Insieme sullo stesso banco

Intervista di Maria Teresa Ciammaruconi ad Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi

Siamo nella semiperiferia romana, zona Casal Bertone.
Nei pressi di un’enorme aula al seminterrato di un palazzone vediamo avvicinarsi un piccolo popolo variopinto: molti giovani africani di colore, afgani e bengalesi, gente dell’est europeo, iraniani e altre etnie, alcuni arrivano dal sud America. L’ultima sigaretta aspirata fino in fondo, un occhio al cellulare prima di spegnerlo ed entrano.

Insieme a loro, ci sono studenti italiani che hanno aderito al PCTO (Percorsi Competenze Trasversali Orientamento, sigla che sostituisce la vecchia dicitura alternanza scuola-lavoro), molti professori in pensione e altra gente di buona volontà. Sono italiani che mettono a disposizione qualche ora della propria giornata per sostenere gli stranieri nell’apprendimento della lingua italiana, della mentalità, dei costumi di una terra sconosciuta per chi arriva da lontano, molto lontano. Potrebbe essere la terra promessa, o solo un territorio di transito; l’occasione per costruirsi una vita degna di questo nome, o l’ennesima sconfitta.

PROMESSA O CHIMERA?

Moussa è immigrato dalla Guinea da sei mesi, mi sorride cercando di capire se può fidarsi. Quando gli ho messo in mano il mappamondo chiedendogli dove si trova il suo paese e dove lui si trova ora che vive a Roma, mi ha guardato sconcertato rigirandosi la sfera tra le mani. Non è mai andato a scuola e non riesce a leggere i nomi che indicano i continenti. Eppure, quel deserto che brucia il Mali, l’Algeria, la Libia lui l’ha attraversato a piedi, o a tratti su camion malandati in cambio del poco denaro racimolato. Eppure, quel Mediterraneo lo conosce meglio di tanti europei che al massimo lo hanno percorso su navi da crociera.

Ma Moussa non sa leggere e non ha coscienza di potere essere l’eroe protagonista dell’ultimo film di Garrone.
Ecco che finalmente, in un posto dove non si parla la sua lingua, apprende i segreti della scrittura e i rudimenti di un nuovo idioma. Poche regole di valore pratico e rapido utilizzo; ma la relazione libera, gratuita e individualizzata che stabilisce con me che siedo davanti a lui, solo per lui, innesca un processo evolutivo che lo investe non per quello che è, ma per ciò che potrebbe diventare, quindi nella sua interezza di persona. Una persona che, oltre a cercare i mezzi di sussistenza, sia anche in grado di cogliere possibilità e prospettive grazie alla rinnovata fiducia in sé stesso. E nulla può infondere maggiore fiducia che l’essere stati oggetto di un dono gratuito. È un dono che elargisce pari benefici sia a chi dà che a chi riceve. Una grande occasione che la società di mercato dell’occidente non può ignorare proprio nell’ottica del profitto, ove il profitto non sia solo economico, ma soprattutto crescita interiore, relazioni appaganti, senso di responsabilità, ricchezza umana da reinvestire nella collettività.

È quello che si cerca di fare alla Penny Wirton di Casal Bertone, la scuola fondata da Anna Luce Lenzi e lo scrittore Eraldo Affinati.
È operativa dal 2008, da gennaio del 2016 è iscritta al Registro del Volontariato del Lazio. La Regione Lazio ha infatti concesso l’uso dei locali di Casal Bertone per tre giorni a settimana. Il modello pedagogico e didattico elaborato da Luce, Eraldo e i volontari più attivi, viene definito in una Carta d’intesa a cui hanno aderito spontaneamente molte altre scuole distribuite lungo tutto il territorio nazionale. Le attività si sostengono grazie all’autofinanziamento dei volontari; non mancano le donazioni spontanee e i contributi erogati attraverso il 5 per 1000.

Eraldo, le modalità con cui operate alla Penny Wirton non nascono da ambizioni sperimentalistiche, quanto da valori culturali, filosofici che affondano nell’etica più profonda della nostra tradizione.
Che ne dici di partire da quella frase di Mario Rigoni Stern, scrittore di cui ti sei molto occupato: “Senza l’imperfezione non sapremmo misurare il valore della vita nelle sue molteplici forme”?

