Europa: dalla terra promessa alla guerra promessa

E così l’Europa Occidentale si è riscoperta fragile. L’Europa, quel piccolo continente dove non è mai esistito un singolo decennio senza guerre, all’improvviso scopre che la frase precedente è valida anche ai nostri giorni. Eppure, ce l’avevano promesso: mai più guerre. Mai più scorgere dallo spioncino di casa il fumo delle macerie di un bombardamento.

Perché grazie alla creazione dell’Unione Europea, la nostra “casa-arcobaleno”, fin dai tempi in cui si chiamava CECA, l’obiettivo è stato smettere di lottare per l’Alsazia e la Lorena, per il Benelux, per il Tirolo e la Venezia Giulia, per la Slesia. E continuare, unendosi, a giocare un ruolo da protagonisti sulla scena economica globale al cospetto delle superpotenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. La storia poi, diceva Fukuyama, era finita nel 1991 col crollo dell’URSS, e perciò tutti potevamo legittimamente brindare «alle magnifiche sorti e progressive». Convinti di essere al culmine della Storia: lo Spirito hegeliano del tempo aveva attraversato i secoli solo per arrivare a noi, i moderni, gli illuminati dalla ragione. Quello che per Illuminismo e Positivismo erano stati chimera – il dominio della ragione e la pace perpetua – per noi no, erano realtà: siamo più bravi dei nostri arcibisnonni.

Questa generazione è nata con Schengen, con il progetto Erasmus, con l’idea che italiani, tedeschi, francesi e tutti gli altri europei, siano fondamentalmente una grande comunità con tante lingue diverse, avversari solo sui campi da calcio.

Eppure, al di là della cortina di ferro ideologica, a est di Trieste, a pochi chilometri dalle coste del nostro Paese, solo 25 anni fa si consumava una terribile tragedia, in quella polveriera nota col nome di Balcani. Lì, col contributo dell’Italia, è andata in scena una Seconda guerra mondiale su piccola scala, con tanto di dittatori, assedi e genocidi di popoli. Il nostro sguardo però era rivolto dall’altra parte, a Occidente, come se gli europei dei Balcani, estranei alla nostra comunità, fossero meno europei di noi, figli di un dio minore.
E poi, si sa, sono gente violenta per natura!
D’altronde, hanno dato inizio alla Prima guerra mondiale! No, allora, la promessa di pace era salva per noi europei.

Perciò, quanto è presente nella cultura di massa l’idea di questo conflitto così vicino a noi cronologicamente e geograficamente? Praticamente il tracciato è piatto. Siamo proprio al cospetto di quel meccanismo che la psicoanalisi chiama «rimozione», l’accantonare un evento traumatico per non doverci fare i conti. Ma esso rimane in un angolo, non sparisce, pronto a ghermirti, a farsi sentire appena un nuovo trigger abbastanza potente bussa alla tua porta. Quel mostro è lì, dietro un fragile muro di cartongesso costruito in fretta e furia per non fare i conti con la bestia che ringhia nell’altra stanza.

E la sintomatologia è chiara: ansia, tensione, panico. Manifestazione dell’attivazione della risposta «fight or flight», quella dell’animale dinanzi al predatore. Quella che ognuno ha sperimentato, in maniera forse impropria, prima di un compito in classe o un’interrogazione. Immaginabile è allora la portata della sintomatologia quando invece del compito e della professoressa di fronte ci sono razzi Katjusha e Kalaschnikov? Quando nella propria prospettiva di vita quell’ipotesi fantascientifica dell’inverno atomico di videogiochi come Fallout o Metro diventa possibile? Anche il lockdown pandemico fino a cinque anni fa era pura fantascienza, una chimera.

«Homo homini lupus», diceva Hobbes. L’uomo è lupo per l’altro uomo. Nel nostro narcotico ottundimento, nella vita tutta Netflix e paillettes, qua e là interrotta da una manifestazione per le vie di Bologna, credevamo impossibile riaprire quello squarcio, ferita volutamente dimenticata. Ma volgere il capo dall’altra parte non basta più. La guerra è reale, è possibile. Quella convenzionale. La guerra atomica, invece, no, poiché durerebbe per cinque minuti. Tanti per un attacco atomico, pochi per un attacco di panico.

Tutta l’ipocrisia su cui si è retta questa promessa europea vacilla non appena ci si avvede che le guerre non si combattono solo in posti di difficile collocazione sulla cartina dell’Africa subsahariana o in qualche turbolento Paese col nome che finisce in “-stan” mentre qualcuno si ritrova a Ovest a commentarla davanti a uno spritz.

E noi povere formichine, esseri umani comuni, come altro potremmo sentirci al cospetto della Grande Storia? Smarriti, senza una bussola, schiacciati dal peso della forza maggiore. Chi lavora nei Servizi afferenti alla Salute Mentale sa bene quanto la pandemia abbia già scoperchiato il vaso di Pandora delle nostre paure. La pandemia ci ha riscoperti fragili, la guerra ci riscopre piccoli.

E la nostra generazione, che si vuole fluida e si è promessa di abbattere gli stereotipi dualistici, come affronterà una situazione in cui dicotomicamente la Storia le sbatte in faccia un violento “noi contro loro”?
Rispolvererà un vecchio mors tua, vita mea, istinto umano più arcaico e animalesco?

Le prime avvisaglie sono giunte con la pandemia. Nel momento in cui la routine è stata perturbata, e il terreno dell'”eterna sicurezza” sotto i piedi ha iniziato a vacillare, la caccia all’untore, al “no-vax “e persino al runner ci ha riportati ai tempi della manzoniana Storia della colonna infame, la cui lezione è stata totalmente rimossa davanti al primo scossone pandemico. Nemmeno i “moderni”, auto-insignitisi di patente di superiorità morale e intellettiva, sono sfuggiti alla logica del capro espiatorio. E allora non è una prospettiva astrusa che anche in tempi bellici una logica semplicistica e accomodante si insinui nella frattura lasciata dal vuoto etico e di orizzonti storici non ancora totalmente colmati.

All’epoca in cui questo pezzo viene scritto i venti di guerra sferzano le pianure dell’Europa Orientale, e ovviamente nessuno possiede la sfera di cristallo per poter predire tra un anno quanto saranno invecchiati questi pensieri.

Ma nel buio della guerra, squarciato da lampi di ordigni, infine è dovuta una promessa di speranza: l’uomo è in guerra col suo simile da prima che si rendesse conto di appartenere alla stessa specie; e nonostante tutto l’umanità è ancora qui, sicuramente più numerosa che mai.

L’Uomo ha costruito la bomba atomica ma ha anche messo piede sulla Luna; ha sconvolto tutti gli ecosistemi del mondo ma è anche in grado di comprenderne i sottili equilibri, di dipingerli e musicarli; è figlio della Natura ma è anche Natura che pensa Se Stessa. I binari della creazione e della distruzione sono proceduti sempre parallelamente. Ed è legittimo perciò sperare che l’Uomo saprà anche stavolta scostare il treno dell’umanità verso il binario della vita.

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