Se le preparazioni gastronomiche ricercate attraggono la macchina da presa verso le gole profonde dei golosi, non minore interesse suscitano le contrazioni rabbiose di stomaci vuoti. Si è trattato di scendere un po’ più in basso, dove il vuoto ha ingoiato nella propria vertigine abitudini inveterate, dove in buio dell’assenza ha evocato la presenza di fantasmi.
Guerre, apocalissi…oppure sfide ardimentose verso dimensioni inesplorate…o stanchezza per una sazietà che non sazia la fame di vita…
Sono situazioni (non rare in alcuni casi) in cui la carenza di cibo ha il potere di sovvertire priorità lungamente meditate, la fame riesce ad essiccare le radici di valori che affondano nelle millenarie stratificazioni della storia.
I pionieri
Per non gettare subito il lettore nella sofferenza di catastrofi naturali o belliche, partiamo dallo spirito prometeico che lancia l’uomo alla ricerca di nuovi spazi.
Ed eccoci nella fantascienza che la necessità di un nuovo ordine organizzativo fa spesso diventare fantapolitica. Certamente l’astronave non presenta spazi assimilabili alla cucina, il nutrimento degli eroi avviene per vie quasi invisibili sotto forma di pillole o direttamente in vena. La velocità del fast food potrebbe raggiungere tempi supersonici pari a quella dei mezzi che superano la barriera del suono.
Eppure, proprio tra i film di fantascienza ce n’è di quelli che, pur diffondendo ipotesi inquietanti (e spesso credibili) sul futuro alimentare del pianeta, inventano fantasiosi orizzonti su inedite possibilità di sopravvivenza.
Nel 2014 con Interstellar il londinese Christopher Nolan predisse un futuro disastroso per l’umanità rimasta senza grano, la carestia impone l’abbandono di qualunque ricerca scientifica che non sia correlata all’agricoltura. Alla fine di complesse vicende, la navicella spaziale Endurance, dopo avere attraversato varie dimensioni spazio-temporali passando su altri pianeti, sfida ogni limite ed entra in una nuova galassia. In essa trova finalmente sul pianeta Gargantua condizioni di accoglienza sufficienti per la fondazione di una nuova colonia umana. Gargantua, proprio lui, l’insaziabile compagno di Pantagruel dell’opera cinquecentesca di Rabelais, dove il fonosimbolismo garg nelle lingue neolatine si riferisce alla gola. Dove è possibile praticare un’agricoltura terrestre, lì sarà possibile fuggire dalla morte.
Resta nello stesso ambito The Martian di Ridley Scott, uscito nelle sale americane nel 2015. L’astronauta protagonista, in seguito ad una sequela di imprevisti galattici, è costretto a sopravvivere su Marte per quattro anni. Grazie alle sue antiche competenze di botanico, crea una coltivazione di patate che gli consente di sopravvivere: utilizza come concime le feci e produce acqua tramite la combustione delle riserve di Idrazina. I vecchi sistemi tornano utili anche nello spazio siderale.
Certo, il pane quotidiano è indispensabile, ma – sempre secondo il dettato evangelico – non si vive di solo pane. L’opulenza non sempre appaga gli spiriti più inquieti che rischiano i morsi della fame pur di rompere la prigione di stereotipi e convenzioni.
In questo senso è esemplare la vicenda narrata da John KraKauer in Into The Wild e poi sceneggiata da Sean Penn che ha diretto il film omonimo nel 2007.
