La grande illusione: dal bisogno di tecnologia alla tecnologia dei bisogni

Senza risalire alle origini e ai primordi della tecnica, ma cercando un confronto tra i presupposti della rivoluzione informatica del secondo Novecento, culminata con la nascita del web e dei social media, della robotica e dell’Intelligenza Artificiale, non si può non constatare che la matrice – ma potremmo anche dire la “chimera” – illuminista di queste invenzioni  sia approdata a un mondo reale sempre più gestito mediante dispositivi virtuali, secondo logiche prevalenti di carattere commerciale, burocratico, militare e di controllo politico.

È luogo comune ormai che l’era digitale abbia prodotto una trasformazione della società contemporanea analoga se non superiore alla rivoluzione industriale ottocentesca, sicuramente più rapida e globale, si parla infatti di terza o quarta  rivoluzione industriale (J. Rifkin 2011; K. Schwab 2016), o, più propriamente, “post-industriale”. La dimensione virtuale della comunicazione dell’era digitale ha avuto un impatto sulla percezione e sulla rappresentazione del mondo pari, se non superiore, alle invenzioni della stampa e della prospettiva nel mondo occidentale (A. Balzola e P. Rosa 2019).

Sarebbe di conseguenza ovvio pensare che in un contesto tanto radicalmente mutato, da nuovi paradigmi scientifici, dai sistemi cibernetici e da macrofenomeni sociali (come flussi migratori, conflitti diffusi e globalizzazione) e ambientali (come l’emergenza ecologica e i cambiamenti climatici), dove tutto è in costante trasformazione, si fosse avviato un cambiamento, o almeno un progetto di cambiamento reale dei paradigmi culturali e dei modelli educativi (M. Serres 2012). 

Guy Debord aveva già descritto, più di mezzo secolo fa, come la società contemporanea a capitalismo avanzato fosse diventata il dominio spettacolare della merce (G. Debord 1967): tutto sarebbe diventato marketing, dal sapere alla cultura, dalla politica alla religione, dalla comunicazione all’arte, dal tempo libero all’educazione, dai sentimenti alle relazioni sociali. Questo processo inesorabile, avviato dal boom economico e industriale postbellico di metà Novecento, si è compiuto alla fine del secolo con l’affermazione dell’economia finanziaria su quella industriale, la globalizzazione e l’innovazione informatica.

Tutte queste trasformazioni sono interdipendenti e fondate sulla potenza crescente di acquisizione e di elaborazione dei dati. La ricerca e l’estrazione di una mole sempre più elevata di dati a fini scientifici, economici, industriali e militari è diventata una condizione imprescindibile, e una vera e propria ossessione epocale, del mondo contemporaneo. Qualsiasi azione individuale o collettiva è oggi tracciata, registrata e lavorata tramite intelligenze artificiali e memorie digitali sempre più capienti e veloci. Lo spostamento progressivo dagli archivi privati off line agli archivi privati esternalizzati on line presso grandi server e storage virtuali, il cosidetto cloud computing, risulta molto comodo per disporre di una memoria quasi illimitata che non ingombra i dispositivi personali (di limitata memoria e soggetti a rapida obsolescenza), ma pone molti interrogativi rispetto alla Sicurezza e alla Privacy: spesso i dati sono archiviati in Server Farms di aziende situate in Stati diversi dalla nazionalità dell’utente, il cloud provider potrebbe accedere a quei dati e utilizzarli ai propri scopi, il sistema wire-less non assicura una protezione assoluta dalla pirateria informatica, all’utente non è fornita nessuna garanzia di accesso futuro ai suoi dati ed  è molto complicato il cambiamento del gestore dei servizi cloud.

A questi temi si aggiunge un digital divide politico-sociale-culturale, cioè una divaricazione crescente tra i paesi ricchi e i paesi poveri nel possesso dei big data. Come accade per tutti i profili, le immagini e i testi postati sui social media, si assiste a una progressiva e globale espropriazione dei dati personali, in vita e anche oltre la morte, sostenuta e promossa dalle grandi multinazionali informatiche e dai governi per “ottimizzare” il sistema, ma in realtà tutte le informazioni, che sono la vera moneta del XXI secolo, diventano così oggetto di speculazione commerciale e veicolo di controllo sociale. L’immaginario orwelliano è stato ampiamente superato dai fatti, e come ha segnalato Han siamo passati dal big brother al big data, le grandi aziende di analisi dei big data posseggono ed elaborano ormai più dati delle centrali informatiche dei servizi segreti. Tutti sono sotto potenziale sorveglianza informatica: i dipendenti dalle aziende, i clienti dalle banche, i cittadini dallo Stato. (B. Han 2013).

