Camminare è una promessa fatta a sé stessi.
Già Aristotele aveva notato che l’animale uomo, nel suo muoversi nello spazio, manifesta una particolare abilità. L’uomo sarebbe un animale che si muove non solo nello spazio ma con lo spazio. Come dire che la locomozione è nell’uomo una “progettazione di spazio”.
Progettazione è appunto ciò che caratterizza la relazione che l’uomo ha con lo spazio, perché l’uomo, nel darsi uno spazio, dà una dimensione spaziale anche a sé stesso, si promette insomma allo spazio. Progettazione di spazio è dunque un’espressione che serve a definire l’azione dell’uomo quando, rapportandosi al mondo, promette a sé stesso una destinazione, un cammino, una direzione.
Se promettere significa in primo luogo “mandare avanti”, preannunciare e riporre fede in qualcosa, il fatto che i nostri passi abbiano una direzione è, visibilmente, la manifestazione di una promessa elementare. Il nostro incedere nello spazio del mondo è perciò, in quanto tale, promessa del fatto che c’è un soggetto che, camminando, percorre una strada che è il suo destino.
Alcuni autori latini quando parlano di promissă alludono a ciò che è rassicurante, oppure a ciò che va lasciato crescere affinché giunga a maturazione, ad es. il raccolto del grano. Questo genere di pro-messa denota un’aspettativa o una fede che – come sosteneva Aristotele a proposito del rapporto che l’uomo ha con lo spazio e con la corporeità – dipende dai cicli della natura e dalle leggi fisiche. Se invece si prende in considerazione il vocabolario della morale, il termine ‘promessa’ si carica di significati antropologici sicuramente più complessi e contraddittori. Basti pensare agli innumerevoli significati che la parola ‘promessa’ può assumere quando viene riportata entro il campo della psicologia, della morale e del linguaggio comune.
Si può parlare di un atto fondante della morale quando l’essere che parla viene abilitato all’uso della parola. “Dare la parola” (per cominciare, al bambino) è innanzitutto iniziazione al linguaggio e promessa di vita. Perciò, donare la parola all’essere che parla comporta anche l’istituzione di un vocabolario e di un codice etico che mettano gli esseri parlanti in un rapporto di reciprocità. Sicché dare la parola, nel senso di impegnare sé stesso nella parola, significa promettere, giurare, assicurare il rispetto di un patto di co-appartenenza al linguaggio. Passaggio delicato sul piano etico. Infatti, a ben guardare, proprio la natura contrattuale e fondante di questa co-appartenenza alla parola comporta ostacoli e contraddizioni che si evidenziano in particolare quando si parla del promettere qualcosa a qualcun altro.
La promessa, intesa come impegno morale, in genere vincola in maniera reciproca due soggetti e ha un oggetto esplicito che – come succede ad es. nel contratto matrimoniale – diventa reale proprio per effetto della promessa fatta. Quasi sempre però l’oggetto della promessa è immaginario e resta non detto, come nel caso della “promessa fatta all’Altro” senza che l’Altro lo sappia; oppure nel caso opposto in cui “la promessa che è fatta dall’Altro”, pur riguardandoci, non è esplicitata e resta oscura nella sua sostanza. Esistono ovviamente molte sfumature nel definire la casuistica in questione. Per effetto di queste ambiguità, si generano equivoci e malintesi che letterati e poeti hanno spesso illustrato. È evidente comunque che, quando si analizza la forma complessa di ciò che chiamiamo promessa, resta problematico dare una risposta a queste due domande: primo, Chi è veramente il soggetto della promessa; secondo, Quale è l’oggetto reale della promessa.
Per abbozzare una risposta, chiediamoci innanzitutto sino a che punto “il soggetto che promette” è soggetto a pieno titolo della sua promessa.
È appropriato o no definire come “sua” la promessa che qualcuno fa a qualcun altro?
Non è meglio parlare di un soggetto che, nell’atto di promettere, si mette nella condizione di essere non il soggetto ma piuttosto l’oggetto che si promette. Come dire che, nel promettere, il soggetto, in qualche modo, infeuda sé stesso. Si subordina, si rende dipendente dal suo atto e si oggettiva in esso, nel senso che inscrive sé stesso entro lo spazio ristretto (etico, giuridico o religioso) che per effetto della promessa prende forma, diventando in tal modo uno spazio normativo oggettivato. Praticamente, nel fare una promessa, il soggetto afferma la propria libertà e nello stesso tempo la delimita e la circoscrive, sino al punto estremo di perderla. Partendo da qualcosa che si spera e si desidera, la promessa si trasforma in gabbia, in soggezione, in assoggettamento. Questo sembra l’avviso di Freud, quando denuncia i rischi che la Civiltà può comportare, allorché le libertà e le aspirazioni individuali vengono strumentalizzate, distorte e utilizzate in maniera deviata.
Domandiamoci inoltre se fare/farsi una promessa non sia solo una scappatoia illusoria, un espediente o un raggiro per spostare in un tempo futuro il superamento d’una impossibilità presente che è e sarà sempre una impossibilità. Considerando le cose da questo punto di vista, si può capire meglio perché ciò che costituisce la forza propulsiva o pulsionale della “promessa”, più che essere qualcosa di razionale, sia il desiderio inconscio di oltrepassare una condizione di ristrettezza, inadeguatezza e angoscia che è connaturata all’essere umano. Questa forza, basata appunto sulla tendenza a rendere possibile l’impossibile, ha una funzione trascinante e coinvolgente: una forza, si riconoscerà, che si manifesta nella forma di fantasticazione artistica e culturale, oppure – per dirlo in termini psicoanalitici – nella forma di sovrainvestimento pulsionale indirizzato verso ciò che procura piacere o, altrimenti, è causa di godimento.
Resta il fatto che, in quanto promessa di felicità, spinta inventiva e immaginazione creativa, il desiderio di realizzare queste “fantasie” è ciò che più caratterizza il modo in cui l’essere umano si rapporta alla realtà. Sicché è inevitabile che nella promessa, così come nel desiderio che la sorregge, ci siano, tanto il farmaco che cura e porta salute, quanto il veleno che produce l’effetto opposto.