La torta

Lei sta lì e immobile mi fissa: sembra che aspetti proprio me, che cerchi attenzioni, che si chieda perché nessuno si curi di lei. Richiudo il frigo e mi precipito fuori dalla cucina; percorro il corridoio rapidamente, afferro la maniglia e apro la porta per rifugiarmi nella mia stanza. E eccola di nuovo, come fosse reale, si staglia sulla mia scrivania. Solo un assaggio, mi dico, uno solo.

Mio padre e mia madre suono fuori, in casa siamo solo io e lei, la torta. Sì, quella torta ricoperta di praline fondenti e granella di pistacchio e farcita con una deliziosa crema spalmabile. Cosa c’è di male? – mi dico, solo un pezzetto, uno solo. Mi slancio nuovamente in cucina e vado per aprire il frigorifero quando un pensiero disturbante si insinua fastidioso nella mente: e se tornassero in anticipo? Dopotutto, basterebbe un imprevisto – un cliente che disdice l’appuntamento, qualcosa di dimenticato – e i miei, aperta la porta, mi ritroverebbero avvinghiata all’ammasso di zuccheri e grassi.

Al solo pensiero un brivido mi scuote e con un balzo sono già all’ingresso. Quasi senza rendermene conto, inserisco la chiave nella toppa e do più mandate. Ora nessuno sguardo indiscreto può spiarmi: la casa mi è complice. Mi dirigo verso il frigo e come uno scassinatore alla cassaforte lo osservo; un respiro profondo, lo spalanco e infilo mani e braccia, là dove il freddo le fa raggelare. Le retraggo subito insieme al piatto che ospita il dessert. La mia destra afferra un coltello che dolcemente incide e lentamente affonda nel morbido e vellutato impasto che pare gioire nell’accogliere la lama. Una fettina sottilissima. La porto alla bocca: un coro di voci angeliche inizia a cantare, e i violini a suonare, mentre la lingua rimescola la sostanza che si scioglie e un sapore celestiale inonda e confonde.

Non ho ancora finito di masticare – devo essere rapida, penso: i miei, rincasati presto per quel fatidico imprevisto, potrebbero insospettirsi trovando la porta chiusa dall’interno. E una volta ripulita la tavola dalle minuscole briciole, prove di una furtiva ingordigia, la torta è presto riposta sul ripiano più alto del frigo. Ma un pensiero mi assale: come occultare il vuoto, testimone della parte mancante? Lesta e silenziosa, con mano chirurgica afferro di nuovo la vittima e il corpo del reato e ricompongo il quadro: il vuoto è sparito. Meglio, occultato.

Traggo un sospiro di sollievo e, quasi levitando, di filata riapro la porta e rientro nella mia camera, le papille ancora vibranti di soddisfazione. Guardo l’orologio: le dieci e dieci; riapro il libro e, certa che nessun pensiero possa più intrudere nella mia quiete, riprendo a leggere: «la baritonesi è un fenomeno fonetico per cui l’accento tonico non cade mai…». Mi volgo di nuovo verso l’orologio: ancora le dieci e dieci. In casa siamo sempre noi due sole, io e lei.

Se ne sta lì, fra i sottaceti e l’insalata, nel gelo asettico del frigorifero. Le dita martellano sulla pagina del manuale di letteratura. Forza! – mi sembra di leggere – concentrati. E giù a concentrarmi, per esempio, su quanto ingenuo sia lo stratagemma di ricomporre la torta con la speranza che nessuno si accorga della fatidica mancanza. Certo, finché la guarderanno da lì, sul ripiano più alto, non noteranno nulla, ma non appena dovessero prenderla… E li ho subito davanti agli occhi: l’aria disgustata, ebbra di biasimo, di mia madre e lo sguardo attonito di mio padre. Forse potrei addure che stamane una collega universitaria è venuta a farmi visita. Per rendere il tutto più realistico, però, avrei dovuto mangiarne un po’ di più, non è affatto credibile che le abbia proposto solo quell’insignificante pezzettino. Il rimedio è uno solo: mi alzo e ritorno in cucina, determinata.

Le mie ghiandole salivari sanno già tutto e si apprestano a lavorare febbrilmente. Taglio un triangolo della dimensione adatta a completare il quarto e via. La masticazione si fa immediatamente frenetica e vorace, e non posso godermi quest’attimo perché una miriade di immagini mi si affolla intorno: mia madre che corre in palestra, dove consumerà la sua pausa pranzo – il suo sguardo mi ammonisce e il suo corpo, esile e etereo, mi giudica impietoso; mio padre che scherza coi colleghi, la bocca sporca di crema, accanto a un vassoio di cornetti. Torneranno entrambi stasera, tardi, troppo stanchi e troppo soddisfatti della lunga giornata per prestare orecchio alla mia.

