L’INTELLIGENZA EMOTIVA COME STRUMENTO PER L’INCLUSIONE

N. 1 -

Anno 2025

L’intelligenza si manifesta in diverse forme[1], ognuna delle quali riflette capacità specifiche che possono essere sviluppate e applicate in contesti diversi. Tra queste, l’intelligenza emotiva occupa un ruolo fondamentale nella vita personale e sociale. Goleman, che ha introdotto il concetto negli anni ’90, la definisce come “la capacità di riconoscere, comprendere e gestire le proprie emozioni, oltre che di riconoscere, comprendere e influenzare quelle degli altri”[2]. I suoi pilastri includono consapevolezza di sé, gestione delle emozioni, motivazione intrinseca, empatia e abilità sociali. L’intelligenza emotiva, dunque, non è solo una competenza individuale, ma una risorsa collettiva, essenziale per promuovere rispetto, coesione sociale e inclusione. Come sottolinea Goleman, “le emozioni umane non sono ostacoli alla razionalità, ma basi stabili che guidano decisioni intelligenti e relazioni efficaci.”[3]

L’inclusione richiede un cambiamento culturale profondo e uno sforzo congiunto, sia individuale sia collettivo, per superare le barriere economiche, sociali e psicologiche che la ostacolano. In questo contesto, l’intelligenza emotiva emerge come una capacità essenziale per promuovere un’inclusione autentica, capace di andare oltre il semplice rispetto formale delle norme o delle richieste istituzionali. Grazie alla consapevolezza e alla sensibilità che essa favorisce, è possibile affrontare con efficacia gli ostacoli che si frappongono a una reale coesione sociale.

L’inclusione poggia su due principi fondamentali: uguaglianza e fratellanza. L’uguaglianza implica il riconoscimento dei diritti universali e la tutela di chi non si riconosce nella neurotipicità o negli standard normativi prevalenti. La fratellanza, invece, rappresenta la capacità di superare il proprio interesse personale per sostenere chi è in difficoltà, anche rinunciando a posizioni di privilegio. Sebbene questi due pilastri si rafforzino a vicenda, non sempre lo fanno con la stessa intensità.  L’uguaglianza, grazie alla sua connessione con il principio morale di giustizia sociale, ha ottenuto risultati più concreti sul piano normativo, poiché ignorarla sarebbe stato inaccettabile, almeno in teoria.

La pratica dell’inclusione, però, affronta numerosi ostacoli, legati sia a barriere economiche e strutturali, sia a resistenze psicologiche che emergono nelle dinamiche individuali.

Le difficoltà economiche e sociali

L’inclusione comporta costi iniziali che spesso appaiono privi di un ritorno immediato. Ad esempio, rendere accessibili gli spazi pubblici o sviluppare percorsi educativi inclusivi richiede investimenti significativi, i cui benefici, legati a una maggiore coesione sociale, emergono solo nel lungo periodo. Questa dinamica è complicata dalla natura incerta della reciprocità: una società inclusiva funziona pienamente solo se tutti partecipano attivamente. Altrimenti, il rischio che le azioni solidali vengano percepite come “in perdita” diventa concreto. L’inclusione, invece, richiede una visione che superi il calcolo dell’interesse immediato.

L’intelligenza emotiva è una competenza cruciale per applicare concretamente i principi di uguaglianza e fratellanza. Permette di riconoscere e gestire sia le proprie emozioni sia quelle altrui, promuovendo relazioni autentiche fondate su rispetto e comprensione reciproca. L’empatia, in particolare, rappresenta il ponte tra l’uguaglianza, che promuove i diritti universali anche in un’ottica rivendicativa, e la fratellanza, che ci spinge a prenderci cura dell’altro in modo concreto e attivo, andando oltre il semplice rispetto formale.

La responsabilità collettiva è un principio chiave: l’inclusione non è solo un compito istituzionale, ma un processo che richiede l’impegno di ogni cittadino, educatore e lavoratore. Nella società contemporanea, però, questa dinamica è spesso ostacolata dalla visione utilitaristica già citata, incentrata sul calcolo dei ritorni materiali. Per superare questo approccio limitato, diventa fondamentale la motivazione intrinseca: agire spinti non dal guadagno immediato, ma dal valore etico e umano dell’inclusione. Questo cambiamento di prospettiva ci permette di vedere l’inclusione come un investimento a lungo termine, capace di migliorare il benessere collettivo, la resilienza e la creatività sociale.

Numerosi studi nell’ambito dell’economia della felicità evidenziano come i contesti inclusivi migliorino il benessere generale, stimolando produttività, creatività e coesione sociale. Per questo, è essenziale ridefinire il costo iniziale dell’inclusione non come una spesa, ma come un investimento a lungo termine.