“Sì, è una buona partenza.
Quella frase l’ho pronunciata io, rispecchiando le idee del sergente, grande scrittore, di cui nel 2003 curai tutta l’opera, compresa nei Meridiani della Mondadori. Le motivazioni che, sedici anni fa, spinsero me e Anna Luce a fondare la scuola Penny Wirton possono essere trovate anche nella volontà di venire incontro ai bisogni dei minorenni non accompagnati ai quali insegnavo lettere alla Città dei Ragazzi di Roma, ma in realtà affondano le loro radici molto più indietro: la solitudine della mia adolescenza difficile, l’insoddisfazione nei confronti di una scuola basata soltanto sul voto e sul programma, la consapevolezza che non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario, il desiderio di spendere i nostri talenti consegnando il testimone alle nuove generazioni.
Alla fine il concetto è questo: abbiamo voluto rispondere al sorriso di Mohamed. Dirgli coi fatti, prima ancora che con le parole: noi siamo qui per aiutare te. Ma già sappiamo che sarai tu a portare in salvo noi.”

L’adolescente è l’imperfetto per eccellenza. Penso a quanto affermi nella tua autobiografia letteraria pubblicata lo scorso anno: Delfini, Vessilli, Cannonate. Nel parlare dell’adolescenza dichiari…
“…quando il desiderio pulsa come un cuore affannato anticipando gli eventi. I ritmi sono scompaginati. Gli argini travolti. Le certezze… messe in discussione. E tuttavia le azioni appaiono fragili, le determinazioni incompiute… il peso delle imprese da compiere si trasforma in un macigno… Frizione dolorosa tra la deflagrazione del desiderio… e la necessaria accettazione del patto sociale. Nella drammatica accettazione di queste forze contrastanti si forma il carattere della persona”
E mi permetterei di aggiungere: il carattere delle generazioni che verranno.
Tu, oltre a guidare la Penny Wirton, eserciti ancora il tuo servizio di professore nella scuola italiana. Pensi che un’istituzione così fondante per una cultura tenga sufficientemente conto della fisionomia interiore dei propri studenti? I docenti sono formati a tal fine?

“Quest’anno sono andato in pensione dopo una vita di insegnamento nelle scuole pubbliche: soprattutto gli istituti professionali. Il nostro è il mestiere più bello del mondo, però bisogna esserci portati. Non c’è formazione che tenga per questo. Ciò non significa che i corsi non servano, ma lo scambio di buone pratiche vale ancora di più. Oggi la scuola, non soltanto italiana, sembra avere imboccato una strada assai lontana dai presupposti da cui partirono i grandi educatori del secolo scorso: John Dewey, Maria Montessori, don Lorenzo Milani, per citarne solo alcuni. Si punta sulle valutazioni oggettive standardizzate, uguali per tutti. Non si considera la stazione di partenza degli alunni. E invece ogni apprendimento ha un tempo e una forma uniche: non dovremmo mai dimenticarlo!
Tuttavia in Italia esistono preziose innovazioni su base locale: io ne conosco tante e mi rinfranco. Inoltre vedo molte professoresse e professori che, nella scuola così com’è e non come vorremmo che fosse, si mettono quotidianamente all’opera con formidabile dedizione. Ammiro queste persone perché so cosa significa entrare tutti i giorni in un’aula con venticinque ragazzi scatenati. La passione e la forza che ci vogliono.”

Ho insegnato anch’io per quarant’anni. Ricordo che quando uscirono i tuoi libri “L’elogio del ripetente” (2014) e “Via dalla pazza classe” (2019) molti li considerarono un’esortazione alla ribellione. Adesso più che mai penso che il tuo atteggiamento critico verso una scuola precettistica, competitiva e meritocratica volesse spezzare i vincoli che tengono prigioniera quella tensione progettuale e creativa che cresce latente dietro la maschera strafottente di molti giovani.
Oggi una scuola all’altezza del suo compito cosa può o deve promettere ad un adolescente?
Quali sono gli strumenti inalienabili di cui deve fornirlo?
Non parlo di immigrati, ma di studenti regolari.

