Essere Bene in Comune

Intervista di Maria Teresa Ciammaruconi a Raffaele Malizia e Marina Peci

Marina Peci, laureata in lettere, dopo una breve parentesi nell’insegnamento, è stata per molti anni dirigente CGIL Ricerca e ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Statistica, dove si è occupata in particolare di promozione della cultura statistica all’interno del Sistan (Sistema statistico nazionale) e del Paese, con un’attenzione specifica al mondo della scuola. Ha collaborato alla redazione di periodici di settore.

Raffaele Malizia, laureato in Economia, è stato dirigente di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Statistica, con incarichi relativi alla Contabilità Nazionale ed Analisi Economica, e direttore del Sistema statistico nazionale e della rete territoriale. Autore di numerose pubblicazioni, è stato docente in Università per corsi di laurea e master alla Scuola della Pubblica Amministrazione.

Sposati da molti anni, insieme hanno coniugato l’impegno familiare con quello lavorativo, nella pubblica amministrazione all’interno dell’ISTAT, e da alcuni anni sono entrambi responsabili del progetto Retake Roma per una comunità solidale.

* * *

Raffaele, prima di illustrare l’attività che Retake svolge sul territorio nazionale e in particolare a Roma, ti chiedo quali siano i presupposti teorici su cui si fonda l’attività di voi volontari. La vostra è un’iniziativa che accende una forte luce di speranza nella nostra grande e martoriata Capitale, soprattutto in considerazione della delusione storica con cui si è aperto l’attuale millennio. So che in te e in Marina è sempre stato forte il sentimento politico nel senso più alto della parola che, attraverso una condotta rigorosa, vi ha permesso di restare uniti per oltre cinquant’anni nello stesso progetto etico, lavorativo e familiare. Lo so grazie al rapporto amicale che ci unisce dal tempo del liceo. Certamente non sono mancati momenti difficili, tuttavia vedo con gioia che avete mantenuto la vostra antica promessa: quando i valori importanti diventano una fonte condivisa di energia, il pubblico, il privato e addirittura il personale possono interagire e crescere nel reciproco vantaggio.
Ma per chi vi osserva dal di fuori la vostra fiducia potrebbe apparire un’utopia, al massimo un successo del tutto personale, che – trasferito sul piano della collettività – diventa addirittura una chimera.
L’età che abbiamo raggiunto ci ha permesso di fare esperienze importanti durante la seconda metà del secolo scorso e di portare la nostra esperienza nei primi decenni di quello attuale. Abbiamo vissuto le trasformazioni radicali di questo periodo e maturato una visione globale e consapevole. Ce ne volete parlare?

Chimera? Utopia? Quella che ha segnato il secolo scorso è stata un’utopia che ha messo al centro la società, quindi la politica, come terreno privilegiato di impegno degli individui, di partecipazione per il conseguimento di obiettivi comuni, con alla base ideali di alto valore etico quali la liberazione dell’uomo, il superamento di ingiustizie e discriminazioni, la costruzione di una comunità di pari nelle opportunità di realizzazione della propria esistenza, la pace.
Una grande utopia che, indipendentemente dalle diverse ispirazioni politiche anche contrastanti fra loro, poggiava su una filosofia unificante che poneva l’entità Stato a livello del Dio della religione. Dal Medioevo fino agli albori dell’età moderna, il credo religioso era stato il collante sociale e culturale che teneva unita la comunità. Il Dio della religione nell’età moderna è morto, soppiantato da un’altra sacralità: lo Stato, assurto a entità metafisica nell’immaginario collettivo, idea trascendente ancorché immanente in quanto radicata nella terrena vicenda umana, fino a far percepire come sinonimi nelle menti e nelle mentalità le idee di Stato, nazione, comunità, società. Ciò ha reso possibile – a rivoluzione industriale avvenuta – l’avvento delle masse sulla scena politica con una grande, diffusa crescita culturale, con l’emergere del bisogno di accedere alla conoscenza ed essere attori della storia. Il Novecento è stato l’apice di un tale processo. E molti della nostra generazione (quella dei baby boomer) hanno svolto ruoli da protagonisti, pensando si dovesse e potesse cambiare la società per cambiare gli individui, in uno slancio inedito di solidarietà.”

