Passeggiava lentamente sulla Drottninggatan. Erano le otto e trentatré e il cielo, ancora screziato di rosa, preannunciava una giornata limpida.
I passanti, pochi a quell’ora, si affrettavano per sfuggire al freddo pungente e si avvolgevano nelle sciarpe o scomparivano sotto i cappelli. Girò l’angolo e si ritrovò di fronte alla Konserthuset, la sala concerti dove quella sera ci sarebbe stata la cerimonia. Le gambe presero a tremare e la testa a girare, per cui fu costretto a fermarsi e appoggiarsi al tronco di un albero spoglio. Proprio in quel momento, dinanzi a lui, passava un uomo con un cappotto nero. Il bavero alzato copriva il volto fino al naso rendendo visibile soltanto gli occhi – due spilli color ghiaccio – e la fronte alta e piana contornata da un ciuffo argenteo.
– Ha bisogno di qualcosa?
Dal cappotto emerse una voce tagliente che si appellava a lui in italiano.
Come poteva lo sconosciuto sapere quale fosse la sua lingua, e quante probabilità c’erano di trovare un connazionale – l’accento troppo marcato per far pensare a uno straniero – in una fredda mattina di dicembre a Stoccolma?
– Non ho bisogno di nulla.
Replicò Elia in malo modo per allontanare il passante, ma il suo corpo trasmetteva segnali opposti e non appena ebbe ripreso a camminare una gamba cedette e poco mancò che cascasse a terra, se non fosse stato per l’altro che prontamente gli si era posto di fianco per sorreggerlo. E senza che potesse aggiungere mezza parola, o nemmeno formulare un pensiero, si ritrovò a procedere a braccetto con lo sconosciuto. Traeva quasi piacere dalla sensazione di farsi guidare, senza domandarsi dove stesse andando. L’uomo sembrava certo del fatto suo, si muoveva con la disinvoltura di chi conosce le strade di un luogo. Aveva abbassato il colletto del soprabito e adesso Elia poteva osservare la folta barba grigia e le guance un po’ incavate e arrossate dal freddo. Quel volto da cinquantenne era rassicurante e stranamente familiare.
***
– Signora il risultato del test è chiaro: suo figlio non raggiunge punteggi sopra la media in nessun item indagato; né in logica e pensiero astratto, né in intelligenza emotiva e neppure in creatività e arti applicate! In buona sostanza, suo figlio è assolutamente nella norma.
Queste parole erano risuonate nella testa della signora Lio durante tutto il tragitto di ritorno a casa, mentre il piccolo Elia non riusciva a tenere il passo e restava indietro, giusto per il piacere di fare una corsa di tanto in tanto, raggiungerla e ridere a crepapelle.
“Nella norma” ripeteva fra sé e sé, mentre rivedeva quella maledetta curva gaussiana e il percentile dove, secondo il prospetto elaborato dagli insegnanti, il suo “Lee” si era piazzato. E dire che per iscriverlo a quella scuola prestigiosa avevano dovuto attendere una lingua lista d’attesa e prima ancora il piccolo Lee, che aveva compiuto a quell’epoca sei anni, aveva sostenuto un esame di cinque ore con prove di logica e linguaggio.
– Lee, ascoltami – d’un tratto la madre aveva interrotto il suo gioco e l’aveva preso fra le braccia – tu sei speciale. E anche se quegli insegnanti non se ne sono accorti, dimostrerai a tutti che lo sei.
***
Stava seduto in un bar: il calore lo aveva accolto come il sorriso di una maschera a teatro e mentre sorseggiava il suo caffè americano gli sembrava di avere le idee più chiare.
“Ansia”, si diceva, “tutta colpa dell’ansia: anche l’immagine del passante sconosciuto è il prodotto di una mente sovra-stimolata nonché eccitata dal freddo della Svezia e da due notti insonni”.
