Pianista, musicista, docente, formatrice, adesso, per un breve periodo tutor coordinatore dei percorsi abilitanti, ma soprattutto persona complessa che, senza troppo nascondersi, ammette di “funzionare” sulla base della propria intelligenza emotiva e di percepirsi come persona “empatica” che anzi, ha fatto di questa dote, non sempre considerata tale, una sorta di bandiera. Da quando sono entrata nel mondo della scuola, la riflessione sull’importanza della relazione prima di qualsiasi contenuto, dell’inclusione e della progettazione di ambienti inclusivi è diventato un pensiero costante, spinta soprattutto dalla convinzione che usare metodologie inclusive sia un fare scuola profondamente democratico, in risposta al diritto allo studio di tutti come recita l’art. 34 della Costituzione. La riflessione che segue è scaturita, pertanto, dalla recente posizione di tutor, dal particolare momento della vita che mi porta a cercare, tra passato e presente, tutte quelle parti che oggi costituiscono il mio SÉ, e, non ultimo, il recente impegno a livello sociale e professionale nella comunità in cui vivo da oramai quaranta anni, Villa Adriana, a pochi chilometri da Tivoli. Partendo dal concreto per tornare all’astrazione, tre esperienze recenti, diverse, ma assolutamente collegate, sono state catalizzatore della riflessione più ampia sulla possibilità, non solo di costruire azioni didattiche e una scuola inclusiva secondo l’Index for Inclusion[1] ma anche una Comunità che, in sé, rispecchi questi stessi indicatori e sia, al tempo stesso, empaticamente inclusiva, come è giusto che sia, dal momento che relazione, intelligenza emotiva, diversità ed inclusione sono in stretta correlazione.
La prima esperienza riporta al ruolo di educatore per il Tivoli Forma di Tivoli nei Percorsi di Formazione Individualizzata per ragazzi e adulti diversamente abili che, dallo scorso anno mi accolgono nelle loro classi con emozioni da condividere in musica tra improvvisazioni libere, guidate e attività più o meno strutturate; una sfida personale ma di riconoscimento e maturazione personale dal momento che, con quegli adulti, sento di condividere molti aspetti. Ecco, da quella esperienza ho mutuato l’idea di una diversità-opportunità che si fa “cura”: verso l’esterno e l’interno. Per te e per loro. Per te e per gli altri. Sfaccettata, multiforme, dalle molte dimensioni ed espressioni dove non esistono muri, steccati, limiti, paletti e tutto scorre naturale. Nessuno giudica, norma, contiene, allontana ma anzi, anche nei casi più complessi, si crea quel contatto-ponte, di musica o di abbracci che parlano e parole che abbracciano, che aggiustano e rimettono in forma quando quella corrente ti trascina e sembra portarti alla deriva. Un riconoscimento dell’io so chi sei, tu sai chi sono in cui viene sprigionata energia positiva, di flusso, quel flow che pochi, nel quotidiano, riescono a mobilitare. In quello spazio senza barriere, tutti, in musica, facilitatore e vettore emotivo, e nella relazione che la musica stabilisce, possiamo essere ciò che realmente siamo. Non si deve ribadire infatti che le attività musicali proposte in questi contesti sono principalmente volte a sviluppare la consapevolezza di sé e dell’altro sperimentando il continuo scambio di ruoli, dal guidare al seguire, per facilitare i processi relazionali, l’interazione, la leadership e la capacità di ascolto attivo.
La seconda esperienza, invece, è quella in cui sono stata da poco coinvolta, sollecitata anche da due persone diversamente abili, una dalla nascita, l’altra a causa di un incidente sul lavoro, che hanno invitato la comunità interessata a riflettere sulle barriere architettoniche e sulla evidente mancanza di una politica volta ad eliminarle: marciapiedi sconnessi, ostruiti da alberi, strade in pendenza o strette, scalini, sanpietrini, rampe inesistenti, medici di base con studi privi di ascensore, arterie di grande comunicazione prive di luce o non sicure, barriere percettive, un diritto alla mobilità che l’art. 16 della nostra Costituzione garantisce per tutti e che, invece, ogni giorno, a loro viene negato, rimasti indietro, come siamo, nell’assicurare che infrastrutture e i servizi siano davvero accessibili a tutti.
Ma, ancora una volta, garantire, progettare, lavorare per la piena accessibilità di una città nella pianificazione urbana che tenga conto di persone con abilità compromesse, altro non significa che attuare l’inalienabile diritto di ogni cittadino, sia esso un anziano, una donna in gravidanza o persona temporaneamente impedita, di potersi muovere liberamente, in modo indipendente, in sicurezza, consentendogli quindi, di partecipare alla vita sociale.