La responsabilità collettiva nell’inclusione

L’inclusione non può essere delegata esclusivamente a istituzioni o norme: è un obiettivo che richiede il contributo attivo di tutti i membri della società. La responsabilità collettiva nasce dalla consapevolezza che l’inclusione non si realizza solo attraverso leggi o politiche, ma attraverso un cambiamento culturale profondo, capace di coinvolgere l’intero tessuto sociale. Ogni individuo è chiamato a fare la propria parte per costruire una società inclusiva, dove ciascuno possa trovare il proprio spazio, indipendentemente da caratteristiche, difficoltà o differenze. Un cambiamento culturale di questa portata richiede lo sviluppo diffuso di competenze emotive. L’intelligenza emotiva, con la sua capacità di promuovere empatia e abilità sociali, è essenziale per costruire quel senso di comunità che Bauman[4] descrive come indebolito nella “modernità liquida”, cioè nella società attuale, i cui legami sociali sono spesso deboli o temporanei. Solo relazioni basate sull’ascolto e sulla comprensione reciproca possono generare legami autentici, in grado di sostenere una visione condivisa dell’inclusione.

Il filosofo Emmanuel Levinas[5] evidenzia come la relazione con l’altro costituisca il fondamento dell’etica: non possiamo ignorare chi è diverso da noi, perché l’altro ci interpella e ci responsabilizza. Questo senso di responsabilità si estende oltre i rapporti personali, trasformandosi in una visione più ampia, in cui tutti siamo chiamati a contribuire al benessere collettivo, rinunciando a volte ai nostri privilegi per sostenere chi è più fragile. Questo principio si riflette nella necessità di un’etica della cura e della solidarietà che dovrebbe permeare ogni aspetto della vita comune.

La responsabilità collettiva si radica nel concetto di comunità. Tuttavia, la frammentazione sociale della quale parla Bauman ostacola l’assunzione di responsabilità condivise, spingendo ognuno a concentrarsi sui propri interessi immediati. Per costruire una società inclusiva, è necessario ricostruire un senso di appartenenza reciproca, basato sull’empatia e sul riconoscimento dell’altro come parte integrante del nostro stesso mondo. Un elemento chiave della responsabilità collettiva è la reciprocità. La solidarietà, infatti, non offre vantaggi immediati e, come già accennato, può apparire “in perdita”. Tuttavia, l’inclusione autentica si realizza solo quando tutti si impegnano a creare un ambiente accogliente per chi è diverso. Questo comporta un rischio: che il beneficio non ritorni subito a chi lo ha offerto. Perciò, la responsabilità collettiva diventa un atto di fiducia e lungimiranza, un vero investimento nel futuro della comunità.

Le istituzioni svolgono un ruolo cruciale nel creare le condizioni strutturali per l’inclusione, ma il loro operato deve essere sostenuto dall’impegno di ogni individuo. Per esempio, un sistema scolastico inclusivo può funzionare solo se insegnanti, studenti e famiglie condividono valori di accoglienza e rispetto. Allo stesso modo, politiche aziendali inclusive diventano efficaci solo quando i dipendenti le adottano con convinzione.

Un ulteriore ostacolo alla responsabilità collettiva è la paura del cambiamento. La diversità è spesso vista come una minaccia allo status quo, alimentando il timore di perdere privilegi o sicurezza. Per superare queste resistenze, è fondamentale un lavoro di educazione e sensibilizzazione che dimostri come una società inclusiva possa essere più ricca, resiliente e giusta per tutti. La vera sfida consiste nel trasformare la paura dell’altro in curiosità e apertura, favorendo spazi di incontro e dialogo. L’idea di responsabilità collettiva invita a superare la logica individualista che spesso caratterizza le società contemporanee. Martha Nussbaum[6], nella sua teoria delle capacità, sottolinea che lo sviluppo umano si basa sulla creazione di condizioni che consentano ad ogni individuo di esprimere il proprio potenziale. Questo traguardo richiede una collaborazione attiva tra individui, comunità e istituzioni. L’inclusione, quindi, non è soltanto un valore morale, ma una componente indispensabile per il progresso collettivo.

Le resistenze psicologiche

Le difficoltà economiche e sociali non sono l’unico ostacolo. L’inclusione si scontra con una dimensione più intima: quella delle difese inconsce. Due sono le principali resistenze psicologiche che emergono:

  1. Paura dell’identificazione: incontrare il “diverso” ci mette di fronte alla nostra fragilità. L’altro, con la sua difficoltà, diventa uno specchio che riflette parti di noi stessi inesplorate o rifiutate. Come scrive Brené Brown[7], “la vulnerabilità è il luogo dove nasce il coraggio, ma anche il timore” — cioè, il timore di riconoscere che la fragilità è una parte ineludibile della condizione umana: quella che lei chiama la vulnerabilità condivisa. Escludere l’altro diventa quindi un meccanismo di difesa per tenere a distanza questa consapevolezza dolorosa. Invece, solo la consapevolezza della propria vulnerabilità ci consente di aprire relazioni autentiche.
  2. Difficoltà di immedesimazione: al contrario, l’unicità e la diversità dell’altro possono essere percepite come incomprensibili o inaccessibili. Di fronte a ciò che è radicalmente diverso da noi, si attiva una chiusura che rende difficile ascoltare o entrare in relazione con l’esperienza altrui, che ci fa rifiutare l’ascolto delle emozioni, le ragioni, i sentimenti dell’altro quando sono troppo lontani da noi. In questo caso, rispetto all’individualità dell’altro, alla sua neurospecificità, quello che ostacola la relazione è proprio l’impossibilità o incapacità di immedesimazione.

Questi due meccanismi, apparentemente opposti, coesistono[8]. L’inconscio, come insegna Freud[9], non conosce il principio di non contraddizione: possiamo temere di “essere troppo simili” all’altro e, al contempo, di “non essere abbastanza simili”. Superare queste resistenze è essenziale per promuovere empatia e rispetto. Accettazione del diverso che vive nell’altro e accettazione del simile che lo fa assomigliare a me.

  • Empatia significa accettare di sentire le emozioni dell’altro senza paura di esserne risucchiati.
  • Rispetto implica riconoscere l’unicità dell’altro, accettandolo per quello che è, anche quando le sue esperienze sembrano distanti dalle nostre.

Le resistenze psicologiche, come la paura dell’identificazione o la difficoltà di immedesimazione, possono essere affrontate solo attraverso un lavoro interiore che coltivi consapevolezza di sé ed empatia. L’intelligenza emotiva ci aiuta a riconoscere le emozioni attivate dall’incontro con il diverso, accettando la vulnerabilità come parte integrante della condizione umana. Allo stesso tempo, l’empatia ci consente di ‘sentire con’ l’altro, trasformando la distanza iniziale in un’opportunità di dialogo e relazione.

Come suggerisce Levinas[10], l’incontro autentico con l’altro è un’esperienza trasformativa: è nell’ascolto delle sue emozioni, ragioni e bisogni che troviamo il senso profondo dell’etica. È attraverso l’ascolto empatico delle emozioni altrui che si realizza questa trasformazione. L’intelligenza emotiva, coniugando empatia e rispetto, ci permette di superare le difese inconsce e di aprirci a relazioni autentiche che valorizzano sia le similitudini che le differenze.

Inclusione e pratica clinica

Un caso particolare delle difficoltà di inclusione si manifesta nella pratica clinica, soprattutto quando ci si avvicina alla diversità attraverso il filtro della diagnosi. In questo ambito, è essenziale ricordare che ogni individuo è unico e irripetibile, e che ridurlo a una categoria diagnostica rischia di trasformarlo in un “caso” piuttosto che in una persona con una storia, emozioni, desideri, progetti e rapporti. La diagnosi, pertanto, non dovrebbe mai essere ciò che definisce la persona fin dall’inizio della relazione, ma piuttosto il risultato finale di un percorso di conoscenza autentico e disteso nel tempo. Non si tratta di dire “questo paziente è un depresso” o “questo paziente è autistico”, ma di entrare in relazione con lui, scoprendone progressivamente la complessità, fino a formulare una diagnosi che sia descrittiva e specifica della sua unicità. In questa prospettiva, la diagnosi non è più una gabbia che limita l’interpretazione delle particolarità, ma un modo per orientare meglio la comprensione e il sostegno, sempre lasciando spazio per ulteriori scoperte. Donald Winnicott, nei suoi lavori sulla relazione terapeutica, ci ricorda che ogni persona è un universo a sé, in costante trasformazione, e che nessuno schema teorico può contenerla pienamente. La diagnosi dovrebbe quindi assomigliare a una mappa aperta, che descrive un percorso senza mai chiuderlo definitivamente.

Questo approccio ha una duplice implicazione:

  1. Rispetto per l’unicità dell’individuo: Ogni paziente non è una “diagnosi”, ma un essere umano con una propria storia, con somiglianze e differenze rispetto ad altri. Se il clinico afferma “questa persona mi ricorda Giovanni o Maria”, non sta riducendo il paziente a un modello fisso, ma sta attingendo alle sue esperienze passate per costruire una comprensione empatica e relazionale.
  2. Processo dinamico: La diagnosi dovrebbe essere vista come un processo aperto, che si sviluppa insieme alla relazione e all’ascolto, piuttosto che come un’etichetta rigida attribuita fin dall’inizio. Questo rende possibile rispettare la specificità della persona, adattando il percorso terapeutico alle sue particolari esigenze e prospettive.