Domattina sarebbe stato già meglio, pensava. Ordinò un croissant, e mentre affondava i denti nell’impasto burroso selezionò il numero di Clara sul telefono.
Una voce addormentata rispose.
– Come sta la piccola?
Chiese Lee.
Clara si mise a sedere sul letto. D’inverno amava crogiolarsi nel tepore delle coperte e avrebbe volentieri trascorso buona parte della domenica a godere di tale stato ristoratore.
– Bene. Max l’ha portata alla partita. Oggi giocano in trasferta. Tu come stai?
Elia esitò. Un tempo, pensò, si capivano con un solo sguardo. Non aveva mai incontrato nessuno in grado di penetrare il suo animo così in profondità. Da vent’anni però – tanto era passato dall’ufficializzazione del loro divorzio – la magia si era infranta. Elia continuava a telefonarle spesso, almeno una volta a settimana; le chiedeva come andasse il lavoro e come stesse Paula, la bambina nata dal secondo matrimonio, ma l’intesa di un tempo non c’era più. Gli sembrava di non avere più accesso al mondo e alla vita intima di lei; al più, poteva sbirciare dall’uscio e afferrare qualche immagine sfocata. La sua voce dolce ormai non lo emozionava, né il poter immaginare, da pochi indizi, come trascorresse le giornate. Ma, allora, perché continuava a chiamarla? Forse per non perdere del tutto il legame con il passato e con quell’Io di un tempo.
– Ho finito di rivedere il discorso per stasera.
Poi, con una voce diversa, come affiorante da un tempo remoto, e meno grave e fredda, mormorò:
– Clara perché sono qui? Cosa ci faccio?
Un lungo silenzio gli fece dubitare che a chilometri di distanza Clara lo stesse effettivamente ascoltando, ma poi la risposta arrivò:
– Non hai mai desiderato nulla così ardentemente, mai nulla, e adesso metti in discussione tutto?
Questa frase lo spiazzò; dubitava sinceramente che le cose stessero davvero come lei le descriveva e mentre Clara cercava esitante la giustificazione per terminare rapidamente la telefonata, Il pensiero di Elia andò a una calda mattina di qualche mese prima e si sentì inondato dal fragore di applausi.
L’aula era piena: ben oltre il centinaio di studenti che ospitava di norma. Si erano radunati anche ragazzi di altre Facoltà, ex alunni, nonché colleghi. La notizia del Nobel si era diffusa rapidamente e la folla era accorsa per rendere omaggio o, più semplicemente, per soddisfare una curiosità, quella di vedere un uomo geniale in carne e ossa. La segreteria della Facoltà di Ingegneria Biochimica era stata contattata da diverse testate: volevano una dichiarazione del vincitore e il rettore aveva deciso con estrema sollecitudine di organizzare una breve conferenza stampa quel pomeriggio stesso. Davanti al nutrito gruppo di inviati, cellulari e registratori protesi verso di lui, da principio Elia aveva sentito la bocca seccare e la lingua impanare, poi però tutto era andato liscio: perdersi nei tecnicismi del funzionamento delle telomerasi equivaleva a ripercorrere la sua vita degli ultimi vent’anni. Non era trascorso giorno senza che la sua mente indugiasse sulla modifica da apportare al processo di ibridazione o sul modo ottimale per velocizzare la replicazione. Solo una domanda gli aveva causato disagio: era venuta dal fondo della sala, un giornalista suo coetaneo i cui tratti adesso non riusciva a rievocare.
– Professore, pensa che un giorno la biologia molecolare riuscirà a cogliere la vera essenza dell’essere umano?