 Vuoi dire che abbiamo fallito? Si trattava solo di una chimera che in molti abbiamo vagheggiato?

“Io direi che abbiamo fatto ciò che ci diceva la mente e il cuore, non farlo sì che sarebbe stato un fallimento, un peccato di ignavia. Abbiamo ottenuto dei risultati nel senso dell’auspicato miglioramento della società e degli uomini che la compongono? Evidentemente no: l’età moderna, e il Novecento in particolare, è stata il teatro di scontro fra ideologie che è immediatamente diventato scontro fra schieramenti all’interno delle comunità nazionali e scontro fra popoli, con l’affermarsi di totalitarismi che hanno portato a distruzioni, guerre e violenze di ogni genere: non un inedito della storia dell’umanità ma inedita è stata la dimensione mondiale di tali fenomeni, che oggi continuano a manifestarsi. Le democrazie, questo faro di speranza che ha connotato il dio Stato di fine millennio, si sono progressivamente involute nel formalismo e nella rincorsa dei facili consensi, fino a sfociare nel populismo più becero e aggressivo che, a sua volta, è spesso sfociato nella tirannide.
E il futuro non promette bene: Platone docet. In economia, l’idea stessa di intervento dello Stato a fini di regolazione, sostegno all’occupazione e mitigazione dell’ampiezza dei cicli economici, che era stato il portato dirompente dell’economia keynesiana, si è progressivamente rarefatta; talora ridotta a mero assistenzialismo, altre volte fagocitata dal mostro delle burocrazie autoreferenziali e soffocanti in cui ogni responsabilità si azzera, in cui si perde il senso del cammino, il senso di comunità.”

Eppure oggi l’utilizzo capillare della tecnologia sembra offrire a ogni individuo occasione per informarsi, intervenire e quindi assumersi la responsabilità dell’azione, se pur minima. Questo processo non può contribuire a una crescita democratica?

“La realtà in cui oggi viviamo tende a essere l’opposto di ciò a cui aspiravamo: una realtà fatta di tanti piccoli io autoreferenziali, ciascuno rinchiuso in se stesso, protetto dalle sbarre della prigione in cui conduce la propria esistenza, nella sua dorata comfort zone che rassicura ma preclude lo sviluppo di relazioni autentiche, con gli altri ma prima di tutto con se stessi. Siamo una società fondata sull’individualismo, non sull’individuo, su apparenti nuove opportunità che la tecnologia mette a disposizione di tutti ma che sono vissute passivamente dai più, ridotti a strumenti nelle sue mani. Invece che positivo mezzo di accelerazione dei processi di crescita, la tecnologia tende sempre più a rendere l’uomo un inconsapevole oggetto che ripete supinamente ciò che gli viene subliminalmente instillato, goccia a goccia, giorno dopo giorno. In proposito Marco Revelli (in Umano Inumano Postumano), facendo riferimento alle analisi di Luigi Zoja, insiste molto sull’immane impatto della rivoluzione tecnologica di fine millennio sulla condizione umana, intreccio di informatica e telecomunicazioni, rappresentazione digitale e velocità comunicativa. In sostanza virtualità e accelerazione, la prima a rendere presente l’assente (il lontano), la seconda a rendere assente il presente (il prossimo).”

Sembra che la smisurata possibilità di comunicazione utilizzata con scarsa consapevolezza in una società di massa ci sta rendendo tutti più soli. Insomma, il trionfo del narcisismo.

