Quand’ è bell’ a ji ‘n cambagne

Merende agricole, rottura del digiuno
e erbe spontanee

“Quanto è bello andare in campagna,

quando è tempo di vendemmia,

con un odore di gramigna,

e l’asino che trotterella”

– ve la traduco, che i dialetti sono ostici – è l’inizio di una canzone folk abruzzese, si chiama Zì Nicola e la trovate su Internet se siete curiosi.

Dopo l’estate in cui nelle campagne, e in particolare da noi a Ofena, che viene detta forno d’Abruzzo, fa un caldo tremendo (mio padre mi raccontava che quando era bambino si partiva per andare a trebbiare alle 2 di notte, per poi trascorrere le ore più calde a riposare nelle pagliare, casette rurali in pietra che servivano da ripostiglio per gli attrezzi agricoli e che erano vicino ai campi) inizia la stagione più soft, chiamiamola così.

Iniziano infatti prima la vendemmia e poi la raccolta delle olive, attività che comunque prevedono un rientro a casa la sera, fosse solo per portare l’uva a pigiare e le olive al frantoio. Quindi visto che il pasto caldo della giornata si fa la sera, nel resto della giornata lavorativa si pranza al sacco.

E cosa si mangia al sacco, e soprattutto, quando?
La prima cosa da sapere è che chi lavora in campagna fa colazione tardi. La mattina tocca partire presto per approfittare delle ore più fresche e non si può perdere tempo perché occorre iniziare a lavorare. Per cui tra le 10:30 e le 11 c’è il famoso sdijune abruzzese, che come per l’equivalente inglese breakfast, lo dice il nome, serve a rompere il digiuno della notte. Come ci spiegano i dietologi con il digiuno intermittente, è buona pratica riservarsi un intervallo di 16-18 ore di digiuno e concentrare i pasti della giornata entro le 6-8 ore rimanenti. E questo è quello che hanno sempre fatto gli agricoltori i cui orari di lavoro e di riposo sono dettati dal ritmo delle stagioni.

Lo sdijune quindi è un pasto robusto e proteico. E le proteine dei poveri sono uova e formaggio. Ma ci vogliono anche i carboidrati: spesso si cucinavano tagliatelle o altra pasta, per nutrire i lavoratori agricoli. E il vino. Non ci dimentichiamo che non troppo tempo fa nelle categorie merceologiche il vino figurava tra gli alimenti, e che la paga dei braccianti prevedeva anche cibo e una dose di vino, che in mancanza di integratori di minerali era un po’ il gatorade ante-litteram.

Tutto questo ce lo dicono i canti tradizionali, come questo, sulla mietitura raccolto da Michele Avolio, i cui i braccianti ricordano al padrone che se non gli dà da mangiare bene, loro non possono lavorare:

“Signore se vu metere ‘ste ‘rane

ce vuonne pizze bianche e maccarune;

se queste oggi non ce le vuoi dare

pijie la faucije e mieti tu.“

Sulla pizza bianca ci torno fra poco, questa la traduzione in lingua:

“Signore se vuoi mietere il grano – ci vogliono pizze bianche e maccheroni –
 se queste oggi non ce le vuoi dare – prendi la falce e mieti tu”

Un altro ingrediente dello sdijune  sono le erbe selvatiche che si raccolgono nelle pause del lavoro o sulla via del ritorno. Vediamo nelle ricette come vengono incorporate.

Pane, olio e savetrejje

Ogni zona ha le sue erbe odorose spontanee e nella parte aquilana del Gran Sasso questa è la santoreggia, o timo selvatico, o appunto savetrejje e anche in questo caso il nome, come per la salvia, rimanda alle virtù salvifiche della pianta. Il semplice pane e olio viene quindi insaporito con il sale e con le foglioline fresche delle erbe a disposizione. Il pane e olio va anche sotto il nome di panonde, pane unto. Un altro modo per farlo è friggere il pane già un po’ raffermo in padella con un po’ di olio, per chi vuole all’olio si aggiungono aglio e peperoncino.

Pane col pomodoro strusciato

Nei paesi di montagna si panificava una o due volte alla settimana e il risultato sono dei pagnottoni rustici e scuri che dopo qualche giorno andavano ammorbiditi in qualche modo, o incorporati in minestre, in ripieni o usati per le bruschette. Per le merende rapide il sistema migliore era quello di tagliare un pomodoro a metà, strofinarlo sulla fetta di pane un po’ secca, che poi veniva condita con olio buono, sale, ed eventualmente anche la savetrejje.