Mi sforzo di scacciare le loro sagome, testimoni insolenti dei miei peccati, per restare di nuovo in sua sola compagnia. Il piacere ha già lasciato il posto a un senso di nausea che dal profondo delle viscere risale fino al palato molle, le labbra si retraggono disgustate e la fronte si imperla di sudore. Accaldata, allontano il vassoio e esamino le macerie: mezza torta. Senza rendermene conto, mentre tutto ciò che vedevo erano mio padre che sgranocchiava metà cornetto e il corpo scolpito di mia madre sopra alla cyclette, in cucina famelicamente trangugiavo un morso dopo l’altro.

Perché l’ho fatto, perché? È successo di nuovo, come già altre volte, così spesso allorché mi ritrovo sola dentro queste quattro mura che a un tratto divengono ostili, dove il silenzio domina sovrano. E allora che un senso di vuoto mi assale e, mentre sembra che la vita scorra solo al di là della finestra, mi aggiro da una stanza all’altra alla ricerca di qualcosa che non so, fino a che non ho ingurgitato tutto quello che il mio stomaco riesce a tollerare e allora sono un verme che striscia in profondità, disgustoso e sudicio, e appesantita, sono prigioniera di una guazza melmosa: così, mi trascino a letto ove il mio peso, inghiottito dal materasso, si farà forse finalmente più leggero.

L’ambiente intorno si è fatto inospitale e inquietante: la fruttiera e la zuccheriera ora hanno occhi che scrutano indignati, il rubinetto perde, e ogni goccia è un rimprovero; la lancetta dei secondi turbina nel quadrante sul muro, ma non è nulla in confronto al ritmo affannoso del mio cuore. Il trillo del telefono mi fa sobbalzare, un terrore ingiustificato mi assale, come preda di una necessità ineluttabile pigio il tasto per rispondere. Mia madre mi comunica che stasera verranno a cena i colleghi di papà, e potrà fare loro assaggiare la sua famosa torta al cioccolato

Il sangue martella nelle tempie e gli occhi vagano alla disperata ricerca di un appiglio. Mi vesto e, senza guardarmi allo specchio, scapigliata, afferro la borsa ed esco.

Fuori, la città è un brulicare di pedoni e automobilisti, i clacson risuonano nell’aria mattutina e, confusa e infastidita, a fatica mi faccio strada fra la folla. Ben presto inizio a notare che non vi è passante che non mi osservi lanciando a mia volta occhiate indagatrici; tutti già sanno. Dei passi affrettati dietro di me mi inducono a voltarmi: una donna di mezza età, paonazza in viso e boccheggiante, mi sta seguendo. Accelero nel tentativo di dileguarmi e lasciarla indietro e quasi correndo imbocco una strada secondaria; mi fiondo dentro il supermercato. Alle mie spalle la donna è sparita. Certa di dover diffidare anche di ogni avventore di quel supermercato, non meno pericoloso, furtivamente, fra gli scaffali stipati di prodotti colorati e schierati in bella mostra, tentando di non farmi distrarre dalle pubblicità, a passo di carica mi dirigo verso l’obiettivo: afferro le uova, vado a caccia del cacao in polvere. Trovarlo è un’impresa: sudata e tachicardica lo stano proprio sul ripiano più in alto, verso il quale una vecchietta ingobbita dall’artrosi si protende stirando le scarne braccine e saltellando sulla punta dei piedi. Ha quasi raggiunto la meta, ma con un balzo l’anticipo e agguanto la scatolina. Con un lieve sorriso mi esprime la sua gratitudine ma in un attimo i suoi occhi – ingigantiti da spesse lenti da miope – assumono uno sguardo sconcertato mentre mi vedono correre alla cassa col bottino sottobraccio. Ora manca solo la farina, facile no? Farina di ceci, castagne, kamut, grano saraceno, integrale, grano duro e grano tenero, mandorle. Estenuata, al cospetto di questo florilegio esito ma l’orario annunciato alla radio mi riporta alla mia missione; sono le dodici, mia madre fra due ore sarà a casa e per allora la torta dovrà essere al suo posto e la cucina ripulita. Afferro in uno slancio il pacco e sono alla cassa. In fila, in attesa che giunga il mio turno, tengo gli occhi bassi, e continuo a sentire incombere su di me la curiosità degli altri clienti; imbarazzata e colpevole, arrossisco. Pagato il conto infilo tutto in una busta, scappo via e, uscendo, intravedo la vecchietta del cacao che, ferma nel punto in cui l’ho lasciata, con la stessa aria smarrita e leggermente meno curva sulla schiena, mi fissa.