Ricordava il disagio che era aleggiato in aula e il profondo fastidio che aveva personalmente avvertito. “Adesso che ho vinto il Nobel”, si era detto, “per il progresso ottenuto in un settore così definito e ristretto, ci si aspetta che risolva gli enigmi dell’esistenza?”. Perché realmente un minuscolo frammento era, quello che era riuscito a scalfire della montagna dell’ignoto; il progetto che aveva meritato il prestigioso premio ineriva una tecnica innovativa per la replicazione di alcuni tratti genici. Forse, un domani avrebbe potuto contribuire – questa era stata la motivazione dei giudici – a combattere l’invecchiamento cellulare, cosa che gli era parsa non poco altisonante. Eppure, era consapevole che un tempo avrebbe dato tanto per distinguersi in quell’ambito microscopico, forse tutto.
E mentre ripensava a questa domanda e un fluire infinito di immagini e ricordi si riproponevano alla sua memoria, la figura dell’uomo che gliel’aveva posta si arricchiva di innumerevoli dettagli e diventava così definita da sembrare realmente presente lì, dentro il bar, che usciva dai servizi, si avvicinava al suo tavolo e si sedeva presso un tavolino a fianco. Solo allora gli fu chiaro: il passante di poco prima altri non era che il giornalista.
– Ma quindi, dopotutto, ha colto la vera essenza dell’umano?
Chiese questi, con voce fredda e calma e un sorriso che somigliava più a una smorfia, e ora ne deformava il volto, terrifico, eppure tremendamente somigliante al suo.
– E la tua, di essenza?
Domandò ancora. Una tensione crescente gli gravò terribilmente sul petto e si ritrovò ad ansare come se l’aria fosse stata aspirata dalla stanza, divenuta sottovuoto, mentre l’altro stava lì, per nulla preoccupato dallo stato di evidente malessere che stava cagionando, e anzi rideva con la bocca spalancata. O che la risata e la voce fossero le sue, mentre quell’uomo altri non era che un tranquillo avventore che non si curava affatto di lui?
Si precipitò fuori, per strada. Gli ci vollero diversi passi per riprendersi del tutto e tornare a respirare in modo naturale. Ma l’immagine di quello sconosciuto già visto e così simile a lui lo tormentava. Quasi barcollando tornò in albergo. Percorse il lungo corridoio imbottito di soffice moquette grigia e rosa e attese l’ascensore. Una volta dentro si guardò allo specchio e trasalì: il riflesso che contemplava era quello dell’uomo col cappotto: non era una semplice somiglianza quella. Senza motivo la bocca si incrinò in un ghigno malevolo e con la stessa voce dello sconosciuto, un timbro che non era mai stato il suo e che pure si addiceva perfettamente all’immagine allo specchio sentenziò:
– “ La tua essenza è questa.
No! Non quella, non poteva essere quella! Quando l’ascensore arrivò al piano era ormai in lacrime. Entrò in camera e frugò in una tasca della valigia, trasse fuori una boccetta e versò qualche goccia in un bicchiere, poi corse in bagno per riempirlo con l’acqua del rubinetto. Quando si guardò allo specchio notò con estremo sollievo che il viso riflesso era proprio il suo, stravolto e stanco, ma il suo: il volto di un uomo da poco, ma estremamente umano. Bevve d’un fiato il liquido e si distese sul letto ancora vestito.
Quando si svegliò era già buio pesto. “Saranno le tre del pomeriggio”, pensò, visto che in quel periodo dell’anno a Stoccolma il sole tramontava all’incirca a quell’ora. Prese il telefono e fu colto da enorme sorpresa nel vedere che invece erano già passate le sei. Aveva dormito tutto quel tempo. Cosa gli stava accadendo? I suoi nervi erano divenuti troppo fragili. Sapeva però di dover resistere, almeno fino alla cerimonia, e poi avrebbe goduto di un po’ di riposo.
