Le promesse dell’Intelligenza Artificiale

L’espressione «guru dell’informatica», in riferimento a Bill Gates, Steve Jobs o a Mark Zuckenberg, potrebbe sembrare una colorita trovata giornalistica.

In realtà, l’accostamento fra i «santoni» dell’antica India o dello «zen» giapponese e i fondatori delle grandi aziende anglo-americane dell’hardware e del software ha una sua qualche giustificazione. Deriva dal fatto che la Silicon Valley – dove sono ubicate le sedi centrali delle Major dell’online – si trova nella parte settentrionale della California, nell’area della San Francisco Bay affacciata sull’Oceano Pacifico. In quella stessa zona, negli anni ’60, si erano diffusi sia il «Beat Zen» di Alan W. Watts, sia la «psichedelia» di Aldous Huxley e di Timothy Leary.

Il Beat Zen e la psichedelia (lett.: «apertura della psiche»), le tecnologie digitali e l’informatica, si sono sviluppati in periodi molto diversi e hanno percorso strade differenti. Tuttavia l’accostamento di questi due segmenti della cultura sociale del secondo ‘900 ha qualcosa di verosimile: si tratta dell’analogia tra due forme di ricerca di un nuovo «setting mentale» dell’uomo occidentale.

Negli anni ’50 e ’60, i fautori della diffusione liberatoria del buddhismo e della psichedelia ricercavano una «espansione» della mente umana. Auspicavano il superamento del dualismo tra la «coscienza personale» e la «coscienza cosmica». Uscir fuori da sé stessi, abbattere il muro tra l’Io e il non-Io, scrissero Watts e Huxley.
Leary sintetizzò la nuova visione nella formula: «Turn on, tune in, drop out»: liberare l’Io dalle abitudini e dagli schemi identitari imposti dalla società attraverso le esperienze psichedeliche indotte da un uso culturalmente consapevole e accorto dell’acido lisergico.

Anche la psichiatria sarebbe entrata nell’orizzonte della psichedelia. Alcuni psichiatri (da Umphry Osmond a Ronald Laing e David Cooper) proposero di adoperare le sostanze psicotrope e allucinogene (LSD) per curare malattie mentali (depressione, schizofrenia).
Da parte loro, letterati e musicisti (da Jack Kerouac ai Pink Floyd) si avvicinarono al peyotl e alla cannabis per espandere le loro capacità artistiche e creative, per accrescere la loro «immaginazione» e visionarietà. Importante è sottolineare la distanza che corre fra le droghe psichedeliche (hashish, LSD, psilocibina, mescalina) – attivatrici della visionarietà – e gli oppiacei (eroina, morfina) a forte effetto sedativo e analgesico[1].

A questo humus ascetico-estetico-psichiatrico, teso alla ricerca di nuove forme di «espansione» della coscienza, si sarebbe collegata anche la sintesi proposta da Herbert Marcuse, nel 1955, in Eros and Civilization. A Philosophical Inquiry into Freud e poi in One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, nel 1964.
Marcuse intese di integrare la cultura Hippie e Freak avvicinandola alle istanze del «New Left» e del «Free Speach Movement» presenti nelle università californiane. Il neo-marxismo inseguiva l’idea dell’«espansione della coscienza» come superamento del «dualismo cartesiano» – borghese e capitalista – tra la mente e il corpo, fra la società (le leggi, le regole) e la natura (l’ambiente, le forme viventi), fra l’economia (dovere, risparmio, mercato) e il godimento (libertà, erotismo, comunità).

Negli anni ’60 del Novecento, a San Francisco e a Londra, si andò ben oltre le preoccupazioni dei pensatori «distopici» degli anni ’30 e ’40 e ’50 (Huxley, Orwell, Bradbury). Questi avevano vissuto la stagione del «totalitarismo» e l’epoca della «Cold War» tra USA e URSS, e conservavano il timore di un uso delle droghe di tipo omologante e repressivo. I beat, gli psichedelici e i popartisti, all’opposto, propugnarono la concezione utopistica e liberatoria del trip e degli allucinogeni – se assunti all’interno di un adeguato contesto culturale e sociale – intendendoli come una sorta di corrispettivo occidentalizzato della meditazione orientale.