Il concetto di pizza in Abruzzo

In Abruzzo si tende a chiamare pizza qualsiasi cosa lievitata, dolce o salata che sia. Per cui abbiamo la pizza bianca, che altrove chiamano focaccia, la pizza fritta (o pizzonda) che sono le frittelle di pasta di pane, la pizza rustica che è una torta salata di verdure, formaggio e uova, la pizza ricresciuta che è farcita di formaggio e si mangia a Pasqua a colazione, da non confondere con la pizza di Pasqua, che è un impasto dolce, a volte arricchito da mandorle, uvette o canditi, e che come i panettoni viene sottoposto a una seconda lievitazione nella forma, la pizza dolce che è la classica torta a base di pan di Spagna, bagnata con l’Alchermes e farcita di crema di uova, sia gialla che al cioccolato. In un’altra strofa di  Signore se vu metere si parla anche di “nu gruosse pezzellate” tradotto come pizza dolce. E dai cugini romani abbiamo preso anche il concetto non gastonomico di “pizza” nel senso di schiaffone, ma questa è un’aggiunta moderna.

Chi mangia in campagna può anche portarsi dietro della pizza bianca all’olio, con o senza rosmarino, per accompagnare formaggio e salamini, una fetta di pizza rustica avanzata, una pizza fritta fredda, che non è buona come quella calda, ma non badiamo alle sottigliezze e mollezze che qui si deve faticare. Perchè in Abruzzo la fatije è il lavoro e lavorare si dice “faticare”. Perchè siamo nati per faticare, a volte per soffrire, meno male che nei ritagli di tempo mangiamo cose buone.

Pane e frittata

Ma la vera regina delle merende di campagna è pane e frittata, e la frittata la possiamo fare con tutto quello che abbiamo raccolto il giorno prima: asparagi selvatici, che non si colgono solo in primavera, ma anche a settembre, e, mi dicono, a febbraio. Con le ortiche, le cicorie, i matroni, se ci teniamo sempre sul lato delle erbe spontanee. Per molti il vero pane e frittata per andare in campagna è la frittata con i peperoni: si soffrigge l’aglio co tutta la camicia nell’olio, si aggiungono i peperoni a striscioline e quando sono morbidi, ci si rompono dentro le uova che legano insieme i peperoni. Nei periodi buoni si può aggiungere alla frittata anche una salsiccia secca sbriciolata o del formaggio. E se alla sera sono avanzati degli spaghetti, si fanno a pezzetti e si buttano nella frittata del giorno dopo anche quelli.

Uova in purgatorio

In genere le uova in purgatorio sono un classico piatto da cena, ma se avanzano nulla ci impedisce di bagnare il pane nel sugo e portarcelo come merenda. Assomigliano ad altri piatti nell’area mediterranea, come il shakshuka, ma a differenza di questo in cui si usano molte spezie, in Abruzzo per aromatizzare i piatti si preferiscono le erbe aromatiche, l’aglio e il peperoncino. Basta preparare un sugo semplice soffriggendo in aglio e olio, se gradito aggiungere del peperoncino secco o olio aromatizzato al peperoncino, pomodori maturi a pezzettini o la conserva di pomodoro. Insaporire di sale a piacere e quando il sugo si è un po’ ristretto, romperci dentro delle uova e farle cuocere come quelle in camicia, immergendole nel sugo invece che nell’acqua.

Insomma, anche se a tutti noi quella che era la fatica bestiale dei braccianti di una volta è stata risparmiata, per i momenti in cui ci serve un pieno di energia possiamo sempre ricordarci della sana dieta di campagna, Un bello sdijune in tarda mattinata, una cena leggera la sera, a base di minestre e insalata o verdure di campo strascinate in padella con aglio, olio e peperoncino, teniamo duro per qualche mese e la prova bikini ce la possiamo dimenticare grazie al digiuno intermittente del bracciante e dei nostri nonni nonagenari.

Tratto in anteprima da “Le zie d’Abruzzo: storie e ricette di famiglia qua e là del Gran Sasso” (di prossima pubblicazione)

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