“L’io vorace e narcisista del nostro tempo è all’origine dell’accelerazione di una serie di processi sul piano sociale, su quello ambientale e su quello economico.
Sul piano sociale assistiamo a un processo di frammentazione e crescente scollamento interno (e inter-nazionale) con la riduzione progressiva delle capacità relazionali, del saper ascoltare e dialogare. Il processo di degrado ambientale è sotto gli occhi di tutti: alla sua origine c’è l’indifferenza per gli effetti nocivi dei propri comportamenti, da parte sia delle persone sia delle imprese e istituzioni (che sempre di persone sono fatte). Sono effetti tanto nocivi da aver determinato l’innesto di una spirale involutiva dell’ecosistema che potrebbe essere senza ritorno per molte generazioni a venire. Infine, sul piano economico, viviamo un processo di aumento esponenziale delle diseguaglianze a livelli mai prima sperimentati. La ricchezza e il potere economico sono concentrati nelle mani di pochissimi a fronte di masse sterminate di diseredati che, inevitabilmente, tentano di fuggire dalla miseria alla ricerca dell’Eldorado, dando luogo a flussi migratori di entità inedita, difficili da sostenere anche da parte delle nazioni più evolute.
Tutti questi processi inevitabilmente si intersecano, generando impulsi che si riverberano l’uno sull’altro, alimentando la spirale involutiva.
Le realtà urbane, delle tante metropoli congestionate disseminate per il mondo, sono lo specchio fedele del degrado culturale, umano e ambientale. Un noto adagio in voga fra i writer recita “muri puliti popoli muti”, noi diciamo invece “muri imbrattati popoli stuprati”: L’io vorace, che non ha altro dio fuori di sé, commette quotidianamente atti di violenza contro il prossimo in una insensata corsa a prevaricare gli altri per emergere, con uno scarabocchio o una firma che va a deturpare anche il più bel murales o la più bella piazza, o con la pratica dell’usa e getta ovunque. Anche il più bel giardino si trasforma rapidamente da luogo di relazioni interpersonali a desolato luogo dell’abbandono. Una coltre plumbea ci induce a ritirarci per rinchiuderci in noi stessi, e la spirale continua, alimentata dalla bolla virtuale del social preferito in cui cerchiamo appoggio e rifugio: la nostra meschina, inconsapevole comfort zone. Tornano alla mente le analisi di Gustave Le Bon sulla psicologia delle folle: entità in cui ciascun individuo è capace delle azioni più turpi in quanto protetto dall’anonimato e incitato dalla spinta degli altri altrettanto anonimi compagni di piazza, così come protetto e incitato si sente chi si lancia a fare il leone da tastiera, spalleggiato dagli altri sodali del proprio gruppo nello scagliarsi contro il capro espiatorio di turno. E si diventa incapaci di osservare e leggere la realtà per quella che è, si diventa carnefici e vittime allo stesso tempo.
Così il leviatano divora sé stesso, e lo fa allegramente, continuando a danzare inconsapevole fino a che il Titanic non sarà affondato.”

È un quadro apocalittico di fronte al quale nessuno può dirsi innocente. Noi che ormai siamo gli esponenti della vecchia generazione, dove abbiamo sbagliato? La possibile buona fede non significa automaticamente assoluzione. Siamo ancora in tempo per avanzare nuove proposte?

“A fronte di questi esiti, onestà intellettuale ci impone di riconoscere che – se non abbiamo fallito in senso proprio – tuttavia un grave errore lo abbiamo commesso; era proprio ciò che la mente ci suggeriva a essere fuorviante: non era dalla società che dovevamo partire per migliorare noi stessi ma dovevamo partire da noi stessi per giungere a un superiore livello di consapevolezza e così gettare semi per indurre la società stessa a salire di livello. Per diventare una comunità di uomini liberi è necessario che la ricchezza interiore e le personali capacità di agire possano essere fonte di benessere e ricchezza anche per tutti gli altri, sia dal punto di vista interiore che materiale. Mettere al centro l’individuo nell’ottica del bene comune, questa è la nuova utopia, anzi, la nuova promessa che dovremmo cercare di tradurre in atti concreti. Come dice Vito Mancuso (in Etica per giorni difficili) “la nuova utopia è minimale, il suo nome è antico, si chiama umanità. (…) Le vecchie utopie miravano a cambiare il mondo, la nuova utopia mira molto più modestamente a non farsi cambiare dal mondo. E a custodire l’umanità”. È così che possiamo sfuggire dagli artigli del nuovo Dio che impera oggi nella postmodernità, il Dio io narcisista e insaziabile perché necessita sempre di nuove cose – reali o virtuali – per riempire il vuoto interiore, di più stimoli che lo esimano dalla riflessione, di più rumore che sommerga il silenzio. Ma soltanto nel silenzio può emergere la coscienza di sé.”

