Il discorso dell’università è il discorso del padrone

Riflettere sui saperi legati alla cura è un’impresa straordinariamente complessa, che richiede innanzitutto la capacità di decostruirsi, di esporre sé stessi alle conoscenze accumulate fino a un tal punto e di interrogarsi su quali preservare e quali scartare.
La psicoanalisi emerge come una delle pratiche che evidenzia le innumerevoli contraddizioni e sovrastrutture dei saperi della cura. Questo perché, abbracciando la prospettiva di Lacan secondo cui il soggetto dell’inconscio è strutturato come un linguaggio, è tramite la parola rivolta all’Altro, nell’appello del singolo per aiuto e ascolto, che si mettono in campo memoria, conoscenza, ricordi e esperienze di vita.

Tuttavia, se si accetta l’esistenza di un soggetto che chiede, occorre presupporre la presenza di un soggetto che risponde: un terapeuta capace di accogliere la narrazione, spogliandosi di pregiudizi e convinzioni pregresse. Questa impresa, si potrebbe dire, si configura come un’epopea.

Nel mio scrivere, potrò mai dimenticare temporaneamente di essere una donna, europea, di carnagione bianca?
E potrò ignorare, così, che in ogni mia interazione col mondo esercito un privilegio impossibile per un'altra donna, forse della Somalia, forse del Maghreb, che con probabilità molto superiore alla mia potrebbe essere analfabeta, povera, o vittima di tratta?
In questa breve riflessione, ci si interrogherà su quante delle nozioni acquisite durante gli anni di studio abbiano subìto il necessario processo di decostruzione e decolonizzazione dei saperi e quante, al contrario, perseverano nell'immobilità di una trasmissione enciclopedica, ancorate a una prospettiva bianca abbagliante.

Si partirà allora almeno dalla consapevolezza che non esistono pratiche e saperi universalmente validi per tutte e tutti, non esiste un sapere neutrale perché la neutralità è un privilegio che può concedersi solo chi ha già vinto quando ha a che fare con coloro assieme ai quali ha vinto. Questo primo posizionamento teoretico riconosce dunque l’esistenza di rapporti di forza ai quali ci si riferirà, in questo contesto a sfondo psicoanalitico, a mezzo dei concetti lacaniani di “discorso dell’università” e “discorso del padrone”.

Nel XVII seminario intitolato Il rovescio della psicoanalisi, lo psicoanalista francese Jacques Lacan (1901-1981) dedica parte del suo insegnamento alla teorizzazione di quattro discorsi fondamentali che mostrano in che modo il sapere possa assumere un ruolo o un valore diverso a secondo del posto che occupa rispetto all’alterità, intesa nel senso di ”Altro” lacaniano.

L’idea che si vuole proporre è che il lacaniano «discorso dell’università» non sia altro che una variante del «discorso del padrone» e che all’università – impegnata a riprodurre un sapere più o meno etico, autonomo e logico – si possa in tal modo attribuire un sapere che soggiace a una dialettica di potere.

Una delle possibili letture del «discorso dell’università» svela, nell’istituzione, un tradimento, una deviazione, dal mandato originario: la genuina ricerca del sapere. Mera ripetizione di quanto già enunciato, l’università assume così i connotati logici di una tautologia. Nella cornice del Seminario XVII, richiamando un passo del Menone di Platone in cui un servo è interrogato sulla radice quadrata di due, Lacan mette in luce il fenomeno secondo cui colui che si trova nella posizione dialettica di servo risponda solamente «a ciò che le domande gli dettano già come risposta». Tale forma di sapere universitario, in quanto mera ripetizione del “già detto”, si rinnova senza introdurre alcun elemento di profondità soggettiva.

Ma proprio l’andamento intrinsecamente ripetitivo del discorso accademico consente di restaurare il legame tra verità e potere. Il sapere accademico, allora, anziché svilupparsi in maniera critica come auspicabile, pare destinato a collassare su se stesso. Subordinando il sapere alla contingenza dei fatti, il discorso accademico si limita a replicare la retorica dell’autorità. Non sorprenderà, allora, la scelta di rintracciare profonde interconnessioni tra il discorso universitario e quello “del padrone”.

Tuttavia Lacan, con un gesto hegeliano, individua in chiunque si trovi a ricoprire il ruolo di  “servo” in una relazione dialettica di potere l’autentico custode del sapere. Questo servo, infatti, possiede la maestria dell’azione: è il sapere del saper-fare che il padrone sfrutta a proprio vantaggio. Quest’ultimo si trova dunque nella posizione di fare del sapere del servo un proprio strumento di riproduzione del potere.  Ed è qui che è possibile riconoscere nel volto del padrone l’istituzione universitaria. In questa prospettiva, il fine supremo del discorso universitario risiederebbe nella produzione di un epistème dall’alto, di una giustificazione teorica imposta da un discorso autoritario che legittima da allora in avanti la propria verità di fronte a una platea che, se rimane acritica, vedrà tale sapere come incontestabile e contribuirà a riprodurre in eterno lo status quo. Questa convergenza tra la sapienza accademica e la verità configura un quadro in cui la conoscenza si piega, sottomettendosi al potere.