La svolta «post-romantica», indotta dalle politiche e dalle arti dell’«espansione mentale», fu seguita da un’analoga evoluzione dei seguaci, lettori, ascoltatori, spettatori. L’artista «bipolare» – in viaggio fra eccezioni e regole, immaginazione e realtà – costruì un pubblico anch’esso bipolare e disposto ad entrare ed uscire dalla «fiction» estetica. Il fruitore dell’opera d’arte diventò un «consum-attore», uno «spettatore turbato», poiché era capace di sperimentare e condividere il viaggio «oltre il confine dell’ordinario» in cui si era inoltrato l’artista. Ciò che, inizialmente, erano stati genialità e fantasia individuale, diventarono esperienza dello straordinario e poi dell’anormale e del folle da parte di intere generazioni[2].

Gli psichedelici entrarono in conflitto con la DEA e con il puritanesimo americano (negli USA le droghe avevano sostituito l’alcool nella proibizione).
Timothy Leary fu allontanato da Harvard nel 1963 per le sue ricerche sugli effetti terapeutici delle droghe allucinogene. Arrestato più volte per detenzione di sostanze di cui erano vietati il possesso e il consumo, fu rimesso definitivamente in libertà solo nel 1972.

L’approccio psichedelico degli artisti e l’impeto rivoluzionario del neomarxismo e delle dottrine alternative degli anni ’60 e ’70 del Novecento si sarebbero esauriti alla fine del secolo, con il tramontare delle generazioni che li avevano sperimentati. Al loro posto si sarebbe insediata la «galassia digitale».

Alcuni episodi segnarono il passaggio dalla cultura hippie alla cybercultura. Erano collegati alla diffusione delle droghe oppiacee e della tossicodipendenza. Uno di questi fu la morte di Jerome John “Jerry” Garcia, leader dei Grateful Dead, icona della controcultura psichedelica, che, il 9 agosto 1995, era ricoverato per intossicazione nella clinica Serenity di Forest Knolls a San Francisco. La sua morte – che seguiva quelle di Jimy Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison – indusse a pensare che sarebbe stato saggio trasferire le istanze immaginifiche e utopistiche dell’espansione psichedelica all’ambito più gestibile e produttivo dell’estensione tecnologica delle potenzialità cognitive.

Seguendo la periodizzazione di Marshall McLuhan, al passaggio di secolo la civiltà del libro, della memoria cartacea, del pensiero verbale, delle comunicazioni scritte, lette e diffuse attraverso gli «Old Media», avrebbe ceduto il passo alle tecnologie «postgutenberghiane». La società affidò sempre di più le sue forme di pensiero e di comunicazione a tecnologie elettroniche di tipo informatico e digitale. L’«uscire fuori di sé» degli artisti e dei loro seguaci, le teorie dell’»espansione mentale», si sarebbero trasformate nell’esperienza dell’«onlife»: la vita dell’utente digitale bipolare e bilocata tra il reale e il virtuale, tra la presenza e la connessione.

Lo spettatore/fruitore/consumatore sarebbe diventato una creatura proteiforme. Da un lato era un tecnologo e un computatore, dall’altro era un esteta e un comunicatore. Chi viveva nella cybersocietà era incerto e ordinato, disambientato e ambientato, anaffettivo ed empatico, ansioso e pianificatore[3].