Da quello che dici deduco che la nostra vecchia cultura può ancora offrire degli spunti validi ad affrontare la delusione che ci confonde e ci paralizza. Citi Revelli, Mancuso, addirittura Platone. Sono tutti pensatori che ci riconducono alla consapevolezza interiore. Ma in che modo la coscienza di sé può diventare bene comune?

“Ne L’idiota di Dostoevskij, Ippolit si rivolge in modo sprezzante e irridente al principe Myškin chiedendogli, nel corso di una festa in suo onore, se davvero lui pensa che “la bellezza salverà il mondo”.
La nostra risposta è sì.
Sarà la bellezza esteriore ma nella consapevolezza che essa è veramente tale se scaturisce dalla bellezza interiore. Che è contagiosa.
Sarà il pescatore di perle, che si immerge nell’oscurità dell’essere fino ad arrivare al fondo dell’abisso per trovare la perla più bella e, portatala in superficie, non la tiene per sé ma ne fa dono agli altri: “date e vi sarà dato”.
Donare è il miglior modo per ritrovare il proprio autentico io. Aiutare gli altri ad avere la capacità di ricevere ne è il complemento.
Allora partire dall’individuo piuttosto che dalla società per salire di livello non significa abbandonare la dimensione sociale per rinchiudersi in quella individuale, significa invece ritrovare se stessi e poi agire su un piano più elevato di consapevolezza, offrendo il proprio impegno per il bene comune e riconoscendo in esso la fonte del proprio benessere. La nuova utopia è minimale, il suo nome è antico, si chiama umanità.”

Nel mondo in cui il Dio della religione era il collante fondamentale delle comunità certamente il richiamo all’autocoscienza trovava vari canali di diffusione, alcuni proficui altri meno. Ma nella società del libero mercato, del profitto a tutti i costi, il concetto di bellezza può diventare strumento per obiettivi ben poco nobili. In questo contesto è possibile individuare condotte virtuose concrete? È possibile trovare strade in grado di condurci su percorsi umanamente costruttivi? Sei un economista e so che sei capace di approcci pragmatici.

“Molte sono le strade che si possono percorrere da questo punto di vista: facendo impresa in modo attento e responsabile, non con mentalità predatoria ma per ricevere il giusto profitto, svolgendo semplicemente bene e seriamente il proprio ruolo di dipendente o di libero professionista, cooperando attivamente a un obiettivo comune, rispettando gli altri che sono qui con noi su questa terra o che verranno in futuro. Sono necessarie azioni concrete di volontaria consapevolezza, come avviene appunto nel volontariato.
Ci sono tanti modi di fare volontariato ma la matrice è comune: è un atto di volontà, quindi di libertà, al servizio della collettività, per accrescere il proprio e l’altrui benessere e a tal fine si deve anche essere disposti ad affrontare situazioni di sofferenza, anche estrema, che ci mettono psicologicamente alla prova. Ma un tale cimento genera sempre e comunque un grande sentimento di gioia. Che è la gioia autentica, quella che nasce in casa, come scriveva Seneca a Lucilio. Nasce nell’interiorità e per questo è una cosa seria, la più importante cui l’uomo possa aspirare: Verum gaudium res severa est.”

 Allora entriamo nella concretezza della attività di volontariato che tu e Marina state portando avanti da alcuni anni. Il lavoro che avete svolto presso l’ISTAT nello spirito di servizio che vi anima ha già ampiamente contribuito ad accrescere il bene comune all’interno di un’istituzione nazionale e non solo. La vostra attività in Retake cosa ha aggiunto al vostro percorso? O meglio, ad un percorso volto alla costruzione di una comunità più gioiosa..

