Migrare all’inferno

Occupandomi professionalmente di migrazioni forzate da oltre 20 anni, mi è parso doveroso e in qualche misura inevitabile partecipare a una delle prime proiezioni disponibili nella mia città del film “Io Capitano” di Matteo Garrone. Non potevo non vederlo e certamente ho fatto bene a farlo. Come è avvenuto anche a altri “addetti ai lavori” e attivisti, con cui ho avuto modo nelle settimane successive di confrontarmi, di persona e attraverso i social, il film mi ha suscitato sentimenti intensi e contrastanti. Provo qui, anche stimolata dal contributo Il capitano e il patto col diavolo della rubrica Stravisioni, a mettere ordine e ad aggiungere qualche riflessione.

Premetterei che un film in grado di suscitare un dibattito animato e articolato come quello che è ancora in corso e, auspicabilmente, continuerà con la diffusione dell’opera in cerchie di pubblico sempre più ampie, ha già raggiunto l’obiettivo di essere culturalmente rilevante. Anche sul valore artistico dell’opera i consensi sono pressoché unanimi. Pur senza essere un’esperta di cinema, a me è parso bellissimo e per certi versi persino perfetto. Corretto, ragionevolmente verosimile, poetico, misurato. Un capolavoro di equilibrio, estetico e narrativo.

Tuttavia, arrivata all’ultima scena, a caldo ho provato un moto di rabbia e frustrazione per tutto quello che nel film non viene detto (anche se in qualche modo viene lasciato intendere, o almeno non negato*). In uno scenario politico che negli ultimi anni non ha fatto che peggiorare, in un crescendo di decisioni e investimenti militari che rendono le frontiere d’Europa un luogo di violenze e di stragi indiscriminate (è in questi giorni nelle sale il documentario Mur di Kasia Smutniak sulle contraddizioni della frontiera polacca), la responsabilità dei nostri governi democraticamente eletti, e quindi di noi cittadini in tutto questo resta fuori dall’inquadratura. Esattamente dieci anni fa, Papa Francesco in visita a Lampedusa aveva scelto di richiamare fortemente a quella responsabilità, citando la domanda di Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello?”.
Facendo riferimento ai migranti che perdono la vita nelle acque del Mediterraneo, il Pontefice aveva usato parole molto dirette:
“Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: ‘Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?’. Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna”.

Assistendo alle peripezie del viaggio, con relative tragedie, violenze e torture (anche se appena accennate, alleggerite, coperte dalla bellezza del Sahara e da altri utili espedienti visivi e narrativi), empatizzando con i protagonisti (che non sono “rifugiati classici”, perseguitati politici, vittime di guerre – che pure viaggiano sulle stesse strade mortali – ma giovani animati di aspirazioni, sogni, entusiasmo e voglia di vivere), lo spettatore non può non chiedersi le ragioni che rendono il loro percorso tanto accidentato. Come osservato da Richard Braude in una interessante recensione al film pubblicata sulla rivista Jacobin Italia, “nell’accogliere il premio a Venezia, un attivista che ha ispirato tante delle storie raccontate ha puntato il dito sul sistema dei visti in meno di un minuto: perché nel film questa denuncia rimane così nascosta?”

Nel pubblico del film ci sarà certamente chi, come me e gli altri addetti ai lavori e attivisti, è ben consapevole delle responsabilità effettive, a tutti i livelli, e le vedrà trasparire qua e là. Ma ci saranno anche tanti spettatori che penseranno che i cattivi sono i libici, o al limite i maltesi che non rispondono al telefono. Tuttavia bisogna anche tenere presente che prima della denuncia, e perché la denuncia possa essere colta e compresa, è necessario una ampia e profonda azione di coinvolgimento e sensibilizzazione, soprattutto nei confronti di chi di sua iniziativa a questi temi non si accosterebbe affatto. E non andrebbe mai a vedere un film che dal punto di vista delle responsabilità italiane in Libia è assai più diretto e esplicito, come L’Ordine delle cose di Andrea Segre.

Con questo non intendo affatto dire che Io Capitano non sia anche, a suo modo, un film politico. Lo è perché artista italiano ha scelto di usare le proprie capacità e la propria voce (che ha un impatto e una risonanza pubblica ampia) per mettere a fuoco un tema che considera rilevante, anche come cittadino. Non credo che Garrone con la sua opera “dia voce a chi non ha voce”, come pure è stato detto e scritto: la voce del film è evidentemente la sua, come è giusto e legittimo che sia, ed è evidentemente diversa, come forma e come contenuti scelti, da quella di registi senegalesi che hanno raccontato quei viaggi dalla loro prospettiva (ad esempio Moussa Traoré, Mati Diop e Moussa Sene Absa, citati da Simona Cella in una recensione assai critica al film sulla rivista Nigrizia, che ha suscitato molte discussioni e persino qualche polemica.

Tuttavia non è da poco la sfida di presentare un film in lingua wolof al pubblico italiano, così come il tentativo di smontare alcuni luoghi comuni senza schiacciare tutto su una sola storia, quella della vittima di guerra o del rifugiato “classico”. Nel film è portante il tema del valore aggiunto della giovinezza dei protagonisti, quella giovinezza diretta in Europa e che noi non riusciamo a cogliere, pur avendone disperatamente bisogno dal punto di vista demografico, economico, ma anche in qualche modo esistenziale e valoriale.

Ed è proprio in questa chiave che mi pare di ritrovare il tema che avrei voluto più evidente nel film, ma che forse – a una visione più meditata e lucida – è addirittura centrale: quello della responsabilità. Il protagonista, nel grido che dà il titolo al film, non fa che rendere esplicita la propria assunzione di responsabilità. Già in altri passaggi della vicenda un ragazzo tanto giovane, pur apparentemente spinto da sogni “leggeri” di successo musicale, è rappresentato come crescentemente disposto e capace di riconoscersi responsabile rispetto ad altri, pur non essendo necessariamente in grado di intervenire (la famiglia, la donna in viaggio nel deserto, il cugino malato). Questo aspetto di Bildungsroman, giustamente evidenziato dalla critica, è un elemento decisivo rispetto alla portata potenzialmente universale del messaggio del film. Seydou prende sul serio persino la responsabilità di guidare il barcone, una responsabilità fittizia e sproporzionata che il trafficante gli affibbia solo per escamotage legale, perché in Italia un minorenne non è imputabile. La coglie e l’assume su di sé specialmente dal momento in cui le guardie costiere europee rifiutano di soccorrere l’imbarcazione. E allora probabilmente, per contrasto, lo spettatore potrebbe chiedersi: se questo viaggio, con relative catabasi ripetute nel dolore fisico proprio e altrui, ha reso il protagonista un uomo, in quanto consapevole e responsabile, perché tutti noi, che pure siamo confrontati di continuo con le conseguenze che politiche sconsiderate hanno non solo sui migranti, ma su tutti noi e sul nostro futuro come Paese, non siamo in grado di aprire gli occhi rispetto a una realtà che pure ci vede così direttamente coinvolti?

* : Un tentativo di immaginare cosa accadrebbe a Seydou e Moussa se arrivassero in Italia oggi è stato fatto dal circolo Arci Porco Rosso di Palermo, nell’ultima newsletter: https://arciporcorosso.it/cosa-succede-dopo-il-film/

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