Annunciatasi come post-moderna e post-industriale, la «extended mind» – la mente potenziata dalle tecnologie informatiche e digitali, connessa all’infosfera – è una «mente espansa» nel senso che l’Io non è più confinato nel cervello e nel corpo del singolo individuo e nello spazio ristretto del suo mondo locale. Grazie alle attrezzature esocorporee – esterne al corpo, ma non distaccate da esso – dei monitor, mouse, smartphone, laptop ecc. la «mente estesa» è recettiva verso l’intero ambiente virtuale e dialoga con la rete globale.

L’insieme dei nuovi dispositivi elettronici e i nuovi assetti cognitivi hanno portato alla strutturazione planetaria di una «infosfera digitale» parallela alla comunicazione in presenza (Internet, World Wide Web).
La «cyber-civiltà» connette in modo orizzontale ogni persona con le altre, a qualsiasi distanza si trovino, e fa interagire le istituzioni e le banche dati, le città e le opere d’arte, in qualsiasi parte del mondo siano localizzate. Con l’Internet of Things, gli Open Data e la Digital Identity si sono diffuse forme di «cittadinanza digitale» e di «cooperazione» a distanza attraverso la rete gestita dai webmaster, dalle aziende e dalla pubblica amministrazione. I gruppi culturali hanno modificato adattivamente le loro «identità».

Con l’evolversi delle cose, però, i cyberottimisti – come Luciano Floridi – si sono scontrati con i cyberpessimisti, come Evgenij Morozov. Le dinamiche della transizione digitale e il delinearsi di zone d’ombra hanno reso problematica la disseminazione produttiva delle tecnologie dell’Intelligenza Artificiale e della connessione a distanza. Morozov ha invitato a diffidare delle forme di «Internet-centrismo» che interpretano gli eventi sociali e politici in atto nel mondo sulla base di una concezione deterministica e totalizzante del cambiamento tecnologico.

Senza nulla togliere alla cultura di massa sviluppatasi nella vita quotidiana grazie alla comunicazione mediata dall’IA, da internet e dall’E-business, le scienze sociali hanno imposto che si prestasse una seria attenzione ai fenomeni critici. L’evoluzione digitale, gli sviluppi della cybercultura e delle neuroscienze, hanno attivato processi di riorganizzazione sistemica, ma occorre avere una visione completa della trasformazione sociale e personale. Non si può non guardare negli angoli bui della cybersocietà e occorre analizzare i fenomeni di conflitto, divergenza e regressione, che caratterizzano l’epoca postgutenberghiana.

Luciano Floridi ha ragione nel criticare l’atteggiamento retrogrado, allarmistico e antitecnologico, che imputa all’innovazione e alle sue promesse ogni regresso o devianza. Anche il catastrofismo è una forma – sia pure rovesciata – di «Internet-centrismo». L’ampia letteratura sull’«Internet Addiction Disorder» (IAD) non può sostituire la conoscenza dell’innovazione tecnica e scientifica. L’analisi psico-sociale di fenomeni di deculturazione e di devianza richiede nuove e specifiche categorie.

Cosa ha promesso alla società la tecnologia digitale con le sue mille tipologie di Intelligenze Artificiali?

Ha promesso il miglioramento sociale mediante l’utilizzazione di computers, sensori, robot, droni, algoritmi … nei settori più diversi (difesa, medicina, commercio, diritto, finanza, trasporti, servizi, scuola, università ecc.) in sostituzione delle metodologie paleoindustriali di controllo e di feedback. Il numero crescente di aziende che adottano dispositivi digitali attesta l’efficienza e l’economicità dei «sistemi intelligenti». Le nuove tecnologie «interattive» e «on demand», hanno sostituito le telecomunicazioni di tipo unidirezionale (tv, radio, cinema) e hanno limitato i tradizionali apparati burocratici e modificato le filiere industriali. Sul piano ecologico la rivoluzione digitale si propone di rendere ecocompatibile il modello di sviluppo vigente.