“Insieme abbiamo scelto di impiegare parte del nostro tempo nella cura dell’ambiente, quello urbano e naturale. La dimensione ambientale, fisica o immateriale, attraversa fatalmente qualunque altra dimensione che possa riguardare l’esistenza umana semplicemente perché consistiamo o ci muoviamo poggiando i piedi su questa terra: tutti respiriamo la stessa aria, tutti ci nutriamo di cibo e impressioni. Se queste sono negative il nostro umore si fa scuro e se si accumulano nel tempo formano un carattere buio e triste, rancoroso, che ingabbia la mente e il cuore; se sono positive generano l’energia vitale che ci sostiene e ci permette di andare oltre, di aprirsi al nuovo e agli altri, ci danno il coraggio di guardare dentro noi stessi e osservarci.
Come insegnava G. I. Gurdjieff, ricordarsi di sé e nutrirsi di impressioni positive rappresenta un passaggio obbligato per iniziare a percorrere la strada della crescita di livello, la quarta via. E le impressioni sono generate dall’ambiente in cui siamo immersi, che è fatto di cose (la città con la sua storia, la natura) e di relazioni con gli altri.
Io e Marina viviamo a Roma per cui l’ambiente principale con cui entriamo quotidianamente in contatto è quello urbano. La città, a sua volta, è fatta di beni comuni: una piazza e gli edifici che vi si affacciano, un parco, un viale, una scuola, una casa, il suo paesaggio e l’aria che vi si respira, la cultura che esprime. Avere cura di questo ambiente crea le condizioni di contesto affinché le impressioni che ciascuno riceve siano positive, predispongano a uscire dal proprio guscio e aprirsi agli altri. Così l’ambiente fisico, i beni comuni, diventano un veicolo per aprirsi alla relazione con gli altri e l’attività di cura, se fatta insieme agli altri, è un potente strumento di dialogo, confronto, inclusione, solidarietà, comprensione. Un importante strumento di crescita..”

Retake Roma nasce nella Capitale ma so che ad oggi è presente in molte città italiane. Parlaci dell’attività che svolge a Roma e alla quale proprio voi due avete dato un forte impulso soprattutto dal punto di vista progettuale

“A Roma Retake è strutturata in circa 80 gruppi che agiscono sul territorio del proprio quartiere/rione e accolgono, liberamente, chiunque voglia dare il proprio contributo. Opera peraltro anche attraverso linee progettuali trasversali che riguardano potenzialmente tutto il territorio urbano. Ad esempio con “Retake cultura” si organizzano passeggiate ecologiche in gruppo per visitare luoghi noti e meno noti, a volte sconosciuti ai più, ma sempre di grande interesse. La passeggiata si definisce ecologica perché, mentre si cammina armati di pinze e sacchi, si raccolgono i rifiuti abbandonati sui marciapiedi o si tolgono le tante pubblicità abusive e gli adesivi che si trovano ovunque. Alla fine la passeggiata, così concepita, rende soddisfatti sia perché si è appresa la storia di nuovi luoghi sia per aver contribuito alla loro cura: sono entrambi beni comuni. Ma non solo, la soddisfazione aumenta per la sensazione di aver diffuso germi di consapevolezza che in alcuni, prima o poi, daranno frutti. I risvolti non sono immediatamente visibili ma hanno anche carattere economico.
Una città come Roma è un patrimonio ineguagliabile, un asset che potrebbe generare molto di più in termini economici di quanto ora avvenga (è un asset drammaticamente sottoutilizzato) se l’attività di impresa fosse improntata a responsabilità e consapevolezza del proprio stesso interesse (che è fare profitto e crescere). Sono innumerevoli le imprese, di solito piccole, che operano a Roma nel campo del turismo, della ristorazione e del commercio: il loro comportamento è normalmente di tipo predatorio, perché privo di una reale visione delle proprie potenziali direttrici di crescita: una condotta miope secondo la quale l’importante è sopravvivere, quasi sempre operando in nero e altre piccole furbizie. Quasi a nessun gestore viene in mente che la prima, semplice banale cosa da fare è curare gli spazi su cui insiste la propria impresa (hotel, bar, ristorante, esercizio commerciale di qualunque tipo). Basterebbe solo questa attenzione volta alla cura dello spazio antistante per far crescere il fatturato e al contempo contribuire alla cura dei beni comuni, al benessere collettivo. Gli stessi turisti, nutrendosi delle impressioni negative generate dall’incuria, sempre più sono turisti del “mordi, devasta e fuggi”, come gli avventori autoctoni. Se al contrario il motto distintivo fosse “assapora, rispetta e soffermati” quale enorme beneficio ne ricaverebbero tutti, noi come persone e le imprese come organizzazioni volte alla creazione di ricchezza!”