Christopher Johnson ha ventiquattro anni, la sua laurea gli permetterebbe di continuare a vivere da borghese benestante secondo le aspettative della famiglia da cui proviene, ma nel suo sogno c’è l’Alaska. Rompe i rapporti con suo padre, uomo irascibile e autoritario dietro la maschera bonaria dello yankee, e inizia il suo viaggio. L’Alaska come Itaca è solo una meta che giustifica il rischio della conoscenza. Le difficoltà non lo scoraggiano, le affronta con il sorriso, e sorridendo pratica nuovi buchi nella cinta dei pantaloni per adattarla alla magrezza crescente man mano che il viaggio avanza. Gli occhi diventano grandi, il corpo si assottiglia. La natura gli insegna ciò su cui i libri di scienze sociali hanno taciuto. Impara a grigliare, a scuoiare, a sventrare animali di grossa taglia, prende contatto con il loro sangue, difende le carni dall’aggressione di insetti, parassiti, vermi. I rapporti umani che crea sono dettati dalle necessità primarie, ma anche dal bisogno di fare nuove esperienze interiori. Si avvelena per errore cibandosi di bacche velenose. Apprende così che la natura ne sa sempre una in più degli uomini, forse un buon consiglio gli sarebbe stato utile e scrive prima di spirare: “La felicità è autentica solo se condivisa”
Sempre ad esaltare lo spirito di avventura, nel 2010 Danny Boyle dirige 127 Hours, anche questo ispirato a una storia vera, quella di Aron Ralston. Questi è il vero protagonista della tremenda avventura vissuta nel 2003, quando, appassionato di trekking, aveva deciso di cimentarsi da solo nella scalata del Blue John Canyon nello Utah. Ma un masso precipitando lo incastra tra le rocce bloccandogli il braccio destro. Sospeso nel vuoto per 127 ore con appoggio dei piedi minimo e precario, centellina la borraccia, conserva la propria urina, spera nella pioggia mentre si sta disidratando, ma non rinuncia a immortalare la propria agonia con la videocamera digitale che riesce ad attivare con il braccio libero. E, sostenuto da un bisogno di visibilità superiore addirittura alla fame, incide sulla roccia i segni della propria presenza. L’istinto di sopravvivenza lo induce al gesto disperato: con il sinistro libero e un coltellino si amputa il braccio incastrato, da solo libera se stesso facendo del proprio sangue il nutrimento per continuare a vivere. Il caso aiuta l’audace figlio dell’America: due escursionisti lo recuperano e lo portano in salvo. Rientrato nella comunità, Ralston non perde l’energia e scrive Between a Rock and a Hard Place, (tra l’incudine e il martello) il suo libro di memorie da cui Boyle trae la sceneggiatura. Il mito del pioniere si perpetua.
La sopravvivenza ad ogni costo è analizzata fino alle più tragiche conseguenze nel film di Frank Marshall Alive. Diretto nel 1993, è in parte un remake de I sopravvissuti delle Ande del 1976 di René Cardona. La vicenda reale di riferimento per entrambi è lo schianto di un aereo avvenuta il 13 ottobre 1972 sulla Cordigliera delle Ande, al suo interno viaggiava una squadra uruguaiana di rugby.
Sono giovani, forti, sfrontati, nelle vene scorre la frenesia dell’invincibilità. Cosa accade quando la fame e il freddo mortifica i bei corpi pronti all’assalto? Cosa resta della vanità, delle convenzioni? Cosa fare dei corpi dei morti?
Ma a volte si è più utili da morti che da vivi: il cannibalismo, prima rifiutato con orrore, finisce con l’essere praticato come unica via di uscita. Quasi a dire che per la sopravvivenza della comunità è necessario il sacrificio di una parte di essa. Inquietante.
Le catastrofi
Ma evidentemente la realtà non è sufficiente nell’imporre situazioni limite che mettono a dura prova la sopravvivenza umana su questo pianeta. Ecco infatti la lunga serie di film catastrofici che a tinte fosche dipingono la desolata immagine della terra all’impatto con cataclismi di misteriosa origine. La situazione estrema diventa caleidoscopio che deforma le condotte tradizionali scatenando reazioni istintive segrete e vergognose. La ricerca del cibo in quanto finalità primaria, diventa anche un interessante elemento catalizzatore per nuove trovate narrative volte ad arricchire tanto il plot della vicenda che la complessità dei personaggi.
