“Al cinema con il Convitato di pietra”
Il Cine-food e la politica del cibo

A Torino a fine settembre si è inaugurata la quindicesima edizione del Salone del Gusto. In occasione della cerimonia inaugurale, Lella Costa, per l’Associazione Terra Madre, ha letto la lettera inviata nientedimeno che dal Pontefice. Una pagina breve ma incisiva quanto basta per caricare di ecumenica energia parole d’ordine ormai abusate: cooperazione, dialogo, condivisione, responsabilità, educazione alimentare.

Sottolinea Papa Francesco:

“Spesso l’agricoltura viene strumentalizzata dalla logica del profitto, diventando quindi un mezzo per inquinare la terra, sfruttare i lavoratori e impoverire la biodiversità”.

L’agricoltura, insieme al nutrimento che da essa deriva, oltre ad essere strumento primario per la sopravvivenza sul pianeta – anzi – proprio in forza di ciò, diventa facilmente arma di manipolazione, mezzo per gestire i rapporti di forza sia all’interno di comunità ristrette che su scala planetaria.

La macchina da presa, creatura onnivora quanto l’essere umano che l’ha inventata, si compiace per la bellezza, indugia nell’intrattenimento. Ma, quando chi la impugna percepisce pericolose urgenze, eccola che mette a fuoco le contraddizioni, indaga nei precipizi.

Il tema, che anche il Papa oggi si sente obbligato ad affrontare, è stato più volte registrato e artisticamente trasfigurato su celluloide. La gestione delle fonti primarie di sopravvivenza, gli interessi economici connessi, la strumentalizzazione del gusto sono temi che direttamente o indirettamente hanno informato molte pellicole. Ne citeremo qualcuna.

 

I documentari 

Certamente il documentario resta la forma cinematografica più adatta alla rappresentazione cronachistica dei fatti, utile anche quando dietro una presunta oggettività si cela la volontà di orientare le opinioni. Indimenticabile La battaglia del grano di Romolo Marcellini voluto nel 1940 da Mussolini, documentario di propaganda volto ad esaltare l’autosufficienza economica dell’Italia. Il Duce a torso nudo brandisce la falce dell’ottimismo in un’Italia che sta per entrare in guerra.

In tempi più recenti è capitato a tutti di imbattersi in documentati impegnati a denunciare l’efferatezza dell’industria alimentare. Tra i tanti titoli ricordiamo Chew On This del 2006 di Schlosser e Wilson in cui i due cineasti esplorano l’industria del fast food in relazione al ruolo politico delle grandi corporation.

Due anni dopo sullo stesso tema Robert Kenner con il suo Food, inc. ebbe tale successo da produrre un sequel nel 2023. Quest’ultimo, dopo avere denunciato l’impatto devastante delle condotte alimentari di massa, si conclude con un’ottimistica esortazione tutta statunitense sulla possibilità di un’inversione di rotta: “…non solo possiamo farlo, ma dobbiamo”.

Ma tra i documentari quello che merita un’attenzione speciale è certamente Our Daily Bread (2005) del regista austriaco Nikolaus Geyrhalter. Le scene girate non hanno altro riferimento geografico se non l’Europa, dentro i confini della quale il regista non vuole individuare differenze tra i vari paesi. Inoltre è inutile qualunque sforzo di traduzione, perché nel corso dei 92 minuti di durata non viene pronunciata una parola di spiegazione. Si tratta di un atto di accusa radicale nei confronti dell’agricoltura meccanizzata, dell’allevamento e della macellazione in serie degli animali. Dietro il nostro pane quotidiano si perpetua e si perfeziona un meccanismo apocalittico di cui le prime vittime, subito dopo gli animali, sono i lavoratori equiparati alle stesse macchine di cui non sono altro che una propaggine passiva.

(Fa tenerezza ricordare Charlie Chaplin stritolato negli ingranaggi delle macchine in Tempi Moderni già dal 1936).

Sono storie che conosciamo e che ci raccontiamo, ma assistere ad una rappresentazione cruda, asciutta e liberata da ipocriti e moralistici orpelli verbali ci fa sentire protagonisti di uno scandalo. Infatti dobbiamo riconoscere che siamo proprio noi consumatori l’ultima vittima del sistema dell’industria alimentare, noi, contemporaneamente vittime e carnefici.
Ma una colpevolezza di cui vogliamo ignorare la causa quale forma può prendere all’interno della nostra coscienza? E nella coscienza collettiva?

