Il gusto del cinema

Probabilmente sono pochi i film in cui il cibo risulti completamente assente. D’altronde la macchina da presa insegue la vita attraverso i suoi infiniti meandri e a ogni passo deve fare i conti con ciò che la rende possibile. Pertanto, il carburante primario è il nutrimento fisico nelle infinite declinazioni in cui territori e culture lo rendano possibile. Dal whisky tracannato nel saloon di un qualsiasi western, alle sequenze che scandiscono le squisitezze apparecchiate nel Pranzo di Babette, sempre comunque l’intreccio trova appoggio – quando non addirittura senso – nel rito reiterato, solitario o collettivo, che fa di un bisogno primario strumento di ricerca estetica.

Il ventaglio di possibilità è talmente ampio che, per selezionare dei film in cui il cibo sia tra i temi portanti, il criterio di scelta – qualunque esso sia – sarà sempre opinabile, modificabile o addirittura sostituibile.

Quindi, più che mai gioiosamente ci lasceremo andare all’arbitrio.

Di volta in volta porremo l’attenzione su opere cinematografiche raggruppandole per percorsi tematici da noi liberamente individuati. Si cercherà di tenere il giusto equilibrio tra valore artistico dell’opera e attinenza dei contenuti al tema di riferimento. Fine ultimo di tale indagine resta il tentativo di cogliere – guardando nel caleidoscopio un po’ serio, un po’ bugiardo del cinema – le dinamiche attraverso cui i bisogni e i desideri umani si articolano, si esprimono, esplodono o rinnegano se stessi.

Non è facile stabilire quale possa essere il fil rouge che – attraversando edonismo e sopraffazione, necessità primaria e spreco, condivisione ed egoismo – confluisca infine sulla tavola apparecchiata o improvvisata dove si rinnova l’ineludibile rito del mangiare.

Ma, per orientare il lettore di queste pagine, tracciamo qualche linea programmatica.

Il cinema non ignora le diverse patologie legate ad un rapporto squilibrato con l’alimentazione. In ambito italiano si ricorda Hungry Hearts, film drammatico diretto da Saverio Costanzo, vincitore della Coppa Volpi a Venezia nel 2014, e Primo Amore del 2004 di Matteo Garrone premiato al festival di Berlino. Ma preferiamo lasciare lo scandaglio del disturbo psichico alle professionalità deputate a tale funzione. Altrettanto faremo quando il consumo del cibo sia condizionato dall’obbligo di rituali sacri.

Certamente affronteremo il percorso che individua il cibo come mezzo di sopravvivenza nelle situazioni estreme. Esplorazioni, disastri naturali, apocalissi, carestie, o anche solo l’avventura liberamente scelta sconvolgono le abitudini del più metodico degli uomini.
Cosa resta delle vecchie priorità? In che modo i valori morali condivisi vengono messi alla prova dal pericolo di morire di fame o di sete?
O magari proprio il dovere fare i conti con scorte di cibo assai limitate può accendere una creatività insospettata e orientare condotte imprevedibili.

La guerra uccide immediatamente con le armi e, in tempi poco più lunghi, dissesta la possibilità di accedere alle risorse alimentari. Ma con i conflitti si entra in un altro capitolo: quello che vede il cibo come strumento di sopraffazione. Se la guerra rappresenta la causa più plateale e sanguinaria, anche la pace può diventare il teatro dove rappresentare la tragicommedia in cui il cibo, magari abbondante e sofisticato, diventa strumento di manipolazione sociale. È già, perché la produzione e la distribuzione del cibo costituisce anche un capitolo importante per qualunque economia; inoltre, attraverso il gusto si veicolano tradizioni e valori gastronomici all’apparenza innocui ma comunque pervasivi. Insomma, il cibo può diventare arma politica, strumento di controllo su un’intera popolazione.

Ci piacerebbe concludere ricordando film di carattere più edonistico, ironico e addirittura farsesco. Come dimenticare l’immagine dei maccheroni, irresistibile provocazione in tanta cinematografia italiana, o la ‘mezza porzione abbondante’ di italici bohemiens?

