Ma quel mattino aveva il viso dei vent'anni senza rughe
E rabbia ed avventura e ancora vaghe idee di socialismo
Parole dure al padre e dietro tradizione di fame e fughe
E per il suo lavoro, quello che schianta e uccide: il fatalismo
Ma quel mattino aveva quel sentimento nuovo per casa e madre
E per scacciarlo aveva in corpo il primo vino di una cantina
E già sentiva in faccia l'odore d'olio e mare che fa Le Havre
E già sentiva in bocca l'odore della polvere della mina […]
L'America era allora per me provincia dolce, mondo di pace
Perduto paradiso, malinconia sottile, nevrosi lenta.
F. Guccini, Amerigo, 1978.
Occidente 2024, post-storia. In Italia, il 18.8% dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni non studia, non lavora né fa tirocini di sorta (report Istat, 2022). Per l’occasione, qualcuno ha ideato un originale acronimo anglofono: NEET, Not in Education, Employment or Training, il che già rende questa condizione di funzionamento, per dirlo con una parola della psichiatria, ben più presentabile nei report nazionali e internazionali. Proprio nell’età gravida di ogni possibilità, dove quasi tutto si è in potenza e poco o nulla in atto, in molti oggi scelgono – o non scelgono – di non funzionare.
«Non studio,/ non lavoro,/ non guardo la TV./ Non vado al cinema,/ non faccio sport» cantavano nel 1986 i CCCP,
«io oggi voglio sta’ accussì/voglio vere ‘a televisione/ca ce distrugge ‘a dindo e ‘a fora»,
cantava nel 1985 Pino Daniele, dando voce a un eversivo e dissidente rifiuto del funzionamento concepito dai canoni della società.
A ben guardare, però, la generazione dei NEET non si limita a in-soddisfare gli ambiti enumerati dall’acronimo. Il carattere del rifiuto incarnato da questi giovani – se di rifiuto si trattasse – è infatti forse più esistenziale, personale e relazionale insieme.
E potrebbe dirsi, infatti, in termini psicologici, una generazione senza fede: politica, religiosa, nuziale. I venti-trenta-quarantenni del XXI secolo sembrano finalmente essersi emancipati dal bisogno degli orizzonti oltre-umani del passato, da quella ricerca antica di trascendenza che nella storia ha assunto sovente carattere di ossessione politica o religiosa, o di un fardello sulle spalle di giovani umani destinati a un’esistenza coniugale, eterosessuale e procreatrice. Su tali orizzonti oltre-umani si affastellavano progetti, si ipotecavano sogni, si richiedevano mutui; per loro si facevano scelte drammatiche e entusiasti sacrifici.
Oggi al contrario non si vota più, non si va né nella propria né nell’altrui parrocchia, non ci si sposa più. Piuttosto, si fanno figli: con una provocazione, sembra che costi più fatica promettersi amore a lungo termine che mettersi in un rapporto di dipendenza vita natural durante. Eppure, c’è stato un lungo tempo in cui a tenere in vita gli esseri umani in virtù di un senso, un significato e un fine necessari alla vita stessa, laddove scovare il senso nel presente era difficile o impossibile, è stata la promessa, la promessa del futuro.
«“O frati”, […] d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente».
D. Alighieri, Commedia, canto XXVI.
Odisseo riuscì a convincere i suoi uomini «al folle volo», a osare la rotta verso le Colonne d’Ercole, con la promessa di conoscenza proibita. Alessandro Magno nel 326 a.C. seppe spingere migliaia di macedoni fino al Gange con la promessa della più remota delle terre conosciute; l’immagine de «il sol dell’avvenire» è bastata da sola a persuadere milioni di uomini a lottare per oltre un secolo per il «paradiso socialista». Su altra scala, la promessa di un futuro migliore, se non per sé, almeno per i propri figli, ha convinto padri e nonni a patire immani sacrifici fino a emigrare.