Ricordo bene di avervi raggiunto durante una delle vostre passeggiate ecologiche a San Paolo o al Parco di Tor Marancia e vi ho visti all’opera, anche in tempi semi-pandemici, con mascherine e altre protezioni. Con quale spirito avete affrontato un’attività comunitaria in un momento in cui si evitavano rapporti ravvicinati.

“La pandemia ha generato una crisi economica e sociale di proporzioni enormi e ha determinato l’esplosione di povertà e situazioni di marginalità prima sconosciute. Io e Marina ci siamo chiesti cosa concretamente potessimo fare per dare una mano a uscire dal tunnel in cui vedevamo essere precipitate tante persone. In che modo potevamo orientare l’impegno nella cura dei beni comuni affinché potesse essere anche uno strumento diretto di riscatto per chi volesse cimentarsi? E così abbiamo dato vita al progetto Retake Roma per una Comunità Solidale. Oggi sul sito di Retake Roma ne è espressa l’essenza e la finalità: il progetto mira a rendere esplicito e concreto il nesso inscindibile fra rigenerazione urbana e rigenerazione umana. La prima non è solo un valore in sé, è anche strumento di realizzazione della seconda. Alla base delle iniziative che Retake sviluppa in tale ambito c’è la consapevolezza che il bene comune più importante di cui prendersi cura è la comunità stessa… La bellezza e l’armonia dei luoghi vanno ritrovate insieme, attraverso una nuova più alta solidarietà fra le persone, attraverso la partecipazione e l’aiuto reciproco. Operiamo attivando progetti che favoriscono la collaborazione più ampia fra associazioni, istituzioni locali, residenti, operatori economici e coinvolgendo, in particolare, le fasce più deboli della popolazione che, in questa crisi, soffrono le condizioni di difficoltà più drammatiche.
Nel progetto, quindi, c’è al centro la Bellezza – l’Armonia – come molla per avviare il cammino verso un più alto livello di consapevolezza, verso un superiore equilibrio, fondamento dell’idea di Bene e Giustizia, nell’uomo e nella società.
“Quando uno vede la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza, mette le ali” diceva Platone. Parafrasando Vito Mancuso (La via della bellezza), Bellezza è armonia, e l’armonia è la tendenza originaria dell’essere all’aggregazione, la matrice universale di quella organizzazione che ha permesso e permette la complessità della vita.”

Quindi possiamo dire che il vostro progetto prevede una proposta rivolta a tutti i cittadini di buona volontà ma che contemporaneamente offre occasione di riscatto proprio ai più disagiati. Riporto quanto riferite sul Blog di Retake:

“Il nostro mal-essere, infatti, non è indipendente dal malessere che ci circonda: il ben-essere individuale è una condizione che implica compartecipazione, richiede una comunità solidale. Una comunità che sappia prendersi cura delle persone che la compongono, dei luoghi in cui quotidianamente vivono, in cui nessuno e nessun luogo sia abbandonato al degrado perché l’ambiente esterno influisce – in positivo o in negativo – su ciascuno di noi così come il nostro stato interiore, il nostro ben-essere o il nostro mal-essere, si riflette inesorabilmente sull’ambiente, che ne diventa lo specchio. Per questo Retake si prende cura dell’ambiente, come mezzo per prendersi cura delle persone, come tramite irrinunciabile per accrescerne il benessere.”