Anche in ambito clinico è necessario un cambiamento di paradigma: non più guardare le persone attraverso schemi precostituiti, ma ascoltarle nella loro complessità e unicità. La consapevolezza di sé aiuta il clinico a riconoscere i propri pregiudizi o automatismi interpretativi, mentre l’empatia lo guida verso un ascolto autentico delle emozioni e dei bisogni del paziente. Questo approccio non solo evita di ridurre l’individuo a una categoria diagnostica, ma favorisce una relazione terapeutica che rispetti la sua unicità e complessità.

Il suggerimento più importante è lasciare spazio alla sorpresa: le categorie sono utili alla conoscenza a patto che ci si ricordi che non esistono due individui identici (nemmeno i gemelli monovulari!) perché ognuno ha una sua storia, un suo modo di ricercare la felicità, un suo percorso per fronteggiare l’angoscia dell’esistere. Per questo la diagnosi clinica ideale non è un’etichetta da mettere all’inizio di un percorso di conoscenza, ma semmai un modo di descrivere la storia, il valore, il significato, il senso, le prospettive della persona, una volta che si sia conosciuta a fondo. E siccome nessuno conosce totalmente nessun altro, è necessario lasciare sempre, anche alla fine, la possibilità di scoprire altro e altro e altro ancora, perché le persone, se ci mettiamo in ascolto sincero e autentico, non smetteranno mai di stupirci. Anche quando pensiamo di conoscerlo bene, ogni individuo può tirare fuori, inaspettata, una fiammella nuova, capace di illuminare lati inattesi di sé, la quale può dare vita ad un fuoco inestinguibile.

In definitiva, l’inclusione non è solo un obiettivo sociale o clinico, ma una condizione necessaria per il progresso umano. Riconoscere la dignità e l’unicità di ogni individuo, accogliere le differenze e superare le barriere — siano esse strutturali, psicologiche o culturali — è un compito collettivo che richiede coraggio, responsabilità e una visione aperta al futuro. Solo così possiamo costruire una società in cui ognuno, a suo modo, trovi un posto dove sentirsi visto, accolto e valorizzato. Solo così è possibile costruire relazioni autentiche che tengano conto, al tempo stesso, delle similitudini che ci avvicinano e delle differenze che ci arricchiscono.

L’intelligenza emotiva offre gli strumenti per realizzare questa visione di inclusione come progresso umano. Coltivare empatia, rispetto e consapevolezza non è solo un esercizio individuale, ma un atto profondamente collettivo, che contribuisce a costruire una società capace di accogliere ogni individuo nella sua unicità, e che può illuminare anch’esso percorsi inattesi, alimentando un fuoco di cambiamento che ci rende più uniti, creativi e resilienti.

NOTE

[1] Ad es. linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, cinestesica, interpersonale e intrapersonale.

[2] Goleman, D. (1995). Emotional Intelligence: Why It Can Matter More Than IQ. New York: Bantam Books. Tr. it. (1996). Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici. Milano: BUR Rizzoli.

[3] Goleman, D., cit.

[4] Bauman, Z., Modernità liquida (Liquid Modernity), Laterza, 2002.

[5] Levinas, E., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (Totalité et Infini), Jaca Book, 2014 [Ed. originale: 1961].

[6] Nussbaum, M. C., Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL (Creating Capabilities), Il Mulino, 2012.

[7] Brown, B., I doni dell’imperfezione (The Gifts of Imperfection), Vallardi, 2013.

[8] Cfr. Gindro, S., e Melotti, U., Il mondo delle diversità. Ed. Psicoanalisi Contro, Roma, 1991.

[9] Freud, S., L’interpretazione dei sogni (Die Traumdeutung), Bollati Boringhieri, 1990 [Ed. originale: 1900].

[10] Levinas, E., cit.

BIBLIOGRAFIA

Bauman, Z., Modernità liquida (Liquid Modernity), Laterza, 2002.

Brown, B., I doni dell’imperfezione (The Gifts of Imperfection), Vallardi, 2013.

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Freud, S., Introduzione alla psicoanalisi (Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse), Bollati Boringhieri, 1978 [Ed. originale: 1917].

Gindro, S., e Melotti, U., Il mondo delle diversità. Uno psicoanalista e un sociologo si interrogano sul razzismo Ed. Psicoanalisi Contro, Roma, 1991.

Goleman, D. (1995). Emotional Intelligence: Why It Can Matter More Than IQ. New York: Bantam Books. Tr. it. (1996). Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici. Milano: BUR Rizzoli.

Levinas, E., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (Totalité et Infini), Jaca Book, 2014 [Ed. originale: 1961].

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Winnicott, D. W., Gioco e realtà (Playing and Reality), Cortina, 1974 [Ed. originale: 1971].

Winnicott, D. W., La famiglia e lo sviluppo dell’individuo (The Family and Individual Development), Armando Editore, 1972 [Ed. originale: 1965].

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