«E fu lavoro e sangue e fu fatica uguale mattina e sera
Per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri
Di negri ed irlandesi, polacchi ed italiani nella miniera
Sudore d’antracite in Pennsylvania, Arkansas, Texas, Missouri»
F. Guccini, Amerigo, 1978.
E infatti, se ci si chiedesse cos’è che manteneva un tempo accesa la fiamma delle fedi varie, ci si imbatterebbe nelle loro promesse: di cittadinanza, di salvezza dell’anima, di non essere mai più soli. Che non abbia allora storicamente fallito la promessa, dispositivo sociale che seduce e illude e conferisce senso alla vita dai tempi dell’homo sapiens sapiens? Che l’umanità all’alba del terzo millennio non sia stata in grado finalmente di «sciogliere questa terra dalla catena del suo sole», di «uccidere Dio» alla maniera di Nietzsche (La gaia scienza, aforisma 125, 1882)?
Incapace per millenni di bastare alla sua mortalità, di riporre tutta e solo la sua fede nelle infinite potenzialità del suo corpo-mente, per di più ormai esteso indefinitamente dall’Intelligenza Artificiale, ovvero in definitiva nelle sublimi armi della Scienza, finalmente, forse, l’umanità ha «spazzato via l’intero orizzonte con una spugna» (ibid.), è divenuta, forse, la super-umanità che pronosticava Nietzsche.
Ma è proprio vero che questa generazione non crede più ad alcuna promessa, che ha sconfitto il dispositivo di controllo e ipoteca dell’anima? Una più totale, acritica, vischiosa adesione al dispositivo potrebbe invece averlo comprato: si è disposti a credere, oggi, solo nelle promesse immanenti del mercato. Smettendo di credere alle promesse trascendenti, non solo ci si è solamente illusi di addivenire quella super-umanità che non ha bisogno di alcun dio – si pensi ad esempio con quanta fierezza e superiorità alcuni si vantano del proprio ateismo rispetto a culture non Occidentali o ai pochi cristiani praticanti rimasti – ma si è concesso al mercato di fagocitare la funzione psicologica che avevano le promesse del passato. Non solo non si è smesso di credere alle promesse, ma si crede loro in una maniera più acritica, romantica, impulsiva e cieca di una volta.
Cosa promettono le uniche voci credibili oggi?
Bellezza, fama, ricchezza, eterna giovinezza, successo. «Credici! Devi solo credere in te stesso, pensarti libero/a, e i tuoi sogni si realizzeranno»: quella nuova El Dorado – che molto somiglia all’alta società milanese – fatta di abiti firmati, super modelle e supercar «sarà ai tuoi piedi». Bombardata da modelli vincenti, che attraverso la profilazione intrudono nelle home dei social network e incarnano proprio quei valori specifici agognati dal soggetto e per questo fonte della sua demoralizzazione, questa generazione sta: inerme, passiva, e convinta di essere divenuta resistente alle illusioni, immune alle promesse.
Ma quali sogni? Quali aspirazioni? Il talento per cosa?
A volte sembra che il fine prenda il posto del mezzo, in un gioco tanto caro al filosofo di Capitalismo senza Futuro (cfr. E. Severino, 2012). E così il successo è l’unico vero merito, unica vera effige, in una società capitalistica che del merito ha fatto il suo cardine.
Ma questa seconda fede è ben più ardita della prima.
Nell’investire energie nella promessa di un ideale politico, o di una religione, ci si poteva posizionare nel tempo lungo un gradiente di risultati possibili. Dunque, innanzitutto, rispetto a una delle vecchie promesse ci si poteva sentire sempre in cammino verso un orizzonte con la speranza di approssimarsi ad esso, con più o meno strada alle spalle: se pure non si fosse riusciti a ottenerne l’oggetto in una vita intera, si poteva comunque, nel frattempo, viverne il cammino. Le nuove promesse, al contrario, sono “fenomeni tutto o nulla”: o si diventa Ghali – per il tempo in cui Ghali è Ghali – o si suona a nel garage di casa finché i vicini non iniziano a lanciare candeggina. Se si perdono le elezioni si possono sempre preparare le prossime al fuoco dell’ideale, mentre se si pubblica il reel sbagliato ci si brucia la carriera da influencer per sempre, e se si perde il treno della “Big Four” agognata o non si offre tutto all’altare dei baroni della chirurgia universitaria italiana, sia questo per mancata giovinezza, per gravidanza o per malattia, si rimane Fantozzi per sempre. Si deve essere pronti a rischiare tutto, e immediatamente. Giovani, belli, ben vestiti, eccellenti e furbi, più furbi.