Ultimo, ma non ultimo, una proposta-progettuale di Comunità che si propone di tornare ad essere coesa e forte nell’identità, attraverso un lavoro di conoscenza e ricerca della sua storia. La Comunità è quella di Villa Adriana che, come molte nella periferia romana, ha una storia relativamente recente. Nonostante una vivacità di iniziative e di impegno sociali, tra la fine degli anni ‘70 fino all’inizio degli anni ’90, quella che si era strutturata come comunità con proprio senso identitario anche rispetto alla provenienza delle persone ivi stabilitisi, è tornata ad essere un quartiere-dormitorio di cui pochi conoscono la storia. Da qui, il bisogno di ripartire dal basso nella consapevolezza che l’essere membri partecipi ed attivi di una comunità, ossia esercitare la Cittadinanza, non sia uno status per nascita ma un processo di acquisizione continua. Da qui, la necessità di aprirsi per conoscere, ricercare, indagare per riannodare piccole/grandi storie del passato che, con l’aiuto di tutti, possano, con diverse espressioni, riconnettere i cittadini, ricreando quel tessuto sociale e quel senso di appartenenza necessari alla rifondazione della coesione. Tutti possono impegnarsi a recuperare storie del passato per riannodarle al presente rendendosi attori di una crescita collettiva accompagnata dalla creazione di un linguaggio comune che, oltre a facilitare processi di autoregolazione emotiva e di autovalutazione metacognitiva, genera il senso di appartenenza a un’unica realtà. Non è questa solo una operazione della memoria o un’azione di ricerca o recupero fini a sé stessi, non solo un solco ed un habitus condiviso, ma la consapevolezza che, in questo fare condiviso, si possa recuperare l’importanza dell’essere Comunità secondo un modello nuovo di pensare ad essa, ossia una comunità che rifletta proprio gli indicatori che possano renderla inclusiva. Ed ecco l’idea di estendere, al sistema-comunità, il grande strumento critico entrato nelle scuole, l’Index for Inclusion nel suo porre al centro dell’analisi il contesto definendo, chiaramente, lo sviluppo inclusivo nell’abbattimento di barriere che portano a esperienze di esclusione per alcuni gruppi di persone con l’idea di trovare facilitatori per la piena partecipazione e il massimo livello di sviluppo possibile di tutti, secondo una idea di inclusione che non riguarda pochi ma tutti. Una comunità inclusiva non è solo quella che si basa sul rispetto reciproco ma è quella che riconosce l’altro nel suo inalienabile diritto ad essere come È o SI PERCEPISCE. Riconoscere è più che accogliere, termini questi che ripropongono la sostanziale differenza tra includere e integrare. Rispecchiare e riconoscere l’Altro/la diversità è porre le basi per l’esplicazione della libertà che non è una linea retta ma un processo circolare. E torniamo alla prima esperienza, per cui, oggi è corretto e giusto parlare non di disabilità o, peggio, handicap, termini che si concentrano sulla mancanza, ma di diversabilità, termine che, invece, si concentra sulla differenza e, quindi, sulla unicità. I termini non sono tutti uguali. Differenza, unicità, ancora una volta, riguardano tutti e non solo coloro che – secondo la vulgata – rientrano in questo paradigma. E accanto a diversabilità, neurospecificità, che preferisco a neurodivergenza. Tutti dovremmo cominciare a pensare a noi stessi come neurospecifici e diversamente abili. Diversamente abili, quindi, siamo tutti e, in particolar modo, non abilitante è la situazione ed i contesti che non tengono conto della pluralità di espressioni. In questo contesto, l’intelligenza emotiva (EI) si profila come un fattore chiave per abbracciare la diversità e l’inclusione, poiché ci consente di coltivare l’empatia, apprezzare la diversità di esperienze ed emozioni che le persone provano, apprezzare prospettive ed esigenze diverse, gestire eventuali conflitti e, anzi, vederli come un’opportunità di apprendimento e di crescita, utilizzare capacità di comunicazione efficaci, trovare un terreno comune e soluzioni a vantaggio di tutti, costruire fiducia, cooperazione, coltivare una rete diversificata di contatti che possono offrire supporto ed opportunità, autoregolamentarsi per far fronte a paure rispetto alla diversità che, al contrario, ci aiuta a crescere non solo come individui ma come società. Le società possono prosperare solo se il paradigma viene rovesciato. Non perché pochi “diversi” devono essere inclusi ma perché tutti noi, che siamo diversi, possiamo prosperare e vivere in quanto individui connessi sinergicamente, gli uni agli altri, dal sostrato emotivo-emozionale. L’inclusione, quindi, diventa un processo dinamico per aumentare la partecipazione di tutti in contesti, sistemi, comunità e culture. Se i nostri sistemi, tutti, non solo quelli educativi, creano gerarchie di valore, includere implica smantellare queste gerarchie e creare modi alternativi di Essere. Cambiare un paradigma, mentale e culturale, consente di delineare una