Qualcuno ha detto che vi sono solo due razze al mondo: chi sfrutta e chi è sfruttato. Si potrebbe dire, chi mangia e chi è mangiato. Cibo è misura tangibile dell’azione trasformatrice dell’umano sul mondo e del mondo sull’umano. È, dunque, la qualità della relazione specifica che intercorre tra l’umano e il reale, che in base alla direzione assunta, di volta in volta, stabilisce vincitori e vinti. Divide chi, in un luogo e in una storia, afferma la propria presenza da chi ne attraversa la perdita. Come la fame è voce biologica della demartiniana crisi della presenza, così il nutrimento è caduca conquista di agency, possibilità di azione trasformatrice sul mondo.
Ma il cibo stabilisce tanto la relazione tra l’umano e il mondo quanto quella tra le diverse dimensioni dell’umano stesso. Come il dolore, la fame svela lo scandalo che corpo e mente non sono due entità distinte: se fossero davvero distinte, sottolinea Antonio Damasio citando un Cartesio meno noto, quando si ha dolore – fame – si elaborerebbe lo stimolo solo su un piano cognitivo, al pari del nocchiero che si accorge di una falla nel carro che conduce. Ma ognuno che abbia esperito il dolore o la fame – la sete, il sonno – ne ricorda la qualità tanto corporea quanto mentale, affettiva, volitiva.
Nella storia, il cibo sovente ha assunto il ruolo di “metro” della potenza della mente nell’assoggettamento del corpo a una regola. Si pensi ai molti tabù alimentari, individuali o collettivi, più o meno ideologici e politici, al largo delle società e dei tempi. Dalla difficoltà di rispettare il tabù prescelto, in certi contesti, discende il grado di civiltà riconosciuto a una persona dal proprio gruppo di appartenenza. Per sancire tale predominio della ragione sul ventre, molto importante diviene così la propria capacità, esibita in società nei momenti di convivio più o meno rituali, di tener fede alla restrizione stabilita.
Ma invece che sancire il predominio ontologico della mente sul corpo, i tabù ne possono svelare la comune sostanza, la stessa pasta. Se con Marvin Harris, Good to eat. Riddles of food and culture, si seguono le tracce dei significati dei tabù alimentari, facilmente si percorrono itinerari che affondano nella storia o nella magia, pescano nella biologia, si elevano al culto, si fanno spettacolo nel rito. Nelle società in cui il latte è esclusivo appannaggio dei neonati, simbolo di infantilismo e dipendenza, come in Giappone, e berlo da adulti è inappropriato e disonorevole, endemica è l’intolleranza al lattosio.
Un enzima che rispetta un tabù culturale: prodigioso.
Una relazione bidirezionale tra natura e cultura, di cui è evidentemente impossibile stabilire il verso, ma che testimonia quanto la cultura sia incorporata. Con Tomas Csordas, Emobodiement as a paradigm for Anthropology, il corpo è infatti «the fundamental ground of culture», fondamento esistenziale della cultura, è la sostanza, il sostrato che ne consente l’esistenza, e non il mero supporto che ne è passivamente plasmato.
La metodologia occidentale moderna ha necessitato di un’opposizione logica, il dualismo corpo-mente, per fare del corpo un oggetto della sua scienza, fondando così un principio che vanta ampio successo nella scienza positiva, e che conferisce indubbi vantaggi alla tecnica umana. Ma la cesura è prodotta su un piano razionale, e scollata dal vissuto del soggetto che invece ap-prende il reale, in filosofia fenomenologica, in un’esperienza che è sempre al contempo cognitiva, affettiva, volitiva e incarnata.
Ma oltre a suffragare la tesi dell’incorporazione, prospettiva antropologica in opposizione al principio cartesiano che fonda la biomedicina – la quale invece cura «malattie del corpo» oppure «malattie della mente» – la riflessione sui tabù alimentari consente di vedere nel cibo un luogo privilegiato di stratificazione storica di significati. Con Marvin Harris è infatti possibile scoprire che al fondo del tabù alimentare sull’«abominevole porco» sta l’impossibilità di alimentare il suino per quei gruppi sociali che produssero il tabù: a differenza di altri animali da allevamento, il maiale ha un’alimentazione troppo simile all’uomo e ne costituiva un competitor insostenibile.
Materialità e mangiabilità della cultura, fame come riemersione insolente della crisi della presenza; restrizioni, tabù e digiuni – più o meno patologici, più o meno politici – come tentativi talvolta disperati e mai esaurienti di assoggettare il corpo alla psiche. Tentativi, forse, di sganciare l’individuo dall’ineluttabilità orrifica della negoziazione con una realtà insaziabile.