La connessione continua toglie alla società gli elementi di rigidità e di verticalità che erano propri del sistema industriale moderno. Alla ciclicità e alla iteratività delle istituzioni e delle consuetudini subentra la linearità effimera e contingente del mercato con le sue periodiche oscillazioni. L’accumularsi delle esperienze non implica la certezza della previsione, ma soltanto la predisposizione dei migliori comportamenti preventivi e progettuali[4].

Per comprendere i cambiamenti, verificare i processi locali, uscire dalle valutazioni «in bianco e nero» e oppositive, occorre applicare all’età contemporanea la formula della «coupure épistémologique» che era stata proposta in relazione alla «nuova scienza» dell’inizio del Novecento e, successivamente, nel dibattito sul «postmoderno» dei primi anni ’80. Solo creando la discontinuità culturale è possibile liberare l’indagine dai vincoli continuistici e dalla reattività conservativa[5].

Importante è che le neuroscienze, oltre a superare la dicotomia tra mente e cervello e tra plasticità e fissità delle sue strutture e funzioni, schiudano un terreno di lavoro funzionale ai nuovi profili pedagogici e psicologici, formativi e professionali, necessari alla società ipertecnologica. Allo stesso modo, le scienze sociali, liberate dall’abbraccio mortifero del marxismo, dovranno impegnarsi nell’indagine empirica e nella modellizzazione orientando il loro apparato categoriale verso i settori critici del mondo contemporaneo uscendo dal cortocircuito fra «sociologia digitale» e «sociologia del mondo digitale»[6].

Le principali sedi della ricerca e dell’applicazione scientifica sono diventate le aziende. L’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale come strumento di lavoro ha modificato la natura della conoscenza scientifica e della cultura.
Obiettivo della «modellistica computazionale» diventa quello di formulare analisi convincenti (idoneità), che contemplino un ridotto margine di errore nel calcolo (affidabilità), e che implichino il minor costo delle risorse utilizzate (efficienza).
La cultura e la scienza, rinunciando alle tradizionali ambizioni fondazioniste – definitorie e deterministiche – si possono proporre la riduzione dell’instabilità e dell’imprevedibilità concettuale e pragmatica.

Un tale sforzo riorienterà la società e farà sentire i suoi riflessi, nel tempo, anche sul piano del «senso comune».

Giulio de Martino - Professore di storia e filosofia.
Con interessi sia storici che filosofici ha curato le edizioni dei testi di Gian Vincenzo Gravina, Scipione Maffei, Pietro Giannone, Alexander Pope, Vincenzo Russo, Mariano D’Ayala, Giosuè Carducci, Giustino Fortunato.

NOTE

 

[1] –  Aldous Huxley, The Doors of Perception, 1954, ed. it., Milano, A. Mondadori, 1958; Alan W. Watts, Beat Zen, Square Zen and Zen, City Lights, San Francisco, 1959; R. D. Laing, The politics of experience and the bird of paradise, Penguin Books, 1967; Carlos Castaneda, A scuola dallo stregone, 1968, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1970.

[2] Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme nella felicità e del panico nella società distopica, Milano, Mimesis, 2023.

[3] Marshall McLuhan, The Global Village, con Bruce R. Powers, Oxford University Press, 1989; Evgenij Morozov, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Torino, Codice, 2011; Luciano Floridi, The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era, Springer, 2015.

[4] Nassim Nicholas Taleb, The Black Swan, 2007, trad. it., Il cigno nero, Milano, Il Saggiatore, 2008.

[5] Gaston Bachelard, Le Nouvel Esprit scientifique, 1934, ed. it. Bari, Laterza, 1951; Karl Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, 1962, ed. it., Bologna, Il Mulino, 1972; Jean-François Lyotard, La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, 1979; trad. it., La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1981.

[6] Nick Rugai, Computational Epistemology. From Reality to Wisdom, Second Edition, Lulu Press, 2012; Giulio de Martino, Eutanasia del marxismo. Le culture liberali nel mondo che cambia, Milano, Mimesis, 2018.

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