ricondurlo alla concretezza del bisogno.

Un percorso di disalienazione operata dallo stesso linguaggio che ci riporta alla dimensione diretta della vita e alla singolarità dell’uomo concreto attraverso la ricchezza dei simboli[11]. Un bel paradosso, ma l’uomo è questo paradosso.

Di contro agli universali astraenti, compresi quelle della scienza quando fuoriescono da loro ambito, torna centrale la situazionalità del corpo, quella che ci consente di fare esperienza. Vuoi mettere mangiare un panino pensando alla territorialità dei prodotti piuttosto che ai carboidrati e alle proteine!

Tenendo fermo dunque il necessario, la sostanza, la cultura può moltiplicare le diversità e dunque le forme dell’esperienza. La raffinatezza della cucina permette alla sensorialità di esprimersi ed educarsi in modo differenziale, cioè valorizzando la differenza dei gusti, che sono il lusso indispensabile della vita. Il passaggio dal dato fisiologico della sostanza che nutre all’ esercizio del gusto capace di distinguere, viene compendiato nel testo di Feuerbach in due frasi icastiche, in cui si passa dal «senza fosforo non c’è pensiero» al «senza sale non c’è arguzia, né acume».

All’interno delle culture vi è un legame che connette la sfera del sapere con quella del sapore. Nella sapidità esperita una cosa acquista il marchio particolare del suo sapore, la sua intrinseca qualità, diversa da tutte le altre. Il “bisogno” di cibo, dunque, è anche un bisogno estetico-identitario, in cui ciascuna cultura e le persone che vi appartengono si riconoscono in sapori e sapienze culinarie specifiche.

Una volta svelato il meccanismo ideologico alienante e proiettivo possiamo passare ad un ulteriore piano di esperienza. Stiamo sempre cercando di capire che esperienza facciamo quando mangiamo e beviamo, quali sono le altre dimensioni che si dischiudono oltre a quella del nutrimento strettamente inteso, e ci imbattiamo nel simbolismo della conversione della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo.

L’implicazione fra l’essere e il mangiare ci consente di interpretare gastrologicamente (antropologicamente, in senso disalienante) le prescrizioni religiose e, in particolare, il sacramento dell’eucarestia.

Il mangiare e bere è in sé stesso un atto religioso, in quanto fenomeno collettivo complesso, espressione di un “noi”. Si prospetta dunque ancora un’altra dimensione, più profonda, che spesso rimane implicita, e se manca non si fa una vera esperienza del cibo: un bisogno etico di convivialità.

Eravamo arrivati a dire che l’uomo mangia anche se medesimo, che c’è una sorta di antropofagia e ora siamo rinviati ad un fenomeno antropologico fondamentale: il sacrificio.

In esso la presenza dei cibi è così essenziale[12] che, studiando la loro trasformazione culturale, possiamo osservare il cammino evolutivo della umanità dalla barbarie alla civiltà, dai sacrifici umani a quelli animali, fino al pane e al vino eucaristici in cui la carne e il sangue lasciano il posto alle loro metafore incruente.

La sostituzione simbolica del sacrificio accompagna il processo di civilizzazione delle istituzioni umane. Se applichiamo la gastrologia alla teologia (gastroteologia) possiamo cogliere nell’eucarestia questo aspetto del noi, della comunione, della partecipazione corale di tutti i membri della comunità, in quanto in essa il corpo di Cristo (l’ostia) viene fatto a pezzi e mangiato, e il sangue bevuto.

Il figlio di Dio si immola offrendosi anzitutto come cibo ai suoi seguaci.

Questo vuol dire che il significato sacrificale risiede nel semplice fatto concreto di mangiare e bere, e dunque già nell’atto del mangiare quotidiano si celebra implicitamente un piccolo sacrificio.

Il pane e il vino sono gli elementi di base che gli esseri umani consumano nei conviti, celebrando ad un livello profondo una comunione con la natura.
Cosa intendiamo qui con natura?

Ormai sappiamo che per l’animale uomo non esistono bisogni primari separati dalla dimensione culturale (linguistica, relazione, identitaria, desiderante ecc.). Dunque la natura non è più solo il bisogno “primario” di nutrirsi per sopravvivere (da cui la vergogna dell’ingordigia insensibile alla povertà, al patire la fame e la sete), né il bisogno “primario” di umanizzare il cibo (“dal crudo al cotto”).

C’è, per così dire, un terzo bisogno primario che risuona in modo immemoriale nell’atto di mangiare.