Comunità per tutti noi che siamo, di fatto, diversi, specifici, unici. Una Comunità inclusiva è coesa, partecipata ed in movimento, allargata orizzontalmente ai cittadini che possono, così, tornare a sentirsi parte di un Tutto e di un progetto comune; è pronta a promuovere le interazioni con la scuola ed il territorio circostante, il sostegno reciproco, il pluralismo come risorsa e, quindi, l’essere riconosciuti per sé stessi, limitando le spinte, pregiudiziali o concrete, permanenti o temporanee, all’esclusione. Una Comunità inclusiva lavora per il bene comune ed il benessere condiviso mettendo la persona al centro in quanto parte di un contesto arricchito dalla presenza di tante diversità; elimina gli ostacoli – le nostre barriere architettoniche e culturali – alla partecipazione diretta delle singole diversità, alla costruzione della propria identità; è accogliente, cooperativa, luogo ideale e concreto in cui il punto di vista del singolo ottimizza i risultati del piccolo/grande gruppo ed incoraggia tutti i suoi membri a permanenti pratiche inclusive e a sentirsi pienamente ed identitariamente coinvolti nel processo di conoscenza dal momento che, la valorizzazione di ciascuno, diviene punto di partenza per ottimizzare i risultati di tutti. Una Comunità inclusiva propone azioni comuni e integrate tra soggetti diversi, animate da principi comuni di cittadinanza, riconoscimento dei diritti della persona, rispetto delle peculiari differenze, promozione di rappresentazioni positive di ogni tipo di diversità, costruzione di spazi per l’incontro, cura dei bisogni, per sviluppare nuove opportunità per tutta la base sociale senza lasciare nessuno ai margini in un processo permanente. È la comunità in cui ciascuno si sente a proprio agio e percepisce sé stesso riconosciuto e quindi, benvenuto, accolto, in cui tutti vengono valorizzati; accoglienza e partecipazione vengono promosse e facilitate perché i membri possano cooperare e collaborare in quanto portatori di punti di vista differenti e quindi unici; le differenze, di qualunque genere, vengono considerate mezzo di miglioramento, ripensamento e di arricchimento e le competenze di ciascuno messe a disposizione di tutti e valorizzate. Fare comunità, vivere la comunità, passa, quindi, dall’attivazione delle persone, dei gruppi, delle relazioni, attraverso il fare rete a più livelli e in diversi ambiti come unico approccio, cooperativo, in grado di migliorare la vita dei singoli ed aprire nuove opportunità: interdipendenza, sostegno contro ogni forma di pura competizione, gelosia, avversione, ma soprattutto contatto che è… di nuovo, empatia, riconoscimento, esperienza di condivisione emotiva. Modificare universalmente la società per adattarla alle necessità di ognuno.
Queste dimensioni, ovviamente, guardano al necessario sviluppo di politiche a sostegno dell’inclusione, vero imperativo etico, e della diversità come sopra definita, compresa la capacità di adattamento e cambiamento ove necessario. È ovvio: serve rivedere la scala dei valori. Includere è esplicitare, è mettere in atto, è rendere concreti nuovi valori a orientare e anche, definire, la destinazione: lotta alla discriminazione, alla violenza, uguaglianza, equità, diritti, partecipazione, rispetto per le diversità, sostenibilità ma anche fiducia, empatia, onestà, coraggio, gioia e bellezza[2]. Valori condivisi da riaffermare da rendere azioni.
Quale allora, il rapporto tra scuola inclusiva, quella da cui parte e a cui tende l’Index, intelligenza emotiva e Comunità?
Semplice. Sono parti di una sola unità. Tra scuola e società sussiste un rapporto circolare in base al quale, un ambiente educativo che stimola la partecipazione di tutti gli alunni prepara a una società inclusiva, che rende, a sua volta, possibile una riduzione degli ostacoli all’apprendimento di qualsiasi tipo. Una scuola inclusiva è una scuola “in relazione”, emotivamente connotata ma, d’altra parte, lavorare sulle emozioni significa anche promuovere climi inclusivi che avranno riscontro nel tessuto sociale. Una scuola inclusiva riflette sul senso e fa da catalizzatore e da moltiplicatore nel momento in cui quegli stessi insegnanti operano all’interno delle proprie comunità nelle quali riportano la necessità di riformulare il concetto stesso di Comunità.
Utopia o realtà?
Le esperienze di quest’anno mi dicono che, anche se tra moltissime difficoltà e con la prospettiva di tempi lunghi, necessari affinché nascano dialoghi autentici capaci di «scavare sotto alla superficie» di conflitti, problemi, difficoltà o anche semplicemente elementi culturali vecchi, le premesse e le potenzialità di realizzazione ci sono tutte.
BIBLIOGRAFIA
Booth T. e Ainscow M. (2011), Index for Inclusion, Terza edizione rivista, Bristol, CSIE.
Brugger-Paggi E., Demo H., Garber F., Ianes D. e Macchia V. 2013. , L’Index per l’Inclusione in pratica. Index für Inklusion in der Praxis, Milano, FrancoAngeli.
https://www.csie.org.uk/resources/translations/IndexItalian.pdf