“Retake solidale vuole stimolare la pratica concreta di forme alte di solidarietà fra le persone, dove gli emarginati possano trovare spunti per risvegliare il proprio essere, relazionarsi e ritrovare la dignità perduta, essere riconosciuti come risorsa e non più come un problema, alzare la testa e tornare ad essere visibili perché utile e riconoscibile è il loro impegno per il benessere collettivo. E si avviano processi di inclusione sociale che cambiano l’intimo atteggiamento dei più fragili così come quello dei cittadini più fortunati. Anche loro iniziano a farsi nuove domande, si chiedono da dove venga il proprio malessere e cercano nuove strade. Il nostro mantra è partire dalle cose per arrivare alle persone, partire dal fare cose concrete che traducano in fatti ciò che troppo spesso è solo enunciato a parole, anche poco comprensibili.”

E quindi passiamo ai fatti. Descrivici quella straordinaria esperienza che ha visto la rinascita di Colle Oppio. Con Marina abbiamo passeggiato per i sentieri del Parco e finalmente lo abbiamo trovato pieno di bambini, cosa che non succedeva da tempo immemorabile. 

“A inizio 2021, nel pieno della seconda ondata della pandemia, abbiamo iniziato a occuparci di Colle Oppio, uno dei parchi più belli di Roma ma allora preda del degrado. Il progetto di cura Aiutaci ad Aiutare ha visto coinvolte circa 50 persone fragili, in buona parte utenti della mensa Caritas e dei servizi docce gestiti dalla vicina parrocchia di San Martino ai Monti, ma anche tanti altri, residenti e non, in condizioni di disagio o meno. Per nove mesi abbiamo curato insieme il parco e le strade circostanti: ogni mercoledì si sono spesi tutti come volontari, hanno partecipato con gioia, tanti hanno ritrovato nel lavoro comune, nello sporcarsi insieme le mani, la voglia di agire in una comunità che poco a poco si andava ritrovando. I residenti hanno compreso che immigrati ed emarginati possono essere una risorsa invece che un problema, hanno cambiato il loro sentire che da diffidente e astioso è quasi sempre diventato progressivamente più aperto e comprensivo. Alla fine di ogni mattinata abbiamo sempre organizzato un momento conviviale, occasione per fraternizzare, scherzare e dialogare, conoscersi. E poi, dopo lo spuntino, abbiamo dedicato un po’ di tempo agli immigrati per organizzare esercitazioni di italiano, ben consci che la mancata padronanza della lingua è la barriera più alta all’inclusione. Hanno concorso all’attività, oltra a Caritas, parrocchia e Municipio, altre associazioni che si sono spese in vario modo in base alle proprie competenze. Così alla fine ne è scaturito, come azione conclusiva del progetto, un corso di formazione per operatore agricolo e giardiniere cui hanno partecipato assiduamente molte delle persone più fragili.
Oggi possiamo affermare con orgoglio che oltre una decina di loro ha trovato un vero lavoro, e molti altri si sono inseriti in percorsi di recupero e non stanno più sulla strada. Josef, Faysal, Dominic, Kumar, Louis, Osagie, Mhadi, Ibrahim, Mohammed, Diakite e altri ancora hanno cambiato vita, ci hanno dato in dono il loro sorriso, e il cuore si è riempito di gioia. L’umano che alberga nella profondità del nostro essere è venuto alla luce: un altro mondo è possibile, l’impegno non è inutile, è difficile e richiede tanta determinazione ma non è inutile.
Fra l’altro, a corollario di quanto appena detto, non è superfluo rilevare che oggi il parco del Colle Oppio, proprio grazie alla spinta generata dal progetto, ha riacquistato la dignità perduta: sull’onda del nostro esempio le istituzioni locali – che a vario titolo abbiamo coinvolto – dopo tanti anni hanno compreso che la manutenzione del parco è un compito da cui non si possono sottrarre: un circolo virtuoso sembra essersi avviato anche sotto questo profilo. Abbiamo dimostrato che un nuovo fecondo rapporto fra cittadini e istituzioni, nella logica dell’amministrazione condivisa dei beni comuni così ben raccontata da Gregorio Arena (in I custodi della bellezza), è possibile e concretamente praticabile. L’esempio vale più di mille parole.”

Ed è un esempio davvero incisivo nel momento in cui proprio voi due, promotori del progetto, impegnati in tutte le pratiche burocratiche necessarie ad operare all’interno dei limiti legali, vi siete spesi in prima persona con pale e ramazze a fianco di immigrati e senza tetto. Per non parlare della carica umana che avete messo in campo momento per momento, volta a sostenere l’ondivaga volontà di persone disagiate, o l’incertezza delle persone fragili. Un atteggiamento più trainante di tante norme.

