Il migliore dei mondi possibili, come mantra ripetuto dalla nascita.
Se quello presente è davvero il migliore dei mondi possibili, occorre riconoscerne il merito al sistema educativo che lo ha prodotto.
Semplificando, si potrebbe osservare che ad oggi il sistema educativo chiede e al contempo fornisce conoscenze e competenze di natura tecnica: coloro che risultano i migliori nelle applicazioni di tali conoscenze sviluppano innovazioni che consentono miglioramenti tangibili per l’uomo. Solo per fare alcuni esempi l’allungamento della vita, la mortalità infantile, la possibilità di connessione in tempo reale, gli spostamenti sempre più rapidi: dei miglioramenti prodigiosi generati dalla tecnica si avvale l’umanità tutta.
Dal secolo dei lumi, dalla prima rivoluzione industriale, nulla ha potuto ostacolare la corsa poderosa del progresso. Nel 2023, all’alba del terzo millennio si affaccia quella che potrebbe essere l’innovazione più distruptive della storia, ben più della ruota, del motore o dei computer: l’Intelligenza artificiale (AI).
Corrono i giorni dei primi lanci dell’AI, le versioni più rudimentali, che un giorno saranno ricordati con il sorriso come si ricorda il DynaTac 8000X, primo telefono cellulare, ben 800 grammi. Le applicazioni a venire e le potenzialità di una simile rivoluzione sono immaginabili attualmente con la stessa precisione con cui Jules Verne immaginava le invenzioni del futuro.
L’AI non è che una tappa, una pietra miliare, della strada lastricata di successi del progresso tecnico, una brillante invenzione di quei “migliori”, tra i discenti, che hanno saputo fare delle nozioni virtuosismo. Coloro, cioè, che hanno saputo assorbire e rielaborare alla maniera più accattivante le competenze offerte dal sistema educativo attuale.
Ma quali conseguenze, se un’innovazione di questa portata rimette in discussione il sistema stesso che ne ha reso possibile lo sviluppo?
L’uomo non sa più riconoscere gli astri o vaticinare la pioggia dal volo degli uccelli; è perso il senso dell’orientamento, soppiantato dall’uso dei navigatori satellitari. Le abilità residue all’uomo del terzo millennio diminuiscono drasticamente di anno in anno: l’AI annienterà il bisogno di know-how umano rispetto a un numero spaventoso di capacità. Non occorrerà più saper leggere dati, una radiografia, non servirà saper maneggiare la penna né saperci imprimere pensieri su carta. La tecnologia sta mutando, tra le altre, la sfera cognitiva umana, e il quoziente intellettivo cala mentre cresce la probabilità di scoprirsi “inutili”.
L’AI potrebbe colpire al cuore proprio il sistema tecnocratico in seno al quale è potuta fiorire, rendendo inutile l’“uomo tecnico” che è stato in grado di svilupparla e pertanto, de facto, il sistema educativo che lo genera.
Delle due “anime” essenziali della scuola, da tempo immemore, la prima è quella di riempire – “mettere dentro”, “rendere pieno” – l’individuo di competenze tecniche, nozioni, facendone essere idoneo a ottemperare le esigenze della società e del mercato. Di contrasto, il verbo educare, nella sua origine latina educere, significa piuttosto “tirare fuori”, “trarre fuori”: è l’altra missione, la più ancestrale.
L’altra anima, non di rado vissuta come trascurabile dalla società post-ideologica, è quel dominio dell’intelligenza umana che consente l’”estrazione”, il “portar fuori” il nucleo celato in profondità delle cose.
E’ ciò che consente di cogliere le relazioni fra le conoscenze, altrimenti meramente assommate, di organizzarle e scovarne un significato non ancora colto: il “pensiero critico”. Per lo storico Luciano Canfora, è quell’“abito mentale” che indossato esige la riflessione sul proprio contenuto e su come migliorarlo.
La scuola nei secoli è passata dall’essere cantiere di pensiero critico a industria di efficienza neo-mercantile, fondata su nozionismo storicistico e logica prestazionale. L’istruzione è diventata una macchina per scremare ciò che del giovane individuo è “spendibile” da ciò che non lo è. Forse, gli effetti a lungo termine del passaggio dall’insegnamento della filosofia a quello della storia della filosofia – voluto dalla riforma Gentile – ha avuto implicazioni maggiori di quanto il Ministro poteva figurarsi.
La crisi era figurata da Albert Einstein come la più grande benedizione per le persone e per le Nazioni. L’AI si configura come “crisi” nel funzionamento della società in generale e nel sistema educativo nello specifico. E’ crisi che, in questo caso, risulta un ossimoro involontario: a dispetto dell’etimologia che la vorrebbe una “scelta, decisione”, per il sistema educativo questa crisi si è data piuttosto come una rivoluzione accidentale. Il premio Nobel per la fisica intendeva che è necessario un cambiamento esogeno dirompente per poter ripensare se stessi o modificare radicalmente un sistema.
Facile sarebbe allora concentrari su gli scenari di un Eldorado senza lavoro, ancora facile piangere crisi occupazionali e reagire come i luddisti che nel XIX secolo individuarono nei telai introdotti nell’industria la causa della disoccupazione e del ribasso dei salari, sempre facile figurarsi apocalittici scenari disumanizzanti che l’AI porta con sé.
Meno facile elaborare il lutto del nostro sistema educativo, ancora meno, nel lutto, vedere un’opportunità.
L’AI obbliga la scuola a ripensarsi. E allora questa specifica rivoluzione, forse, è un’occasione unica per la scuola di tornare a educare all’unica facoltà cognitiva veramente umana: il pensiero critico, lasciando la tecnica alle macchine.
Cosa comporterà veramente questa innovazione è difficile immaginarlo; l’unica certezza è che l’AI costituirà una parte consistente della vita nel terzo millennio e seducente sarà la tentazione narcisistica di distruggere il “telaio”. Arte sarebbe invece immaginare come poter unire i nuovi tessuti che la macchina prodigiosa offre, provando così a cucire una “nuova” scuola.
Dove la scuola potrà tornare a concedersi il gusto di rompere il vaso, liberata dall’angoscia di riempirlo.