Intanto, per rimanere nella contemporaneità europea di questi mesi, ecco Il gusto delle cose con la regia di Trân Anh Hùng. È qui che il gusto del cinema e il gusto del cibo si sposano nella coniunctio assolutamente paritaria di un’esibizione misurata e virtuosa. È un piacere raffinato dove le sequenze filmiche danno visibilità al sapore e all’odore e la complessa rappresentazione del procedimento gastronomico determina il ritmo e lo spessore della narrazione.

Il film, prodotto in Francia nel 2023, è giunto sugli schermi italiani a maggio 2024 e quasi scomparso dalle sale dopo poche settimane ma, secondo noi, destinato ad essere riproposto in circuiti più attenti alla raffinatezza della fattura.

Il romanzo da cui trae origine la sceneggiatura è La vie et la passion de Dodin Bouffant, gourmet (1924) di Marcel Rouff che ambienta la storia nella Francia del 1885.

Cominciamo col dire che le due ore e un quarto di durata del film trascorrono prive di brani musicali. Ma la colonna sonora c’è, e come!
Oltre alle parole previste nel copione, anch’esse poche in verità, i rumori prodotti da stufe, forni e fornelli, acqua che scorre o gorgoglia, olio che frigge, pestelli, coltelli, mannaie, stoviglie, mestoli, cristalli eccetera… producono una costante sinfonia che ci trasporta di peso in una cucina francese di fine Ottocento. Note che si alternano con quelle prodotte nell’orto in cui insetti, uccelli, animali da cortile, macchinari agricoli dilagano nel moto senza sosta del divenire attraverso le stagioni. E, finalmente attorno alla superba tavola imbandita, il tintinnio bicchieri, forchette, cucchiai accompagna le poche parole dei commensali mentre sorseggiano vino. Tutto avviene affinché si realizzi il supremo progetto gastronomico concepito da Dodin, eccelso cuoco. Dal punto di vista musicale sembra la realizzazione del manifesto futurista L’arte dei rumori, o un repertorio utile al grande musicista Pierre Schaeffer che nel 1948 ideò la musica concreta.

I dialoghi languiscono ridotti all’essenziale, ma il film vuole affondare le radici in una dimensione preverbale dove l’olfatto distingue e seleziona, il gusto attribuisce peso e consistenza a ogni ingrediente, il gesto sapiente dà ordine, forma e bellezza. L’immagine finale sostituisce qualunque commento, quasi a dimostrare che l’intelletto, spesso così fallace, si è fatto carne e così reificato non tradisce. È la rivincita della materia, manipolando la quale l’essere umano esprime e vive i sentimenti.

Perché ciò avvenga è necessaria una zona predisposta alla preparazione del rito, il cuore pulsante di tutto l’edificio, la cella sacra. E la macchina da presa è strumento privilegiato per penetrarne gli anfratti in una tridimensionalità che sfugge allo stesso occhio umano: la cucina.

All’interno della balla casa, è lo spazio che più di ogni altro esige progetto e cura costante, dove l’estetica del mobilio è funzionale all’azione, e l’azione che in essa si realizza prevede la gioia del convivio, l’accoglienza, l’offerta. Nulla è lasciato al caso.

L’intreccio del film è molto esile e quasi non esce dalla villa del grande gastronomo che gelosamente governa il suo piccolo impero. L’interpretazione di Benoît Magimel ne fa un uomo esigente e ambizioso, ma capace anche di diventare un bambino davanti alla tensione emotiva.

Gli eventi si dipanano tra la scelta delle vivande, i complessi procedimenti di cottura e scenografiche presentazioni. La competizione è tutta tirata nel confronto di menu dove cibi e storia si intrecciano con l’avvento della modernità e l’ambizione dei parvenu.

Ma il grande tema che sottende alla superficie patinata degli avvenimenti è comunque un intenso, specialissimo legame amoroso. È un legame fatto di un’attesa lunga quanto la vita, di un consumo lento di piacere centellinato oltre ogni convenzione.