“Spezzare i vincoli, sì, ma per ricostruirli. Un giovane ha bisogno di adulti capaci di incarnare i limiti, altrimenti non crescerà mai. Bisogna essere amici e maestri allo stesso tempo. Non abbassare l’asticella. Restare sempre ambiziosi. Lavorare a ingranaggi scoperti, mostrando ai ragazzi gli obiettivi da raggiungere, senza truccare le carte, rinunciando una volta per tutte alle domande trabocchetto. Uscire dalla schiavitù del risultato. Puntare alla giustizia prima ancora che all’efficacia. Non lasciare mai nessuno indietro. Evitare ogni competizione in aula, mettendo i bravi al servizio di chi stenta: questi ultimi comunque dovranno essere i nostri preferiti. Chi ti ascolta attento e prende appunti può fare anche da solo: lo so che è una provocazione, ma lo dico in senso retorico, dopodiché i migliori, nel momento in cui aiutano i peggiori, diventano consapevoli di se stessi. Del resto a cosa servirebbe una cultura non condivisa? Conquistare la fiducia degli allievi che abbiamo di fronte. Farsi accettare da loro andando a conoscerli per davvero. Cosa fanno il pomeriggio? Chi sono i loro genitori? Quali le passioni che li pervadono o forse li imprigionano? Se non rispondi prima a queste domande, non dovresti nemmeno entrare in aula. Esporsi, mostrarsi per ciò che siamo, accettando il rischio di sbagliare. Spezzare il pane dell’istruzione. Dare via tutto, a fondo perduto. Così avremo fatto per intero il nostro dovere.”

Che cosa ha significato Don Milani nella tua formazione? In che modo l’esperienza di Barbiana è ancora utile?

“Ho pubblicato due libri su don Milani, uno diretto agli adulti, L’uomo del futuro, l’altro destinato ai ragazzi, Il sogno di un’altra scuola.
Il priore di Barbiana però lo conoscevo prima ancora di averlo letto: era negli occhi dei miei studenti futuri meccanici, ai quali dedicai l’Elogio del ripetente. Quando invitai Giulio, bocciato al liceo scientifico e all’istituto nautico, in procinto di essere respinto anche al professionale, a venire con me alla Penny Wirton, per aiutarmi ad insegnare l’italiano ai suoi coetanei immigrati, e lui mi disse sì: in quel momento, prima ancora di aver letto Lettera una professoressa, ho sentito il sangue di don Lorenzo scorrere dentro le mie vene. Barbiana è morta per sempre, non potrà rinascere più nella forma originaria, non lo dico io, lo disse lui, ma il suo spirito no, quello vive ancora, ogni volta che una professoressa, dovunque sia, nella scuola pubblica o in un’associazione di volontariato, guarda negli occhi il suo studente e comincia a prendersene cura.”

E Dietrich Bonhoeffer?
Un teologo contro Hitler, anche a lui hai dedicato una splendida biografia. Quali sono gli autoritarismi da cui oggi dobbiamo difenderci?

“Bonhoeffer mi ha fatto comprendere che, paradossalmente, non si può essere liberi senza vincoli. La libertà si lega alla responsabilità. Non è una fuga dal mondo. Battere il chiodo lì dove siamo, coi mezzi che abbiamo a disposizione. Grazie a lui ho imparato a conoscere meglio il giovane Nazareno quando per la prima volta scese da Cafarnao per incontrare i pescatori, futuri apostoli. Lo sguardo che il figlio del falegname rivolse loro è quello che ogni professore dovrebbe riservare ai suoi studenti: non strumentale, ma a fondo perduto. L’autoritarismo nasce dall’insicurezza, dal timore di poter perdere qualcosa, dalla volontà di difendere il fortino nel quale ti sei rinchiuso. Quando ti metti in una posizione di gratuità nei confronti del prossimo, non hai più bisogno di esercitare alcun potere.”

C’è un altro tuo libro che ho amato molto: “Bandiera Bianca” del ‘96.
In quel periodo temevo la pazzia e la lettura di quel tuo romanzo mi rese ancora più inquieta. Nella narrazione i matti, i disabili, la variegata folla degli innominabili vivono a Villa Felice (ironia della nomenclatura), sono gli imperfetti senza speranza.
Anche a loro possiamo fare una Promessa che non diventi una Chimera?