Tra i tanti film ne citiamo uno solo che certamente emerge per l’ampio ventaglio delle relazioni umane presentate; non a caso si tratta dell’adattamento cinematografico di The Road, omonimo romanzo vincitore del Premio Pulitzer 2007 di Cormac McCarthy.
Un vecchio carrello da supermercato, reperto di un mondo che fu, è il veicolo con cui un bambino e suo padre – un grande Viggo Mortensen – trasportano tutto ciò che resta delle proprie sostanze. La terra è un deserto freddo e grigio, lo sguardo dei sopravvissuti trabocca di fame e di sospetto. Il cannibalismo è diventato strumento per sottrarsi alla morte. Nelle prime sequenze sembra un film in bianco e nero, ma quando i due protagonisti scoprono una cantina piena di vecchie provviste inscatolate, il colore si riaccende per meglio focalizzare barattoli di conserve e carni, le candele illuminano una parvenza di tavola apparecchiata e il sorriso torna a fiorire nei volti del padre e del figlio. Ma gli basta disporre di una piccola scorta da portare via che l’egoismo prevarica sui buoni sentimenti del padre protettivo. Nel figlio sopravvive la pietà e convince il padre a mitigare il cinismo che gli ha sfondato l’anima.
Nel film compaiono diversi personaggi, la personalità di ognuno è piegata dagli stenti e dalle privazioni, ma ognuno ha un modo diverso di reagire.
La guerra
I film denominati catastrofici spesso sfumano l’origine della catastrofe nel c’era una volta di un evento misterioso o fiabesco, quando non addirittura metafisico. Ma la catastrofe della guerra, ben inquadrata nei prodromi e nelle conseguenze sui libri di storia, genera esiti non meno esiziali innanzitutto nella realtà e di conseguenza nelle rappresentazioni filmiche con tutto il suo bagaglio di feroce privazione, prima tra tutte quella di cibo e di acqua. È un filone di cui è facile fare esperienza anche in chi si limita al piccolo schermo, ché buona parte della programmazione televisiva dedica ai film di guerra uno spazio di tutto rispetto.
Poiché già molto si è detto, ci limiteremo a richiamare alla memoria di molti una scena pateticamente tenera di un vecchio film con cui Lina Wertmüller fu la prima donna italiana ad essere candidata all’Oscar come migliore regista: Pasqualino Settebellezze.
Era il 1975 e sono trascorsi quasi cinquant’anni.
Pasqualino – un giovane e sfrontato Giancarlo Giannini – è un guappo napoletano, panama bianco e sigaretta, passeggia lento tra i bassifondi di Napoli pretendendo approvazione e rispetto. Ma l’incalzare degli eventi pubblici e privati lo spingono nelle fauci della guerra fino a rinchiuderlo in un lager tedesco. Il suo reparto è diretto da una grassa e feroce kapò. Pasqualino sta morendo di fame: deve mangiare, qualunque cosa, a qualunque costo. Ed eccolo che tenta l’ennesima, patetica seduzione pur di impietosire la sua carceriera glaciale e sadica.
Ma cu sti mode, oje Bríggeta,
tazza ‘e café parite:
sotto tenite ‘o zzuccaro,
e ‘ncoppa, amara site…
Ma i’ tanto ch’aggi”a vutá,
e tanto ch’aggi”a girá…
ca ‘o ddoce ‘e sott”a tazza,
fin’a ‘mmocca mm’ha da arrivá!
Non c’è zucchero nel fondo della feroce carceriera. Pasqualino le offre solo l’occasione per vivere il suo brutale istinto di sesso. Niente zucchero per Pasqualino, ma solo una porzione più sostanziosa, tanto quanto basta per dargli l’energia necessaria all’accoppiamento. Sesso e cibo, binomio inscindibile anche e soprattutto davanti alla catastrofe bellica.