Sulla via di ritorno incontro un gruppetto rumoroso di ragazzi che ridono e procedono compatti; sembrano l’uno la propaggine dell’altro, un unico corpo che marcia unito e coeso, un polpo da cui ogni tanto si slancia un tentacolo per poi ritornare in seno alla creatura madre. Di nuovo un senso di vuoto si fa strada in me e insieme ad esso il bisogno impellente di colmarlo con qualcosa, non però qualsiasi cosa, ma con la stessa materia che pare rendere il gruppo così unito e allegro: una sostanza immateriale di cui nessun cibo potrà mai essere composto. E invece tutto quel che il mio pensiero riesce a elaborare e contrappore a questo vuoto sono immagini di cibo, grasso e gustoso.  Agguanto il cellulare per distrarmi dalle vetrine di panifici e bar, ma l’algoritmo mi restituisce impietoso ciò da cui cerco di fuggire: foto di ragazze giovani, dall’incarnato roseo e dal sorriso smagliante, e un’esposizione di pietanze di tutti i tipi, dall’aspetto invitante e soprattutto calorico, presentate da quelle stesse ragazze con cui creano un vivace e netto contrasto. Metto da parte l’esibizione di questi istanti di vita patinata. Sono di nuovo a casa.

– Cara, esci dal bagno. Gli ospiti stanno per arrivare.

Mia madre, indispettita, dà l’ennesimo colpo alla porta. Poco dopo entra, il collo sottile che emerge dal golf nero e i cappelli biondo ramato appuntati morbidamente in uno chignon.

Ci guardiamo entrambe allo specchio: lei sorride evidentemente soddisfatta e si ravviva i capelli. Il suo sguardo incrocia il mio ma solo per un istante; abbasso gli occhi mentre i suoi parlano e criticano il mio aspetto e la mia goffaggine, così lontani dalla sua grazia impalpabile.

La sala è pronta ad accogliere gli ospiti, il giradischi nuovo di papà è stato disposto sul mobile all’ingresso, così da essere subito mostrato, il parquet lucidato, i tre cuscini damascati sul divano creano una fantasia diagonale. Ordine e pulizia, perfezione e nitore. Un’angoscia mortifera mi opprime il petto. La mia mente vaga alla disperata ricerca di un’immagine che la sollevi, ed ecco che torna, la torta.  Ricoperta di praline fondenti e granelle di pistacchio e farcita con una deliziosa crema spalmabile, unica custode di tutti i miei oscuri segreti, riposa al gelo. Non c’è altro intorno a me – non la casa nel suo asettico ordine, non mia madre e i suoi occhi giudicanti – se non lei, la mia complice.

Il suono del citofono mi fa sobbalzare e infrange anche questa immagine. 

– Sono arrivati!

Stridula mio padre dall’ingresso. I coniugi Riga, intabarrati in eleganti cappotti che lasciano intravedere figure slanciate e misurate, i denti bianchissimi, lo sguardo profondo e fiero, sono tutto ciò che i miei vorrebbero: il posto da dirigente cui mio padre aspira, la vita di amene distrazioni in alta società che mia madre conduce, ma con la spensieratezza di chi può permettersela davvero. Con un contegno studiato, mia madre entra in scena, e come l’ospite più atteso invita i commensali ad accomodarsi a tavola.

– Ebbene come procedono gli studi?

Fa la signora Riga, sorridendo coi denti infinitamente bianchi, incorniciati da una nuance nude di rossetto che si abbina alla camicia in seta color mattone. Esito un istante, il necessario a elaborare una parvenza di pensiero coerente, ma è già troppo, e mia madre mi precede:

– Lettere è la facoltà giusta per lei, dopo tutto non ha mai mostrato particolari ambizioni, né manifestato passioni. È così diversa da Giulio e me.