L’io narrante ne ‘adotta’ uno dicendo: in sua compagnia provo l’illusione del tempo abolito. Cosa significa?

“Alla fine di quel romanzo i cosiddetti ‘Innominabili’, ricoverati a Villa Felice, escono dalle tenebre e si dichiarano. Nella lunga lista il lettore scopre che in realtà quelli che noi avremmo potuto considerare mostri, sono persone ordinarie. Siamo tutti noi. Ognuno con la propria fragilità, imperfezione, debolezza, ma anche virtù, valore, talento. Nel momento in cui comprendiamo di abitare nel mucchio, con la nostra irripetibilità, è come se vivessimo in un flash lirico.
D’improvviso non c’è più passato, né futuro: è un’illusione, certo, quella del tempo abolito, però, come ci ha spiegato Giacomo Leopardi, grazie ad essa possiamo dare senso alla vita.”

Torniamo nella grande aula della Penny Wirton. Ci ho incontrato molti giovani, ma non solo. Ho conosciuto anche padri di famiglia, o donne con bambini che colorano l’ambiente con i loro abiti esotici. Nell’incertezza dei loro movimenti, nell’ardore degli sguardi, nella paura che imbavaglia le bocche mi sembra di vedere tutte le fragilità degli adolescenti, dei folli, degli emarginati; insomma, la summa di tutte le imperfezioni degli innominabili.
E se proprio loro diventassero una Promessa?
Ti pare possibile?

“Una promessa di felicità, perché no?
Dipende da come ci relazioniamo con gli altri: se lo facciamo strumentalmente, in modo retributivo, oppure crediamo nel valore in sé del nostro sguardo. L’immagine che tu, Maria Teresa, mi regali con questa domanda incarna lo spirito più autentico della Penny Wirton alla quale partecipi. Ti vedo quando insegni: si capisce che lo fai con il cuore e con la testa, insieme, mai dividendo il pensiero dall’azione. Ogni volontario/a della nostra scuola è spinto da motivazioni diverse che possono essere politiche, religiose, esistenziali, ma tutti sono legati fra loro dal rapporto profondo con la persona che hanno di fronte. È questa la ragione per cui quando mi chiedono quale sia il ‘metodo’ della Penny Wirton rispondo che non ne esiste uno solo, ecco perché preferisco parlare di ‘stile’ o ‘spirito’.”

Noi, epigoni di una cultura stanca e svuotata, cosa abbiamo da apprendere da questi avventurieri senza casa?
La ricchezza è felice solo quando diventa condivisione e scambio.

“Queste persone, nel momento in cui ci fanno scoprire la dimensione del nostro privilegio, incarnano l’essenza dell’istruzione: spezzare il pane, non tenerselo per sé. Ogni sapienza, se resta nel proprio ambito specialistico, rischia di trasformarsi in gergo astruso, asfittico. Se la parola non scaturisce dall’esperienza, diventa vuota, mera retorica. Al centro del mio ultimo libro, Delfini, vessilli, cannonate, ho posto Divine, il bambino nigeriano che gira fra i banchi di Casal Bertone, tenendo il mappamondo di plastica sulle spalle, mentre la madre siede al tavolino impegnata a studiare i tempi verbali. L’infante africano regge il peso del mondo. Di fronte al suo gesto, di straordinaria forza simbolica, trattengo a stento la commozione. Nel piccolo allievo, ho scritto, decifro uno speciale appello impossibile da disertare, anche perché non riesco a togliermi dalla mente un’altra madre e un altro bambino, i cui corpi vennero ritrovati abbracciati in fondo al mare al largo di Lampedusa. Ora vorrei che giocassero tutti insieme: i sommersi e i salvati.”

Eraldo, vedo in te un maestro degno dei tuoi grandi padri e non dimentico che sei uno scrittore. Ed è bello vedere come l’uomo, l’intellettuale, il didatta agiscano in contemporanea. In che modo lo studio e la pratica della letteratura hanno potenziato la tua azione pedagogica?