Per capirlo occorre ritornare ai miti greci e, in particolare, ad un mito antichissimo, molto anteriore a quello cristiano: il mito del sacrificio di Dioniso, non a caso dio dei banchetti e del vino. Se il celebre mito di Prometeo è incentrato sui rapporti di comunicazione che il sacrificio permette di stabilire tra dei e uomini (della vittima animale, scelta in quanto vicina all’uomo senza tuttavia confondersi con lui, ciascuno, sia il dio che l’uomo, riceve la parte che lo definirà), al contrario, nel mito orfico dell’uccisione di Dioniso, i Titani (gli uccisori) non hanno nessuna funzione mediatrice.

Come dice Detienne, tutto il loro comportamento li respinge dalla parte degli uomini, e gli dei sono dalla parte del fanciullo che fa da vittima (Dioniso).

Un mito non più sulla distanza che può essere oltrepassata, ma sul decadimento e la miseria del genere umano, condannato a sorgere dai residui di un crimine sempre rinnovato, nell’ignoranza confusa, dalle gesta quotidiane di chi crede di rendere grazie agli dei divorando le carni di vittime sgozzate.

Il fanciullo è il simbolo dell’eterna rinascita e redenzione della vita, che recupera il proprio principio (arché) e si apre alla speranza nel futuro (la figura di Gesù bambino è modellata su questi antichissimi archetipi).

I Titani sono, invece, lo scatenarsi della violenza che divide e che dà luogo ad un molteplice segnato dalla passionalità e conflittualità “adulte”. L’uomo ha in sé la duplicità di questi due principi, l’uomo è questa duplicità. E il cibo lo rivela. 

Quello di Dioniso è un crimine di cui il genere umano continuerà ad essere partecipe fino a quando non avrà riconosciuto la sua origine titanica ed avrà iniziato a purificare l’elemento divino imprigionato in lui dalla voracità di coloro che, un tempo, hanno sgozzato il giovane dio.

Dioniso rappresenta il sopraggiungere di una nuova esperienza del divino e dell’umano (e dunque del cibo) che arricchisce l’immagine che l’uomo ha di sé stesso e del vivere in comune.
Nel mito viene messa in questione la classificazione delle differenze della cultura tradizionale, facendo cadere tutte le barriere che caratterizzavano il mondo organizzato: fra l’uomo e il dio, il naturale e il soprannaturale, fra l’umano, l’animale e il vegetale, barriere sociali, frontiere dell’io (Vernant). Qui vediamo come la centralità dell’atto di mangiare nel sacrificio e la condivisione degli alimenti nel pasto comune diventano potenzialmente forieri di una società conviviale, pacificamente gioiosa e egualitaria. Provate a mangiare da soli e osservatevi per rendervi conto di come l’esperienza del mangiare diventi limitata, ristretta, un’esperienza povera di mondo.

Nel mangiare assieme il rapporto dell’uomo con il cibo acquista una complessità maggiore dovuta alla «doppia oralità del parlare e del mangiare». La convivialità comporta un’interazione a più livelli tra corpo e spirito, tra sé e l’altro. Al benessere strettamente personale del corpo nutrito si aggiungono il movente sociale dello stare insieme, la curiosità conoscitiva e affettiva della comunicazione, il piacere della conversazione e la voluttà del motto di spirito che riporta al corpo l’effetto dell’attività conviviale (Tagliapietra).

I tre piani dell’esperienza del cibo sono strettamente collegati: così come a partire dal bisogno comune del necessario pane quotidiano possono nascere e moltiplicarsi la ricchezza delle differenze, allo stesso modo, in ogni banchetto festivo pubblico, le stesse persone che confliggono per opinioni politiche morali e religiose, o per le loro differenze culturali, si trovano però d’accordo sull’universalità del principio di mangiare e bere bene, dimostrando che esiste un gusto comune.

Istruiti da Dioniso ora capiamo cos’è il contrario dell’ingordigia di chi non divide il pane quotidiano, di chi mangia anche per gli altri: è la compassione che ci unisce alle persone estranee in quanto riconosciute simili a noi.

Il cibo si è fatto puro simbolo, non più soltanto ciò che è (cibo che nutre), una negazione in questo caso inclusiva che diventa per ciò stesso una promessa di futuro.

Purtroppo capiamo anche che la parola «sacrificio» può essere associata a tutt’altra mistica, quella ineffabile dei mercati, dove l’economia sostituisce la teologia e il denaro diventa il simbolo in cui si è incarnato l’ultimo dio.

E così il cibo divorato diventa espressione di voracità, mancanza di gusto, cinismo e indifferenza verso la marginalità. Quella marginalità che contrassegna gli adepti di Dioniso… quella stessa di Satnam Singh.

Sembra quasi che il mangiare e il bere siano la condizione per trovare una misura per l’uomo tra il bestiale e il divino. Oltre all’infinita varietà di espressioni che ruotano intorno alla sfera culinaria, “Di cotte e di crude” rappresenta forse quella dimensione indeterminata dell’uomo, tra l’essere un lupo o l’essere un dio per l’altro uomo.   