“È vero, dopo quella prima esperienza, il progetto Retake solidale è cresciuto, sviluppandosi in forme simili in altri quartieri, come a San Lorenzo, a Monte Sacro, a Don Orione, San Paolo, promuovendo reti e alleanze. E nuove idee progettuali sono in gestazione, nuovi sviluppi ci attendono alla prova.”

Marina, tu che sei stata l’artefice del Progetto Promozione per la Cultura Statistica nelle scuole, certamente hai fatto uso della tua esperienza per attivare l’incontro tra Retake Solidale e Retake Scuole, un progetto trasversale dedicato agli studenti di ogni ordine e grado.

“Ogni esperienza svolta con coscienza lascia un’eredità in grado di rinnovarsi. Con Retake Scuole si progetta e si agisce con i ragazzi che diventano gli artefici di esperienze inedite, guidandoli nella cura della propria scuola e dei luoghi intorno ad essa. Dopo aver realizzato le migliorie necessarie, si riflette sul significato di tali esperienze, sul senso profondo di tale agire. Oggi, ad esempio, stiamo conducendo un progetto con il liceo Cavour (50 ragazzi) e l’IIS Leonardo da Vinci (altri 50 ragazzi) a cui partecipano anche rifugiati e richiedenti asilo che fanno capo al Joel Nafuma Refugee Center (JNRC). Con JNRC abbiamo ideato un progetto di inclusione sociale denominato “Green Refuge: Tackling Environmental Racism in an Urban Environment through Refugee Empowerment”. Nel corso del lavoro immigrati e studenti agiscono e si confrontano alla pari, si attiva una relazione, un dialogo inizia a svilupparsi. La comprensione reciproca si fa strada e la gioia di nuovo riempie il cuore. Come testimonia questa frase che una delle persone fragili (un italiano) che sta partecipando al progetto ha scritto su Facebook: Credo che già trovarsi insieme in così tanti, ridere, scherzare, e per giunta per una bellissima causa, sia una vittoria per tutti, partecipanti e no. Dai, andiamo avanti con questo messaggio d’amore verso tutti! un abbraccio. ”

Insomma, c’è ancora spazio per rinnovare una promessa di ben-essere, a patto che il bene individuale cresca in armonia con il bene collettivo e, nel vostro caso, carissimi Raffaele e Marina, è l’armonia che ha nutrito e continua a nutrire anche il vostro ben-essere familiare.

“Sì, la via della Bellezza può essere percorsa, ma non ci sono scorciatoie e non c’è vero cambiamento che si possa ottenere con la forza, l’imposizione e la mistificazione. Bisogna agire con onestà, parlare una lingua che tutti possano comprendere. L’ambito del volontariato è solo uno fra quelli che possono essere praticati. Ma ci sembra fra i più significativi e promettenti per una buona semina. Alcuni semi cadranno fatalmente sulla nuda roccia, altri resteranno soffocati fra i rovi, altri però germoglieranno e se non resteranno casi isolati possono fare la differenza, dare davvero la spinta necessaria al conseguimento di un benessere superiore, dove il superfluo sia riconosciuto come banale e l’essenziale assurga a faro dei comportamenti e dei sentimenti.
In quest’epoca di crisi che sembra non finire mai, in cui gli Dei sono definitivamente caduti e le lacrime degli eroi non leniscono più le sofferenze dell’uomo, c’è bisogno di un nuovo umanesimo, di nuova e vera solidarietà, di più umiltà e amore per il prossimo. Se questo bisogno riuscirà ad affermarsi saranno molti a goderne. Può divenire una realtà così forte da poter cambiare ogni assetto e generare le condizioni affinché la Bellezza si trasformi in Bene, e la Verità sia compagna della Giustizia.”

Non ci è dato di conoscere i tempi e le forme di tale cambiamento, ma crederci almeno un po’ ci fa sentire meno soli.
Grazie!

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