Gli anni passano e un morbo misterioso mette in pericolo la vita della coprotagonista del grande gastronomo: la sua assistente. Juliette Binoche dà vita ad una donna leggiadra e allo stesso tempo matura, capace di darsi e di negarsi diventando così per il suo signore e amante devoto, l’oggetto di un desiderio in costante fermento: il loro sorriso non è mai solo di compiacimento per il virtuosismo con cui preparano i cibi, ma esprime una pienezza di condivisione, un appagamento profondo. La passione culinaria è terreno di incontro e allo stesso tempo sublimazione della pulsione sempre latente. Ma il castello edonistico che i due hanno eletto a propria straordinaria prigione sembra traballare davanti alla minaccia della morte. Ecco che la passione lungamente coltivata e l’ansia di sopravvivenza conducono il desiderio attraverso quei sentieri dove odore, sapore, respiro, corpo sono una cosa sola. L’accudimento assume la potenza del rito salvifico che permette alla vita di dichiararsi nell’indipendenza di un’etica libera.

Intanto, i due cuochi che hanno dedicato la vita all’esercizio della propria arte totale, invecchiano. Ma l’erede è già pronta. Il volto attento di una bambina (la piccola Bonnie Chagneau che interpreta il personaggio di Pauline) esprime tutta la concentrazione necessaria ad accogliere le informazioni e soprattutto il senso di una vocazione gastronomica che è diventata una missione.

È un film che amplifica i dettagli e sfuma sulle svolte, obbliga alla pazienza e all’osservazione; quindi, solo col passare del tempo si rivela alla mente dello spettatore. Quasi un segreto ammonimento ai nostri tempi fagocitanti e sommari, con leggerezza lancia un richiamo al piacere raffinato che coniuga tradizione e creatività…ci viene da dire: materia e spirito, senza scomodare complessità filosofiche, ma rimanendo nel ventre caldo del buon senso comune, così vicino a quel cibo che è fonte primaria di sopravvivenza.

Forse tale intenzione non era fino in fondo nelle intenzioni del Regista, ma nulla ci vieta di fare della sua Opera un uso anche improprio, se questo ci è di aiuto.

Trân Anh Hùng, vietnamita naturalizzato francese, è lo stesso regista che nel 1992 con Il profumo della Papaya verde aveva vinto a Cannes la Caméra d’or per la migliore opera prima. In quel caso la papaya verde rappresentava per Mui il ricordo dell’infanzia e dei gesti materni. Infatti, la piccola vietnamita è costretta a soli dieci anni a lavorare come cuoca in una famiglia benestante. La papaya per lei ha l’odore della nostalgia, dei rituali abbandonati, diventa simbolo dell’affetto materno a cui ha rinunciato per necessità.

Anche in questo film la scenografia è costituita da una sola casa collocata a Saigon. Una casa che nel corso degli anni si trasforma e se la prima parte del film riproduce le abitudini del Vietnam all’inizio degli anni Cinquanta, il finale del film vede la protagonista ormai donna in una casa moderna e agiata. Il rapporto casa-famiglia non può non ricondurci al cinema di Yasujiro Ozu, insostituibile maestro di tanto cinema orientale – e non solo – che, non lo citiamo a caso, riproduce frequenti scene in cui la famiglia si raccoglie attorno al desco.

Mui, costretta ad affrontare le traversie di una serva (come viene continuamente appellata), resta fedele alla sua individualità attraverso un rapporto quasi simbiotico con la natura. Se la società è dura con le persone della sua condizione, le piante, gli insetti, l’uso sapiente delle spezie la riconducono all’armonia che non conosce padroni. Armonia e misura che lei ripropone nell’ordine in cui tiene la casa e nella cura dedicata alla presentazione delle pietanze, armonia che avrà la meglio sull’ostentazione falsa e ottusa del mondo che la circonda.

Trân Anh Hùng sembra quasi volerci proporre delle favole a lieto fine dove la valenza simbolica del cibo sembra essere l’anello di congiunzione tra l’equilibrio della natura, il bisogno umano di reinventare e il piacere della condivisione.
Non è poco.

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