“Il mio primo libro, “Veglia d’armi”, era un breviario interiore ispirato al più grande scrittore/insegnante dell’epoca moderna: Lev Tolstoj, quindi ho sempre avuto chiara in me una doppia predisposizione: pedagogica e letteraria.
Proprio in quel testo, pubblicato nel 1992, rifuggivo da una concezione ‘curtense’ della letteratura. Già allora temevo la ‘turris eburnea’. Non avevo ancora fondato la scuola Penny Wirton. Tuttavia, grazie a Silvio D’Arzo, avevo conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie, Anna Luce Lenzi, letterata come me. Insieme abbiamo sentito la possibile atrofia della pagina scritta. Se la letteratura non è l’intensificazione della vita, rischia di essere puro intrattenimento. Bisogna avere la forza di rivolgersi a tutti, conservando però il rigore stilistico, quindi accettando la minorità. Poi il sorriso di Mohamed risolverà tutto.”

Allora mi sembra giunto il momento di rivolgermi ad Anna Luce Lenzi, tua moglie.
Luce, la tua presenza in aula è costante. Sempre impegnata nel dare ordine alla spontaneità, nel coordinare il movimento di decine di persone, direi centinaia. Lo sappiamo, è la soluzione ai piccoli problemi pratici e quotidiani che a volte determina la riuscita delle grandi imprese. Tu condividi da sempre con Eraldo ideali e progetti e contemporaneamente, giorno per giorno, affronti il momento operativo, ti fai carico di infiniti problemi pratici.
Quindi rivolgo a te alcune domande affinché chi non è mai entrato alla Penny Wirton possa almeno sbirciare nella grande Aula.
È possibile dire quanti sono gli ‘alunni’ che quest’anno frequentano la vostra scuola? La frequenza è regolare?

“Nel caso della Penny Wirton di Roma la frequenza è particolarmente alta, specialmente quest’anno, ma non è regolare: una metà di loro frequenta abbastanza regolarmente, ma molti fanno con noi solo poche lezioni o un paio di mesi. I motivi sono vari: o trovano un lavoruccio o sono trasferiti o partono; da settembre a gennaio sono passati da noi oltre 350 studenti; la frequenza media è di una settantina di studenti per ogni lezione, con punte di 86 e con più di 70 volontari, inclusi i ragazzi dei licei romani che fanno da noi il tirocinio formativo (PCTO) con grande vivacità e passione.”

Dicci qualcosa anche dei ‘maestri’ quanti sono? Tutti volontari? Avete un criterio selettivo?

“Sono più di cento (parlo sempre per Roma, altrimenti il numero si moltiplica, perché le Penny, più grandi o più piccole, sono ormai sessanta in Italia e Svizzera); tutti volontari per due presenze alla settimana; per un terzo circa sono ex insegnanti, ma tutti gli altri provengono da esperienze lavorative molto varie: giornalismo, medicina, uffici bancari, poste, ferrovie…; c’è di tutto davvero, perché l’unico criterio selettivo è quello di favorire le persone che hanno una propensione sincera alla relazione umana; del resto, dopo la prova, chi non è adatto se ne accorge e si ritira.”

Con questo sistema è possibile mantenere un minimo di continuità didattica? O è un fatto secondario?

“La continuità didattica va misurata sullo studente, non sull’insegnante: anche passando da un insegnante a un altro l’allievo deve essere bene accolto e progredire; la chiamiamo ‘continuità didattica collettivamente curata’”

Quali sono i canali attraverso i quali gli ‘alunni’ vengono a conoscenza della vostra attività?

“Ormai è da quindici anni (questo è il sedicesimo) che siamo in contatto con ragazzi dei centri di pronto intervento minorile della Caritas, della Città dei Ragazzi, poi delle case famiglia, infine dei CAS, SAI ecc. che ci contattano per inviare i loro ‘beneficiari’, specialmente in questi ultimi tempi perché hanno visto diminuire le loro risorse cosicché non hanno finanziamenti per corsi di italiano; aggiungiamo il passaparola, sempre più attivo; c’è anche chi dopo anni torna affidandoci la moglie appena arrivata in Italia per ricongiungimento famigliare.”

Esiste una forma di iscrizione?
Chiedete documenti, permessi di soggiorno?

“A noi basta il nome, quando chiediamo i documenti (a volte povere fotocopie ripiegate e stinte) è per ricopiare correttamente nomi e cognomi che davvero non riusciremmo a scrivere sotto dettatura.”