In realtà, esistono già due tipologie di sorveglianza: la sorveglianza centralizzata, e la sorveglianza diffusa o auto-sorveglianza. Ognuno di noi, avendo la possibilità di registrare qualsiasi cosa 24 ore su 24, diventa un potenzialie veicolo della sorveglianza diffusa e capillare: i data-occhiali (Google Glass) “trasformano anche l’occhio umano in una telecamera di sorveglianza. Il vedere coincide integralmente con il sorvegliare: ciascuno sorveglia ogni altro.

Ognuno è big brother e prigioniero allo stesso tempo.” (B. Han 2013, pp.92-93)

La sorveglianza diffusa ha anche un ulteriore risvolto: favorisce, persino promuove, il voyeurismo di massa, le persone sono indotte ad essere protagoniste dello sguardo piuttosto che dell’azione, la relazione con l’altro diventa guardare – o spiare – l’altro, piuttosto che interagire con lui, il dialogo stesso quando avviene si sviluppa più facilmente mediante schermi  e immagini, una pratica evidente nelle nuove generazioni che quasi prediligono il dialogo virtuale rispetto a quello dal vivo, in quanto più libero, più protetto, più controllabile e più disinibito nello stesso tempo. Oppure dialogano attraverso le immagini, come dimostra il successo di Instagram, il social medium dove si pubblicano immagini senza o con pochissime parole. La sorveglianza è resa accattivante dal voyeurismo e anch’essa diventa merce di scambio, molta parte della documentazione visiva giornalistica si basa infatti sull’acquisizione a pagamento di registrazioni private e amatoriali effettuate con dispositivi tecnologici portatili, cellulari soprattutto.

Dal 2005, con la nascita di Google Maps, il primo servizio di cartografia on line, e poi con Google Earth che fotografa in tempo reale il pianeta Terra dal satellite, in ogni sua parte, fino a riprendere a 360° tutte le vie e le piazze urbane con Google Street View (dal 2008), comincia la rivoluzione contemporanea della rappresentazione del mondo.  Come suggerisce Fontcuberta: Internet duplica la realtà (J. Fontcuberta 2016). Il mondo reale è sostituito o sovrapposto da un mondo virtuale ricalcato su di esso come una Realtà Aumentata, si realizza il paradosso descritto da Jorge Luis Borges in un suo racconto: “In quell’impero, l’arte della cartografia giunse a una tal perfezione che la mappa di una sola provincia occupava tutta una città, e la mappa dell’impero tutta una provincia. Col tempo, queste mappe smisurate non bastarono più.. I collegi dei cartografi fecero una mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le generazioni seguenti, meno portate allo studio della cartografìa, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza empietà la abbandonarono alle inclemenze del Sole e degli inverni.” (J.L. Borges 1935) 

Qui si trova la via d’uscita individuata dal grande scrittore argentino per sfuggire alla mappatura globale e al controllo totale del Big Data: quando tutto e tutti saranno mappati, registrati e videosorvegliati sarà abolita completamente l’intimità, ma nello stesso tempo si sarà giunti alla saturazione dei dati disponibili, all’impossibilità di esercitare un controllo reale. Chi dovrà o potrà controllare i controllori?

La risposta c’è già: l‘intelligenza artificiale, quella che genera tramite algoritmi milioni di fake news in tempi rapidissimi, per screditare o accreditare personaggi o programmi di propaganda politica o commerciale, condizionando elettorato, consumatori e opinione pubblica, rendendo di fatto impossibile per gli umani la verifica della veridicità/falsità della notizia stessa. L’aspirazione al controllo totale porta con sé il virus che destabilizzerà il sistema attraverso una proliferazione di smagliature, è sempre successo anche con i regimi autoritari più solidi e monolitici, giganti dai piedi d’argilla.

Fin dalla seconda metà del Novecento, il movimento situazionista di Debord e compagni, oltre ad analizzare il processo di spettacolarizzazione della merce nelle società capitalistiche avanzate, ha anche, con la sua anima artistica, indicato come deviare la mercificazione e il controllo sociale verso una nuova e diversa apertura di senso. E’ l’azione semantica del detournement, ispirata al ready made di Duchamp: prelevare un oggetto dal suo contesto originale, sottrarlo alla sua funzione abituale, per ripensarlo e ricollocarlo in una dimensione straniante, inedita e imprevedibile, che gli cambia natura e senso, un oggetto d’uso diventa così oggetto estetico, allo stesso modo un concetto o un messaggio mediatico, pubblicitario, può essere manipolato, deviato, rovesciato nel suo contrario.

