L’INTELLIGENZA E I SUOI PARADOSSI.
Etica, creatività e confini oltre l’umano

L’intelligenza è una qualità che la nostra specie ha sempre considerato profondamente “umana” e spesso ne ha misurato il valore in base alle capacità di risolvere problemi, sviluppare strategie e innovare.

L’intelligenza, in questa prospettiva, sembrerebbe coincidere con la tecnica, ovvero l’abilità pratica dell’homo faber. Ma si tratta davvero solo di questo?

Definire l’intelligenza è meno ovvio di quanto appaia a prima vista e nel tentare di farlo si aprono inevitabilmente questioni stimolanti quanto insidiose.
Esiste una neutralità dell’intelligenza, così come si pretende esistere una neutralità della scienza?
E se invece così non fosse, scienza e intelligenza sarebbero distinte?
Può esistere scienza senza intelligenza?

C’è poi un elemento che rende la riflessione assai stimolante: l’intelligenza appare come un fatto individuale, potremmo dire un talento in cui Ulisse sopravanza gli altri eroi greci, forse più valenti sotto altri aspetti.
O, al contrario, l‘intelligenza è un fatto sociale, collettivo, così come ci dicono locuzioni quali la “comunità scientifica”, o esperimenti come Wikipedia?
La domanda appare banale?

Eppure la questione delle neurodivergenze la rende meno banale: gli autismi ad alta funzionalità creano non pochi problemi proprio perché l’intelligenza assume questa valenza individuale, potremmo dire privata, tale da renderne difficile il riconoscimento. Quante volte, quindi, rischiamo di trovarci di fronte ad intelligenze private divergenti e per questo misconosciute?

Il prevalere di una  concezione dell’intelligenza legata ai saperi “accademici” rischia di farci dimenticare come in contesti di scarsità le persone sviluppino abilità pratiche e adattive che mostrano come l’intelligenza possa esprimersi in forme straordinariamente diverse: eppure dovremmo ben sapere come l’intelligenza non è solo ciò che possiamo misurare con i test standardizzati, ma che si manifesta nella resilienza, nell’adattabilità e nella capacità di risolvere problemi con risorse limitate, ma anche attraverso processi creativi. Del resto, sono proprio queste considerazioni che hanno consentito di riconoscere l’intelligenza delle specie animali: la capacità di problem-solving e di socializzazione di specie come corvi e delfini è divenuta proverbiale.

Allo stesso tempo, l’IA sta rapidamente sviluppando forme di intelligenza funzionale che, forse diverse dalla nostra, si rivelano estremamente efficaci in ambiti specifici. Che esistano diverse intelligenze è cosa acquisita e non scoperta recente. Anche Platone ne individuava diverse: l’intelligenza dei filosofi, però, era gerarchicamente sovradeterminata rispetto alle altre. Consapevole, infatti, che l’intelligenza dei soldati, dei tecnici, dell’uomo comune, non resiste alla pleonaxia, soggiace cioè al desiderio di avere di più e da questo desiderio è usata come un mezzo, Platone pone i filosofi a guardia per tenere a bada proprio quelle intelligenze, o piuttosto quelle deficienze, incapaci di cogliere il vero bene, ovvero il bene comune.
Allora, socraticamente, si impone la domanda: può esservi intelligenza senza etica?

Comunque, l’esperimento platonico di una Repubblica retta dai filosofi è stato raramente tentato e, ovviamente, anche quelle poche volte non ha funzionato. E tuttavia, ogni società ha cercato in qualche modo di controllare l’umana intelligenza, cercando di non lasciare mai completamente libero Prometeo.

Oggi, forse, con l’affermarsi dell’intelligenza artificiale si ha l’impressione che la scienza si stia definitivamente liberando e i pochi e malfunzionanti intralci posti dai “filosofi” alle intelligenze del fare, sempre più coincidenti con gli animal spirits del capitalismo, stiano per essere spazzati via. Del resto, per chi parteggiare tra Galileo e il Cardinal Bellarmino?

Ammesso poi, come spesso si dice, che sia possibile agire in modo tale che l’intelligenza sia applicata in modo “etico” e orientata a trovare soluzioni che non danneggino il prossimo e che mirino al bene comune, chi può salvarci dall’uso che altre intelligenze possono fare di quelle risposte che le prime hanno trovato?
Quanti film ci hanno narrato di menti malvage pronte a rubare dispositivi tecnici, pure nati per il bene comune?

Basta guardare alla storia per osservare che grandi traguardi dell’ingegno umano, come le scoperte scientifiche o le innovazioni tecnologiche, hanno anche portato a sviluppi devastanti. La tecnologia nucleare ne è un esempio eclatante, usata sia per il bene (nella medicina) sia per la distruzione (nelle armi). La scienza in fondo ha sempre danzato tra il dottor Semmelweis e il dottor Stranamore, tra l’essere portatrice di felicità e benessere, oppure di morte e distruzione.

Ora che l’AI accelera a dismisura la velocità con cui si trovano soluzioni, anche straordinariamente efficaci e di impatto nei campi più diversi, torna a porsi, incalzante, la questione dell’etica.
Può esservi un’intelligenza senza etica?
Può l’intelligenza, ancorché artificiale, non avere un’etica?

Vi è infine una dimensione dell’intelligenza, legata ai linguaggi e alla creatività che non pretende di essere pratica, di risolvere problemi, ma implica la capacità di affrontare l’ignoto, di costruire ponti tra idee disparate e di innovare quando la mappa è sconosciuta. Di rispondere, insomma, ad un bisogno che non ha a che fare con il nutrimento o il lavoro dei campi, e che soddisfa una strana esigenza umana che per semplicità potremmo definire artistica. Come molti concetti di uso comune l’intelligenza è molto di più di una parola polisemica, ed è piuttosto un campo di ricerca in continua espansione e, come diceva Eraclito dell’anima (e questo forse non dovrebbe sorprenderci), per quanto se ne cerchi i confini mai li troveremo.

Se dunque l’intelligenza non è solo la capacità di risolvere problemi, ma è un processo creativo, adattivo e – auspicabilmente – etico, con questo nuovo numero della rivista, intendiamo lanciare una sfida e chiamiamo scienziati, poeti, umanisti, filosofi, artisti, professionisti della cura, scrittori a entrare nel campo della crisi, per capire come sviluppare un’idea di intelligenza più inclusiva e complessa, che consenta di riconoscerne il valore ovunque si manifesti, o almeno – in coerenza con il nome che abbiamo scelto per la nostra rivista – di svolgere la funzione di “dromo”, cioè quel “punto di riferimento naturale o artificiale che serva a far riconoscere la costa ai naviganti”, nella condivisa e a tratti contraddittoria ricerca di senso che ci interpella su questi temi.

 

Ultimi articoli

Cibo e democrazia

Intervista di Maria Teresa Ciammaruconi a Silvano Falocco Silvano Falocco, dirige la “Fondazione Ecosistemi” e coordina la “Scuola Politica Danilo

Read More »