E mentre mia madre e la sua ospite si intrattengono a parlare della mia vita e della mia stupefacente assenza di ambizioni, gli uomini ridono chiassosamente di non so quale scandalo accorso in ufficio. Dal canto mio, vorrei che ci dividesse almeno un continente, possibilmente freddo, o un oceano; anzi no, piuttosto vorrei rimanere proprio lì, alzarmi e urlare loro in faccia di tacere, perché non ne sanno nulla, di cosa muove davvero le persone alle loro passioni e ai loro abissi, di desideri veri non ne hanno mai visti, dall’alto delle loro cyclette ultima generazione. E così, scene gloriose di donne forti e belle che si ribellano con determinazione e fascino affollano la mia fantasia. Nel mentre, in effetti mi sto alzando in piedi, la mia bocca va per aprirsi, e a venir fuori non è che una vocina timida e smorzata:

– Porto gli antipasti.

Dico, e corro in cucina ma non troppo, mia madre non approverebbe la mancanza di compostezza. Le tartine sono disposte su due vassoi, pronte per essere servite, eppure non mi dirigo verso di loro, invece apro il frigo. Lei sta lì e io so che non posso sfiorarla, ma quella sensazione di vuoto è ritornata violentemente, e io sento un disperato bisogno di colmarla. Afferro una bottiglia di salsa, una lattina di sottaceti e del formaggio rimasto e con loro mi precipito in bagno.

A fatica apro la lattina e divoro un sottaceto dopo l’altro e non ho ancora deglutito che già addento il formaggio e lo trangugio e insieme bevo la salsa che scende fredda e acida giù per la gola.

– Tesoro, tutto bene?

Mio padre bussa alla porta. Provo a respirare profondamente, ma il respiro si ferma sopra il diaframma, la nausea va crescendo e ondate di sudore mi fanno raggelare.

– Sto bene, solo un po’ di mal di pancia, non preoccuparti, voi continuate.

Torno giù che sono già al primo piatto a profondere complimenti alla regina della casa: le loro voci adesso sono distanti, io sono tutta corpo. Non ho pensieri e unica sensazione è il malessere fisico e la presenza ingombrante di quella torta che riposa in frigo. Quella torta che adesso mio padre sta portando a tavola.

– Non hai mangiato nemmeno un po’ di pasta, assaggia almeno la torta.

Mi invita lui con un sorriso, che sembra più un ghigno.

– Ma sì che l’assaggerà, è la sua preferita – fa mia madre mentre si leva in piedi e inizia a tagliare la torta in piccole fette tutte uguali, così lentamente che non capisco se sia una mia impressione per via dei sensi intorpiditi dal cibo. E mi pare anche che mia madre divida la torta con eccessiva gravità e che le voci, allegre e rumorose per tutta la durata della cena, siano ora sospiri che i quattro mandano fra loro affinché io non possa udirli e che nell’avvicinarmi il piatto con la fetta di torta il signor Riga strizzi l’occhio e, con una complicità disgustosa, sussurri: è la tua preferita.

Porto la forchetta alla bocca, mi fissano.

Do un piccolo morso, continuano a fissarmi.

Provo a masticare, ma il sapore acido della salsa e dei sottaceti torna su dallo stomaco, non resisto, corro in bagno.

Non so quanto tempo sia trascorso, se dieci minuti o venti. Fuori dal bagno regna il silenzio, o almeno così mi sembrava fino a che una serie di urla non mi ha allarmata.

Esco e per poco la signora Riga non mi travolge con un bicchiere colmo d’acqua. Ha il viso stravolto e corre in sala da pranzo, la seguo: il signor Riga scuote veementemente un ventaglio davanti a mia madre, che, il volto paonazzo e le mani serrate intorno alla gola, ansima, mentre mio padre parla concitatamene al telefono:

– Venite, presto, non respira – mi sembra di sentire. Al centro della tavola giacciono resti della torta.

– Che non abbia messo per sbaglio delle mandorle nella torta?

Chiede la signora Riga piagnucolando col bicchiere d’acqua ancora in mano.

– Ma è allergica, non avrebbe mai potuto farlo, neanche per sbaglio. Non tengono mai mandorle in casa.

Le risponde il marito, mentre continua a sventolare in direzione di mia madre.

Le mandorle, mi domando. Ma come possono essere finite delle mandorle nella torta, nella mia torta poi? Cerco di riattivare i pensieri e mi torna improvvisamente davanti la sfilza di farine al supermercato – ceci, castagne, kamut, grano saraceno, integrale, mandorle … mandorle.

Sono in cucina e con mano tremante apro il coperchio del secchio, dove qualche ora fa ho buttato il pacco di farina.

Ultimi articoli

La torta

Lei sta lì e immobile mi fissa: sembra che aspetti proprio me, che cerchi attenzioni, che si chieda perché nessuno

Read More »