Riposo sì, ma con chi? Non riusciva a ricordare l’ultima volta che si era preso una pausa dal lavoro, meno che mai una vacanza; con Clara sicuramente ce ne erano state di bellissime, ma erano passati almeno due decenni da allora. E poi, cos’era accaduto? D’un tratto gli sembrò che gli ultimi vent’anni della sua vita fossero trascorsi per un altro e che non fosse stato lui a viverli. Le giornate erano passate per lo più nel suo studio, riempite dal lavoro, senza la minima aspettativa che un’esistenza racchiudesse aspetti differenti dal produrre risultati.
Fu preso allora dall’improvvisa voglia di risentire la voce di Clara. Provò più volte a chiamarla, invano. Dunque, pensò di scriverle un’email. Aprì la sua casella di posta; c’era un messaggio non letto:
– Elia, mi sorprende che io sia qui oggi a scriverti un’email, quando basterebbe selezionare il tuo nome nella rubrica del telefono o alzarmi dalla scrivania e, uscito dal mio studio, fare i tre passi che mi separano dal tuo. Fino a qualche anno fa non c’era giorno in cui non compissi questo brevissimo tragitto o che non fossi tu a venire da me, ma adesso questi passi pesano come il cemento. La porta del tuo studio si è chiusa e definitivamente; ciò che più mi ferisce delle tue azioni non è l’irriconoscenza del collega ma il tradimento di un amico. Ma ormai amici abbiamo smesso di esserlo e da anni…
L’email proseguiva, ma Elia non sopportava di continuare la lettura: gli rinfacciava di non aver riconosciuto all’amico di una vita il contributo nella ricerca che gli era valsa il Nobel. In più, si delineava il ritratto di un uomo solo, che di anno in anno si era sempre più ritirato in se stesso e aveva escluso chiunque cercasse di avvicinarlo, ossessionato com’era da un’unica idea: dimostrare di non essere uno come gli altri. E questo suo atteggiamento aveva infine scacciato anche la persona che, lei sola, lo aveva conosciuto nella sua normalità e, proprio per questo, amato.
Chiuse il PC e si prese la testa fra le mani sconvolto. “No” pensò “questo non sono io”. Non si riconosceva in quella descrizione e sentiva di non essere lui ad aver preso quello scelte. “No, non io, ma quell’altro”. L’altro che non voleva essere più.
Cosa ci faceva adesso, immerso nel buio in quella camera con vista su Stoccolma?
Si affacciò alla finestra: le luci della città si riverberavano sull’acqua nera come stelle vorticose in un celo pesto. D’un tratto notò una figura scura ferma sotto un lampione che guardava proprio verso la sua finestra; il volto, illuminato dalla luce artificiale, era una maschera terrificante. Subito lo riconobbe. Ecco l’uomo che doveva stare nella camera d’albergo, non lui, bensì quest’altro. Prese il cappotto e si precipitò fuori per strada, perché doveva parlargli, doveva dire a quell’essere immondo che voleva riprendersi la sua di vita, la grama esistenza di un essere normale, e mediocre. Ecco, l’essenza dell’essere umano: l’aveva infine trovata e non nelle pagine di un trattato di biologia molecolare, ma nella notte fredda di Stoccolma: la mediocrità. E ora tutto ciò che desiderava era riassaporare la normalità che ormai da tanto, troppo tempo, non gustava. La tranquillità di un mattino di pioggia vista dall’interno accogliente della propria casa, l’attesa del bus quando il cielo è limpido e il sole piacevolmente riscalda, l’acqua che bolle in una pentola. Una vita senza l’incombente sensazione di star perdendo del tempo, tempo prezioso, tempo che sfugge, tempo che potrebbe essere impiegato per eccellere.
Una volta in strada, attraversò. L’uomo sotto il lampione non c’era più. Il telefono squillò. Era il numero della sua segretaria: probabilmente voleva dirgli che lo stava aspettando nella hall dell’albergo, e di sbrigarsi, perché non potevano tardare; non in quell’occasione così speciale.
Ma Elia non rispose. Aspettò che il telefono cessasse di squillare. Con un gesto lento, incredibilmente ordinario, lo spense.