Ma quale significato assumerebbe il rapporto di derivazione tra «discorso dell’università» e «discorso del padrone», oggi, se osservato in un contesto tutto particolare quale la psicoanalisi?
E, ancora, quale significato assumerebbe, se le soggettività in campo sulla scena psicoanalitica fossero atipiche, in questo caso, con l’aiuto di Frantz Fanon, non Occidentali?

Sulla necessità di illuminare il legame tra sapere e potere nell’orizzonte della psicoanalisi, occorre chiamare in causa Frantz Fanon (1925-1961). Intellettuale e militante del Front de Libearation National, che negli anni di lavoro da psichiatra presso l’ospedale Blida-Joinville, in Algeria, ha evidenziato limiti e contraddizioni che i saperi Occidentali incontrano, in particolare medico e psichiatrico, se esercitati in contesti diversi da quelli in cui sono stati prodotti. Non solo, con un discorso etico, medico e politico, l’opera di Fanon offre una lente di ingrandimento senza precedenti sul legame tra potere, psiche e un nuovo attore di questo discorso: la violenza coloniale.

Due saggi del pensatore algerino sembrano cruciali: La terapia sociale in un servizio psichiatrico di uomini musulmani, scritto in collaborazione con il collega Jacques Azoulay nel 1954, e Il TAT con donne musulmane. Sociologia della percezione e dell’immaginazione, scritto con Charles Geronimi nel 1956.
Da entrambi emerge la criticità̀, laddove non addirittura il fallimento, del costrutto medico della diagnosi. Dal discorso e dai casi menzionati da Fanon – teoria e prassi – traspare a chiare lettere la distanza dei trattamenti dal loro universo di riferimento, abitato da valori, rituali, simboli. Una distanza sostanziata in linguaggi, luoghi, immagini, culti religiosi non traducibili né comunicabili o simbolizzabili secondo le categorie etero prodotte.

La colonizzazione dei saperi, e la violenza epistemologica ad essa associata, gioca qui un duplice ruolo: dapprima, l’esperienza dei pazienti analizzati si trova svuotata delle coordinate intrinseche al loro immaginario, che consentivano loro di orientarsi in un determinato spazio-tempo; subito dopo, il vuoto viene irrimediabilmente saturato dal reale della colonizzazione. Il fastidio espresso dallo psichiatra europeo, in contesti più o meno esotici, in merito alla mancanza di accuratezza di esposizione dei sintomi da parte dei pazienti rivela come costui ignori il processo di colonizzazione dell’immaginario altrui, a un livello più o meno inconscio. Tale barriera comunicativa ha indotto psicoanalisti e medici a leggere erroneamente nella narrazione soggettiva del malessere un tentativo di simulare un’infermità̀, un mezzo per sottrarsi, per esempio, al lavoro. La pretesa della medicina europea di adottare un “approccio intransigente” si configura, oggi come ieri, come una riaffermazione della violenza coloniale, mascherata sotto la forma sofisticata e incensata dell’apparato medico.

Nella sua introduzione a Decolonizzare la follia, Roberto Beneduce, psichiatra e antropologo contemporaneo, sottolinea in maniera acuta come la medicina e la psichiatria concorrano attivamente nel presente alla perpetuazione di un sistema coloniale, in altri termini, caratterizzato da ipocrisia e violenza strutturale. Un sistema talmente distorto da ingenerare un paradosso: il colonizzato si trova a non potersi fidare di chi costituirebbe la sua speranza di cura, in questo caso dei medici.

Il legame di reciproca sfiducia, sotteso dal primato ontologico dei segni sui sintomi – ovvero dell’esame obiettivo medico sulla narrazione soggettiva dell’esperienza di sofferenza – denunciato circa sessanta anni fa da Fanon, persiste tutt’ora. La violenza coloniale resiste nei tribunali, nelle corti giurisdizionali o, per dirla con Basaglia, nelle “istituzioni totali” che pure sopravvivono in Occidente e che con disinvoltura negano asilo ai migranti se le storie di violenza riferite non sono conformi all’immaginario occidentale, se sono abitate da elementi mistici, naturalistici o magici. Il processo di banalizzazione dell’esperienza del sofferente, il sarcasmo nella voce del giudice durante l’interrogatorio al richiedente asilo, presuppongono fino a prova contraria la falsità̀ e l’improbabilità̀ della storia.

Quale differenza tra l’atteggiamento odierno e il pregiudizio che la psichiatria coloniale nutriva nei confronti dei Nordafricani?
Mutatis mutandis, la violenza coloniale resiste e serpeggia, prima nelle Università e poi negli Ospedali dell’Occidente; si fa scienza e metodo dell’esistenza contemporanea: occorre forse, con un atto di resistenza contraria, mettersi a lavoro per costruire nuove epistemologie, in grado un giorno di rovesciare il discorso del padrone.

Angela Chiaro è nata a Napoli il 17/11/1995.
Ha studiato Filosofia presso l’Università Federico II di Napoli, Università degli studi di Torino.
Attualmente vive a Parigi dove ha completato nel 2022 un Erasmus di ricerca presso l’Università Paris 1-Panthéon Sorbonne e un tirocinio presso il dipartimento di psicoanalisi presso l’Università Paris Cité-Denis Diderot.

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