In secondo luogo, pur essendo di gran lunga più probabile vincere come elettore che diventare la nuova Chiara Ferragni, la fede nelle nuove promesse è vissuta come incomparabilmente più sensata e realistica della fede nelle vecchie. Statisticamente, la destinazione è quella di una società, nel migliore dei casi, di insoddisfatti; nel peggiore, di infelici, apatici e affettivamente coartati, depressi.
In ultimo, in queste seconde promesse si sta, per definizione, da soli. Homo homini lupus, è il mantra di un’epoca in cui il successo di uno è sempre a scapito di quello degli altri, di tutti gli altri. A queste ultime promesse infatti non è mai consentito credere insieme, e, allora, non è rimasta a questa società una fede comune, collettiva, che un tempo fondava e teneva insieme le comunità umane. E il carattere collettivo di un tempo, oltre a proteggere i singoli desideranti, ammetteva la sconfitta: nessuno si toglie la vita per aver perso il referendum sul nucleare, mentre è tragico il numero delle vittime di un certo modo contemporaneo di vivere l’università e i suoi fallimenti. La colpa di un fallimento collettivo scivola nella storia, e ci si può mangiare su, attorno a una bella tavolata, la colpa di un fallimento individuale è soggettivamente intollerabile: nemmeno a mamma si può dire che non si è mai riusciti a fare un esame all’università, perché nemmeno lei perdonerebbe.
Eppure il successo è, per sua epistemologia, un concetto non individuale. Si può affermare infatti di avere successo solo rapportandosi ai risultati altrui. Occorre essere prossimi agli altri, costantemente in comunicazione, tanto prossimi da carpirne i segreti del successo per fare meglio di loro, ma al contempo non legarsi mai profondamente, per non rischiare di perdere di vista l’obiettivo. Paradossale e intrinsecamente contraddittorio è dunque il messaggio di questa società, che riesce ad imporre come unica promessa quello del successo individuale. Ma un pattern comunicativo a due ambiguo, contraddittorio e paradossale è ciò che i primi teorici della clinica sistemica in Psicologia chiamarono «doppio legame» (G. Bateson et al., 1956), tipo di comunicazione distorta ma affettivamente pregna, che per loro era in grado di causare la malattia mentale in uno degli attori sociali coinvolti.
Allora, molto di più e in maniera molto più insidiosa, le nuove promesse sono ben più chimera delle vecchie. E in più, cambiando la natura dell’oggetto di promessa da trascendente a materiale, ne hanno perso la funzione. La promessa del passato era funzionale a darsi un’escatologia comune, che si attuava attraverso un viaggio, comune anch’esso.
E allora è il viaggio comune, forse, il vero fine, e il rifiuto della nuova promessa, più pericolosa chimera, il nuovo atto eroico che consentirebbe di recuperare la funzione delle vecchie promesse. La relazione autentica, dolorosa, profonda, mai raggiunta, tra umani, come fine ultimo, banalissimo, di questa esistenza. La madre ricercata per sé della Teoria dell’attaccamento, indipendentemente dal suo essere fonte di nutrimento per il cucciolo, studiata dai coniugi Harlow che osservavano come i piccoli di macaco ricercassero la relazione affettiva come fine ultimo, e non come mezzo per ottenere il latte materno.
Il rifiuto della promessa materiale come rivoluzione, come la lancia di Bellerofonte tra le fauci della chimera: l’uomo che non ha mai comprato un gratta e vinci, eroe dissidente del terzo millennio (R. Beneduce, 2023).
Il rifiuto della nuova America e il coraggio della scelta banale della relazione come fine, ultimi baluardi contro la paranoia definitiva.
- Come va?
Saluto cordiale ma un po' anonimo, non mi espongo […].
- Sto abbastanza bene, grazie.
Voglio vedere in base a questa mia affermazione, come si comporta lui. Anzi, aggiungo:
- Non mi posso lamentare, io.
Hai visto? Ha messo l'«io» in fondo, non è casuale eh […]. Bisogna che mi difenda, risposta gentile, ma ambigua nell'intonazione:
- Sono molto contento, contentissimo.
Ahi, mi frega […].
Vero, è chiaro, l'irreparabile, è già accaduto.
Non ci resta che dedicarci, con rinnovato coraggio, alla nostra salvezza personale.
G. Gaber, Algebra, 1973-74