Dice lo stesso Geyrhalter:

“Non volevo dare al pubblico una possibilità di fuga, perché tutti hanno la responsabilità di quello che acquistano”.

Ma l’efficienza economica è un Moloch che esige vittime silenziose.

El Bulli: Cooking in Progress (2011) di Gereon Wetzel.
Si tratta di una serie in undici puntate facilmente reperibile su Amazon Prime. Ferran Adrià, il grande protagonista degli undici capitoli, è realmente un gastronomo spagnolo che gestisce un ristorante a Barcellona. Per sei mesi l’anno il suo ristorante chiude al pubblico; durante i sei mesi rimanenti artisti, intellettuali, filosofi sviluppano tra le mura del suo locale un percorso artistico compiuto all’interno delle proprie competenze; quindi, insieme a lui realizzano delle architetture gastronomiche che materializzano in un prodotto culinario l’astrattezza dell’idea. La commestibilità dell’opera ne alimenta la fruizione e contribuisce alla condivisione di un pensiero complesso. La figura del cuoco assurge così a quella di leader culturale.
Trattandosi di un documentario le puntate sono godibili anche in ordine sparso.

 

L’invenzione cinematografica

Ma il film, anche quello di denuncia sociale, passa comunque attraverso l’invenzione.
Per restare nell’ambito dei rapporti di forza generati dai meccanismi dell’industria alimentare nel mondo capitalistico, un film che appaga con la narrazione accattivante ma contemporaneamente mette a nudo le dinamiche perverse del successo economico è certamente il biopic girato da John Lee Hancock del 2016: The Founder.
Protagonista dell’intreccio è Ray Kroc, l’uomo che è riuscito a diffondere prima in America e poi in tutto il mondo il marchio McDonald’s. È lui che, ignorante e volitivo, si è abbeverato a quella fonte che ha dissetato l’America degli anni Cinquanta: gli affari sono guerra… il limite è il cielo… l’ambizione è l’essenza della vita. È lui, l’approfittatore senza scrupoli che estromette dal ricco bottino Richard e Maurice McDonald, i veri padri dell’invenzione, dichiarando: un contratto è come un cuore, può essere infranto. Li defrauda anche del nome di cui si appropria per meglio brillare sotto i due archi d’oro che ancora svettano nel cielo rosso del grande impero dei cheeseburger. Non sono archi gotici, ma Ray Kroc, pur nella sua rozzezza, dice una frase spaventosamente profetica: questa deve diventare la nuova religione degli Americani. Il valore che è in grado di concepire nel perseguire il suo obiettivo è uno solo: la perseveranza a qualunque costo.
E con questo si celebra la definitiva separazione tra economia e valori etici.
Ray Kroc, arrampicatore truffaldino, resta comunque un vincente. E se Lee Hancock, almeno per credibilità artistica, lascia il personaggio nella palude dell’ambiguità, la realtà degli eventi extracinematografici lo assolve. Rispetto ad un successo economico mondiale in crescita anche dopo settant’anni, il disprezzo del merito, la manipolazione dell’amicizia, il tradimento della fiducia diventano peccati veniali, se non addirittura titolo di merito.
Nel corso di tutto il film un solo marchio sopravvive accanto a McDonald’s: quello della CocaCola.

The Founder non è un capolavoro, ma restituisce l’immagine perfetta di quell’America un po’ furba, un po’ ottimista, un po’ cialtrona e sempre ottusamente sorridente che negli anni Cinquanta ha gettato le fondamenta di un impero certamente economico, ma soprattutto politico e valoriale.

Se la pervasività del fast food ottiene visibilità incontrastata tanto nella realtà che nella finzione, bisogna dire che la raffinatezza di preparazioni sofisticate ha sempre sollecitato gli appetiti della macchina da presa, e non solo per ottenere pellicole estetizzanti come Il pranzo di Babette (1987) o La cuoca del Presidente (2012) ma anche per cogliere nella preparazione e nell’utilizzo del cibo l’emergere di culture diverse e il confronto tra di esse. L’arricchimento del gusto viene spesso presentato come approdo salvifico, purché abbia superato il tirocinio volto al superamento di pregiudizi e contrasti. È tema edificante quello che da una parte mette a lucido l’argenteria di famiglia che si tramanda nelle trame di tradizioni inveterate, dall’altra strizza l’occhio al nuovo che incalza. Il conflitto ha in sé i germi di una pace duratura, o quasi.