La Erickson ha editato due manuali scritti da voi con le illustrazioni di Emma Lenzi (tua parente?). In aula ve ne sono molte copie a disposizione e costituiscono uno strumento indispensabile all’insegnamento. Il materiale già pubblicato era inadeguato?
Secondo quali principi pedagogici avete redatto i due volumi Italiani anche noi?

“I due volumi “Italiani anche noi” sono nati proprio perché volevamo strumenti giusti per i ‘nostri’ allievi. Vengono da tutto il mondo, per il 40% sono analfabeti o pochissimo scolarizzati e non sono europei; i materiali esistenti, ottimi nel loro genere, sono pensati per europei universitari e offrono anche i relativi modelli sociali; noi abbiamo imparato a insegnare proprio dagli allievi, osservandoli e cercando di avvicinarli nel modo più semplice e coinvolgente, introducendo i loro nomi, accompagnando sistematicamente le pagine con molte illustrazioni colorate. Emma Lenzi (pittrice, docente di discipline pittoriche) era mia sorella e i due volumi senza il suo supporto non sarebbero quello che sono. Dal punto di vista didattico, il corso è rigoroso (ma lasciamo che la grammatica venga ‘occultata’ dalla pratica degli esercizi) e completo, ovvero parte dall’analfabetismo e in 25 lezioni conduce ai livelli alti della nostra lingua; dal punto di vista pedagogico curiamo il passaggio graduale dal facile al difficile proponendo esercitazioni incoraggianti e improntate a uno spirito di comprensione e convivenza tra diversi.”

Oltre ai libri, mettete a disposizione molti giochi linguistici. Li avete creati voi? In che consistono?

“Sono forme di apprendimento diverso, motorio, visivo, combinatorio; ne ho costruiti di diversi tipi per stimolare la curiosità e l’attività sia degli allievi (ai ragazzini, ad esempio, piace molto giocare con le cartine figurate) sia dei volontari: si può fare scuola anche rilassandosi un po’. Nel complesso possiamo suddividere l’abbondante materiale in “tre salti”:
1. lettura visiva e prescrittura, 2. grammatica (nomi, verbi, frasi), 3. oralità (descrivere, raccontare, esprimersi).”

Frequentare i vostri corsi dà modo di ottenere una certificazione in qualche modo spendibile?

“Noi non rilasciamo certificati con valore ufficiale, ma sappiamo che i nostri attestati di frequenza sono molto apprezzati dalle commissioni; valgono anche come tirocinio per i docenti volontari e per gli studenti in PCTO. Noi prepariamo gli allievi per la certificazione e al momento giusto li inviamo presso enti certificatori (CPIA, Questura) dove potranno sostenere con successo l’esame.”

Un’ultima domanda che vuole comprendere tutto: a che cosa serve una scuola senza compiti, senza voti, senza programmi, senza l’accesso ad alle certificazioni?
Insomma, una scuola senza binari dove Alunni e Maestri sono insieme sullo stesso banco, a cosa serve?

“Chiunque venga durante una lezione pomeridiana, quando arriviamo ad avere più di 80 studenti, capisce a cosa serve: il rumore babelico di voci, la concentrazione assoluta dei piccoli gruppi, i sorrisi e gli scambi di saluti, il passaggio di caramelle e merendine, le scatole grammaticali-giocattolo, i puzzle figure-giochi… È questo il bello e l’intensità della nostra scuola – nonscuola senza classi, senza voti, senza programmi ma con tanta voglia di fare e di esserci.”

Insomma, forse la realizzazione di una antica e dimenticata promessa.

Note biografiche

Eraldo Affinati, presidente dell’Associazione Penny Wirton ODV, è uno scrittore da sempre legato al mondo della scuola. 

Anna Luce Lenzi è una studiosa di Silvio D’Arzo, autore di “Penny Wirton e sua madre”. Ha curato antologie scolastiche. Ha tradotto dal tedesco “Benvenuto” di Hans-Georg Noack, si è interessata alla letteratura popolare cui ha dedicato diversi volumi.

Nel 2008 Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi hanno fondato la Scuola Penny Wirton

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