Così come l’artista coreano Nam June Paik aveva inventato la videoarte negli anni ’60, applicando dei magneti ai televisori che deformavano le immagini delle trasmissioni in diretta, oggi molti artisti usano telecamere di sorveglianza e autovelox per creare performances e opere che ironizzano, criticano, ribaltano in chiave etico-estetica i sistemi di controllo. Una pratica che ragazzi e giovani svolgono spontaneamente da tempo mediante diversi software e app con la creazione di video, gif, immagini virali e memi sui social network. Una nuova dimensione mediatica, autoprodotta, sempre più estesa quantitativamente e qualitativamente, che contrasta il dominio omologante della propaganda commerciale e politica, cerca sentieri nuovi e indipendenti sia sul piano della forma che dei contenuti. Mediante un’innovazione tecnologica pervasiva e accelerata il mondo reale si è trasformato in una mappa variabile e instabile, che richiede una differente velocità e flessibilità nei metodi e nelle strategie di approccio. In ambito educativo occorre fornire alle generazioni in crescita strumenti adeguati e attualizzati, in uso nelle loro pratiche quotidiane, per salvaguardarle da un assorbimento passivo dei modelli comunicativi diffusi e dalla possibile perdita del principio di realtà, oggi in via di sostituzione con il principio di virtualità.

In un’era ipertecnologica e post-industriale come la nostra, l’uso delle tecnologie è programmato per produrre disciplinati esecutori e consumatori delle pianificazioni commerciali e industriali delle multinazionali hi-tech, o per addestrare giovani utenti a un sapere distribuito in pillole on line, confezionato in moduli rigidi e standardizzati, indirizzandoli in un tunnel di puro intrattenimento o di agevole sfruttamento.  Il messaggio martellante dei media, veicoli privilegiati degli interessi economici e del controllo politico, è: compra la tecnologia più aggiornata, non restare mai indietro rispetto alle nuove offerte commerciali, impara a usare i dispositivi e le loro applicazioni con i tutorial, così sarai sempre in pole position nel mondo del lavoro e delle relazioni, perché la tecnologia è lo status symbol primario che potenzia il profitto economico e  l’immagine personale vincente. La diffusione di una formazione prevalentemente tecnica e specialistica genera una massa crescente di esecutori a fronte di un impoverimento progressivo delle idee e dei linguaggi. Si sta realizzando uno scenario paradossale e inquietante, dove tutti hanno finalmente una fotocamera digitale ad alta definizione, incorporata nel loro smartphone, con una quantità infinita di applicazioni e programmi per elaborare le immagini, ma i video, le fotografie, i suoni “liberamente” prodotti e condivisi in Rete tramite i social media, si assomigliano tutti. L’unica identità riconoscibile (anche di molti prodotti cinematografici e televisivi) è la matrice tecnica, i veri autori diventano il software e l’Intelligenza Artificiale che raccoglie, connette, elabora i dati. Il tema completamente rimosso in questa prospettiva è che i media non sono solo strumenti, ma sono linguaggi, e che soltanto un approccio consapevole e creativo delle potenzialità comunicative e simboliche dei dispositivi tecnologici può evitare il trionfo dello stereotipo, della formula preconfezionata, dell’omologazione culturale ed estetica, il primato dell’esecuzione sull’ideazione.

Oggi è scontato dire che la fotografia, il cinema e la televisione, sono straordinari media narrativi, ma spesso si dimentica che questi mass media non sono nati con lo scopo di raccontare storie, ma per documentare in modo sempre più fedele la realtà, sono stati ingegneri e progettisti a inventarli poi le personalità creative di artisti, registi, attori, scrittori e scenografi si sono appropriate di quei mezzi, sperimentando le loro potenzialità espressive e comunicative, per trasformare un mero strumento tecnico in un medium linguistico. L’arte ha sempre trasformato la tecnica in linguaggio, per questo l’attitudine creativa non deve più essere discriminata e marginalizzata dall’apologia contemporanea della tecnica, perché nella storia delle civiltà ha sempre avuto un ruolo determinante per la loro rappresentazione, documentazione e comunicazione. Se noi abbiamo testimonianze del nostro passato, visibili e studiabili sui libri o sulle pagine web di storia, lo dobbiamo in massima parte alle persone creative che nel corso dei millenni hanno rappresentato e trasmesso ai posteri lo spirito, gli eventi e le credenze del loro tempo. Di fronte all’incalzante, quasi esasperante, sviluppo tecnologico attuale, le applicazioni devono accompagnarsi alla ricerca creativa di idee  e alla sperimentazione espressiva dei dispositivi, in controtendenza rispetto all’omologazione di pensieri e comportamenti.