Quando la cuoca del presidente francese (nell’omonimo film di Christian Vincent 2012) vuole cucinare per l’illustre commensale secondo le regole della cucina nazionale più genuina e tradizionale, si trova a dovere fare i conti con il protocollo rigido e astratto che governa tutte le relazioni all’interno dell’Eliseo, deve interfacciarsi con burocrati meschini e taccagni. Però Hortence – personaggio che sullo schermo rappresenta Danièle Delpeuch, vera cuoca di Mitterrand – non tradisce il suo talento e preferisce metterlo a disposizione di operai neozelandesi dal gusto certamente meno educato di quello degli alti quadri del governo nazionale. Ma l’assenza di preconcetti e rivalità permette loro di accogliere e apprezzare le invenzioni di una donna libera e intraprendente.

Nel filone della cucina come veicolo, scambio e arricchimento di tradizioni, i lungometraggi sono molti e certamente assai gradevoli, come sempre lo è la presentazione di porzioni ben confezionate.
Ecco qualche citazione del tutto arbitraria di film quasi coevi, ma dislocati in zone e culture diversissime tra loro.

Con Julie e Julia 2009 la statunitense Nora Ephron realizza una commedia tutta al femminile su due donne in carriera che, senza conoscersi e in tempi diversi, si dedicano alle medesima preparazioni gastronomiche imponendosi così all’attenzione di chi le osserva con sufficienza.

La Graine et le Mulet 2007, film noto in Italia con il titolo Cous cous del tunisino Abdellatif Kechiche, è la tragicommedia di un manovale magrebino sessantenne che, rimasto disoccupato in Francia, tenta il reinserimento sociale creando un ristorante che propone una ricetta tradizionale del proprio paese.

Sempre nel 2007 il sudcoreano Jeon Yun-Su scrive e dirige Le Grand Chef. L’intreccio ruota attorno al coltello posseduto dall’ultimo cuoco che fu a servizio della dinastia coreana Joseon. L’orgoglio nazionalistico dell’uomo non gli permette di servire i sovrani imperiali giapponesi e con quello stesso coltello si amputa una mano. Suo figlio, per riscattare l’onta, vuole restituire il coltello alla Corea, ma per rientrare in possesso di quel feticcio deve superare una gara gastronomica.

L’elenco potrebbe essere lungo. Tuttavia, il rapporto che il cinema ha istaurato con il bisogno primario di nutrirsi non genera solo la messa in scena di belle tavole imbandite, ma – nell’intuirne la valenza fortemente simbolica – si fa carico anche di scoprirne i meccanismi più perversi.
Ed è lì che la settima arte offre i risultati più interessanti.

Sulla piattaforma di Netflix proprio in questi giorni è uscita la seconda parte di un film del 2019: Il Buco, titolo originale El Hoyo, diretto dallo spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia.

Si tratta di un distopico a tinte orrifiche tutto girato in una prigione strutturata in 333 livelli. Una piattaforma scende e sale per rifornire di cibo i detenuti. Ma se le portate ai piani alti sono ancora ricchissime e succulente, nella discesa giungono progressivamente depauperate dalla smania fagocitante di chi occupa i piani superiori. Non mancano tentativi di stabilire norme distributive più eque, ma le ragioni del ventre sono più potenti e soprattutto la prospettiva di trovare solo avanzi accende le peggiori perversioni. I poveri e gli affamati sono cattivi, si sa, sono cattivi loro malgrado, ma così è. Ed ecco che le logiche di sopraffazione, quelle che disperatamente tentiamo di tenere a freno con leggi e alti valori, si perpetuano – anzi – si rafforzano anche nella visione fantapolitica del regista spagnolo, comprese derive mistiche e attese messianiche.

Il recentissimo sequel presenta lo stesso paesaggio e carattere analogo, ma – se possibile – si accende di tinte ancora più fosche. Evidentemente lo spettacolo dell’aberrazione umana appaga un gran numero di spettatori.
È una tigre da cavalcare fino a che gli utili lo consentono.