NOTE

[1]Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, Bollati Boringhieri, 2017, con un saggio introduttivo di Andrea Tagliapietra.

[2] Nel precedente numero di Dromo abbiamo trattato il tema della “promessa”, divenuta oggi promessa di benessere che l’umano affida alla tecnoscienza. La quale promette di assicurarlo come quell’essere sempre bene a cui aspira ogni creatura e che finisce per rivelarsi una Chimera. Con il termine chimera non intendo una semplice illusione ma la creatura mostruosa del mito, qualcosa cioè che, letteralmente, mostra effetti imprevedibili e potenzialmente catastrofici. Ad ogni modo, il decalogo del wellness ha messo l’Io al posto di Dio e il corpo al posto dell’anima. Tale promessa si traduce di fatto nella promessa di consumo, il cui oggetto per eccellenza, con tutta evidenza, è il cibo.

[3] Secondo il paradigma medico-dietetico più recente, ad esempio, il consumo di vino è solo nocivo (un po’ come quello del fumo). In ogni caso la tendenza va nella direzione di un aumento di prescrizioni e divieti, anche laddove gli effetti dell’alimentazione non siano così determinanti per la salute.

[4] Le metafore sono modelli euristici che ci fanno vedere nuovi aspetti della realtà e dunque apportano un incremento cognitivo.

[5] La macroeconomia, come le tecnologie digitali e algoritmiche, può essere considerata come un ecosistema che, sebbene dipendente dal vivente umano, tende a svilupparsi in modo totalmente autoreferenziale, creando una nuova dimensione di realtà che non riconosce alcuna alterità.

[6] Più tardi anche Freud utilizzerà il termine Trieb, con l’intento di elaborare il primo modello metapsicologico con la distinzione tra pulsione sessuali e pulsioni dell’Io o di autoconservazione. Quest’ultime corrispondono ai bisogni fondamentali, cioè le funzioni indispensabili alla conservazione dell’individuo, il prototipo delle quali è costituito appunto dalla funzione di nutrizione, ossia dalla fame e dalla sete.

[7] Da notare che la frase, volta alla terza persona singolare, suona in latino, “est, ergo est”, con una coincidenza tra l’”essere” e il “mangiare” (una coincidenza che anche la lingua tedesca esibiva a modo suo).

[8] Si pensi al livello di mistificazione politica, relativamente al problema sempre più diffuso della povertà, implicita nell’affermazione di un ministro che di recente ha affermato che «Da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi, cercando dal produttore l’acquisto a basso costo spesso comprano qualità».

[9] Il campo dei bisogni “primari” risulta da sempre negativizzato dall’azione alienante del linguaggio (il simbolo uccide la Cosa). È interessante a questo riguardo la posizione dello strutturalista Lacan che per definire l’incidenza del significante sulla dimensione naturale dei bisogni parla di «deviazione» del bisogno imposta dal linguaggio. Questo vuol dire che il bisogno preserva la sua forza, sebbene deviata in un’altra direzione.

[10] Feuerbach ci ricorda che non solo Omero fissa la distinzione stessa fra uomini e dei a partire dalla distinzione dei cibi di cui si nutrono (l’ambrosia di cui si cibano gli dei è un “cibo immortale”), ma anche che ciascuno mangia solo ciò che si addice alla sua individualità o natura, alla sua età, sesso, ceto, professione, dignità. «Tale è il cibo, tale l’essenza, e come è l’essenza così è il cibo» (solo per fare un esempio, i Greci chiamavano balanofagi, «mangiatori di ghiande», gli Arcadi a indicare la loro natura selvatica e rozza (e quando verranno sostituite dl grano questo determinerà un passaggio di civiltà), oppure i Romani chiamavano i gladiatori hordearii, «nutriti d’orzo»).

[11] Sempre pensando a Proust, nelle prime pagine del suo capolavoro, un mondo intero viene a schiudersi a partire da una semplice sensazione olfattivo-degustativa generata da un dolce e da un sorso di thè di tiglio, un’esperienza spirituale che «aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non si sentiva più mediocre, contingente, mortale».

[12] È interessante notare che in Omero, ai banchetti sacrificali degli Etiopi, gli uomini più remoti, che vivono ai confini estremi della terra, prendono parte gli dei in persona. Proprio in questa lontananza spaziale gli dei si accostano agli uomini nella forma più immediata e prossima, per indicare che sono vicini al vero significato del sacrificio coloro che servono a dei e uomini cibi e bevande, e non simboli e significati mistici. «Sacrificare agli dei significa dar loro da mangiare». Nettare e ambrosia stanno sì a segnare la differenza tra uomini e dei, ma gli dei sono intimamente congiunti agli uomini in quanto in perfetto accordo con le loro aspirazioni più segrete. «Il sacrificio è la rivelazione di tale identità e unità essenziale» (Feuerbach).

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