Esiste da tempo, e in forme sempre più esasperate, una disgiunzione molto rischiosa, quella tra “i bisogni della tecnologia” e “la tecnologia dei bisogni”. Nel primo caso, l’evoluzione della società in tutti i suoi settori si avvale della spinta all’innovazione tecnologica, nel secondo caso l’economia di mercato, che è diventata ormai una “dittatura globale” del mercato, innesta dei bisogni artificiali sui bisogni reali, per garantire e tenere sotto pressione costante il consumo dei prodotti industriali e finanziari. La saturazione dei consumi dei beni materiali nei paesi occidentali si è compensata con un investimento senza precedenti nella tecnologia delle comunicazioni, generando un nuovo, immenso e apparentemente inesauribile, mercato dei beni immateriali e dei prodotti virtuali. Il bisogno di tecnologia si è così trasformato in una tecnologia del bisogno alimentato artificialmente per via mediatica dall’industria hi-tech, con incessanti novità, reali e simulate, che hanno creato una dipendenza collettiva e un automatismo del consumo senza precedenti nella storia umana del rapporto fra uomo e oggetto.  Si è realizzata quella “trasformazione antropologica” profetizzata dalle intuizioni di molti filosofi e artisti novecenteschi, come ammoniva Pasolini, non bisogna confondere lo sviluppo tecnologico con il progresso culturale. Possono intrecciarsi ma l’uno non garantisce necessariamente l’altro, anzi potrebbero anche essere in contrasto, se l’innovazione tecnologica è esclusivamente concepita e gestita da logiche commerciali, militari e di controllo. La pervasività tecnologica è una condizione inequivocabile della contemporaneità nei paesi cosiddetti avanzati, ma non bisogna dimenticare che non è una realtà universale, perché la tecnologia del bisogno ha aumentato a dismisura il divario tra i “nativi digitali” e coloro che dipendono ancora dai bisogni primari della sopravvivenza (in molte parti dell’Africa, dell’America del sud o dell’Asia non arriva ancora nemmeno l’elettricità), e non è irreversibile, perché catastrofi naturali ed ecologiche, conflitti, prosciugamento o interruzione delle risorse energetiche, possono provocare in qualsiasi momento una brusca quanto traumatica regressione a una condizione addirittura pre-tecnologica. La realtà è sempre più complessa, il presente è in continuo movimento, il futuro non è mai stato così incerto, in questo scenario la tecnologia è diventata uno strumento indispensabile, comunque inevitabile, che fa emergere nuovi bisogni, nuovi comportamenti e nuovi linguaggi (segnando appunto il passaggio dal semplice uso della tecnica al logos della tecnica). Non si tratta di una dannazione ma di una possibilità, e come tutte le possibilità, bisogna saperla cogliere e gestire.

Occorre prendere atto che l’incertezza del nostro futuro richiede una grande flessibilità di approccio, una sensibilità aperta, un’intelligenza inventiva capace di intuire i mutamenti agendo in tempi brevi. Bisogna comprendere che le complessità del mondo reale e del mondo virtuale sono oggi profondamente compenetrate e che devono essere interrogate, studiate e possibilmente orientate aldilà delle finalità del mercato, per scopi cognitivi e con una vigile consapevolezza etica (A. Balzola 2004, 2021).

Per orientare l’ipnosi tecnologica dalla chimera alla promessa, come aveva suggerito Ramon Panikkar, bisogna concepire e praticare la tecnologia come una tecno-cultura, con un approccio etico-umanistico-relativistico, e non come una tecnocrazia, che si fonda viceversa su un approccio puramente economico-deterministico (R.Panikkar 1991).

Riferimenti bibliografici:

 

Balzola A. (2021), Edu-action. 70 tesi su come e perché cambiare i modelli educativi nell’era digitale, Meltemi, Milano.

Balzola A., Rosa P. (2019), L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli UE, Milano.

Balzola A. (2004), Emergenze etiche, comunicazione e “Realtà Virtuale”, in “Giornale di Metafisica”, n.2/2004, Tilgher, Genova.

Borges J.L. (1935), tr.it. Storia universale dell’infamia, Il Saggiatore, Milano.

Debord G. (1967), tr. it. La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano.

Fontcuberta J. (2016), tr. it. La furia delle immagini, Einaudi, Torino.

Han B. (2013),  tr..it. Nello sciame.Visioni del digitale, Nottetempo, Milano.

Panikkar R. (1991), tr. it. La dimora della saggezza, Mondadori, Milano.

Rifkin J. (2011),  tr. it. La terza rivoluzione industriale, Mondadori, Milano.

Schwab K. (2016), tr. it. La quarta rivoluzione industriale, Franco Angeli, Milano.

Serres M. (2012), tr. it. Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, Bollati Boringhieri, Torino.

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