Per passare ad altri esempi apocalittici, ma certamente di grandissimo spessore, ci sono due pellicole che hanno fatto la storia, se non del cinema, certamente del cine food: La Grande Bouffe di Marco Ferreri 1973 e The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover di Peter Greenaway 1989.

Cominciamo a vedere cosa accomuna La grande abbuffata e Il Cuoco, l ladro, sua moglie e il suo amante, secondo il titolo con cui hanno girato nelle sale italiane.
Entrambi urticanti, dissacranti fino alla blasfemia, osceni, allegramente macabri, sfrenati ed estetizzanti, materici e metaforici, popolati da intellettuali volgari, brutali e raffinati, artificiosi ed emotivi. Una logica serrata incatena le sequenze in una superfetazione di immagini che stordisce e avvince, ripugna e tragicamente perfora la superficie degli eventi. La studiata perfezione delle inquadrature, il cesello dei dettagli deforma l’intreccio di una società che sopravvive alla morte di se stessa. Il sesso scorre in parallelo col cibo, entrambi sterminati, entrambi privati di qualunque carica erotica, entrambi ingozzano personaggi prigionieri del loro ruolo e di una grevità che non fa più distinzione tra profumi e flatulenze. Come dire ad una società di borghesi arricchiti, intellettuali senza intelletto, amanti senza amore, come dire loro: questo è l’ultimo boccone, ingozzati e muori.
Nell’apocalisse non c’è più spazio per sociologismi, giudizi o programmi di redenzione, meno che mai per la speranza. La tragedia e la commedia si fondono nel ghigno grottesco del sarcasmo.

Ma cosa distingue questi due film che hanno in comune tratti così decisivi?
Ferreri nel 1973 viveva ancora le ultime propaggini del trionfo dell’avanguardia. I quattro protagonisti de La Grande Bouffe sono professionisti affermati, hanno dedicato la vita a coltivare le proprie passioni con intelligente puntualità, e nel segreto di un ambiente privatissimo e sofisticato programmano la propria fine all’insegna del piacere. Decidono di essere fino in fondo artefici del proprio destino, un destino di morte, certo, ma verso il quale si avviano consapevoli e gelosi della propria individualità. A ricordare l’umanità perduta, restano piccoli spazi di nostalgia e di tristezza.

Sedici anni dopo Greenaway stabilisce già nel titolo quali siano le quattro componenti attive su quel grande palcoscenico che è il ristorante Le Holladais dove si svolge quasi tutta la vicenda in uno stile rigorosamente teatrale. Sullo sfondo della sala da pranzo incombe un quadro di Franz Hals, il Banchetto degli ufficiali della milizia di San Giorgio, un’immagine che nel suo genere rappresenta una rivoluzione nella pittura del Seicento olandese. Quasi a continuare l’antico banchetto, poco più in basso sullo schermo si allunga la tavolata dove il Ladro riunisce i suoi adepti con l’intransigenza e l’egoismo di un satrapo persiano. È uomo collerico, crudele, ripugnante; nessun momento di umanità scalfisce l’ottusità della sua mente monolitica, dalla sua bocca sgorga un fiume inarrestabile di volgarità che blocca qualunque possibilità di avvicinamento. Sua Moglie vive chiusa nel proprio bozzolo dorato, lo subisce e segretamente si concede un’evasione destinata al fallimento. La complicità del Cuoco è inefficace, l’Amante intellettuale morirà soffocato dalle pagine di uno dei libri che più ama, vendetta perpetrata dal Ladro tradito. Sarebbe troppo banale attribuire ad ogni personaggio (e altri ve ne sono su cui varrebbe la pena fermarsi) una componente della società, o meglio ancora, di quella che nei trenta anni successivi al film è diventata la società, almeno quella europea. Significherebbe ridurre quella visione immaginifica e profetica del mondo ad una moralistica opera a tesi. Non renderemmo merito ad un grande regista che ha messo in campo le migliori energie che l’esperienza cinematografica e artistica ha maturato in settant’anni di cinema.

Ci basti prendere atto della potenza metaforica del cibo, di come esso sia oggetto di desiderio e di rifiuto, strumento di manipolazione e di ricatto, mezzo per distruggere o per fare grande arte.

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