SE L’UMORE E IL PIL NON OSCILLANO ALL’UNISONO

I nostri manuali di storia sono pieni di date di guerre, battaglie, armistizi. Non è un caso, dato che per millenni, da quando la prima scimmia antropomorfa ricevette da un kubrickiano monolite nero “il quid” che l’ha portata a percorrere una diversa via evolutiva, è stato il clangore delle armi a decidere dove dovesse pendere l’ago della bilancia tra popoli e Stati.
«Non c’è pretore tra Stati», sosteneva Hegel, «la guerra è la sola igiene del mondo», commentavano i Futuristi. Il potere militare era ciò che indicava la grandezza di una nazione, e in qualche modo il suo benessere.

Tale assunto rimane certo e indubitabile, dalle popolazioni della Mezzaluna fertile fino al 2 settembre 1945, quando sulla USS Missouri si concludeva l’ultimo grande confronto muscolare tra Nazioni. Da quel giorno, o ancora meglio dall’anno prima a Bretton Woods, una nuova sinfonia suona sullo spartito della Storia.

Se fino al 1945 la spesa militare era stata la principale preoccupazione di tutti gli Stati che volessero mostrarsi potenti agli occhi del mondo, successivamente un nuovo protagonista si è affacciato sulla scena internazionale a stabilire il peso proporzionale di un’entità statale: il PIL.

Un semplice e banalissimo numero, che rappresenta la produzione lorda di una nazione durante uno specifico anno. Per definizione, un numero è un concetto astratto, matematico, immateriale. Eppure, anche se non si può vedere né toccare, il suo peso sulle nostre schiene si avverte non meno di quello del mondo sulla schiena di Atlante.

Un indice, come qualsiasi altra invenzione umana, è neutro, privo di connotati morali. Eppure, le grandi menti dell’economia capitalista, dando per certo l’assunto che l’uomo sia più felice se più consuma (e più produce), hanno ben pensato di propinarci che questo numero misuri il nostro benessere: sul suo altare si offrono leggi, aziende, e lavoratori.

Ci torna utile il concetto gramsciano di egemonia culturale. La classe dirigente, le grandi élite finanziarie, ci hanno convinto che la vita esista in funzione di questo numero (e del suo rapporto col debito pubblico!). Ed è pacifico pensare che sia così: persino nei bar di paese, tra un bicchierino e un “tressette”, è cosa nota.

E così prende forma la grande distorsione che influenza le nostre piccole vite: quella riforma che il nonno attende da anni per il pensionamento, quel decreto che potrebbe incrementare i posti di lavoro disponibili per la zia Franca, quelle manovre da cui verrà indirizzata la tua insignificante vita d’ingranaggio chapliniano, oggi dipendono da uno “zero virgola”, in più o in meno. E ci si potrà mai rivalere su un numero inconcreto? È persino più demoralizzante della lotta contro i mulini a vento di Don Quixote, almeno, loro, si potevano vedere. E allora, secondo ministri, governi, finanzieri e banchieri, andrebbe accettato che il benessere, il nostro stato di salute, dipendano dalle oscillazioni del PIL rispetto alle previsioni.

Dunque di chi è colpa se la stima di crescita dello scorso trimestre è stata poi delusa da una realtà più magra del previsto?
Dei luminari della scienza economica che hanno analizzato erroneamente i dati in possesso?
O del piccolo salumiere sotto casa e delle aziende che stavolta non gli hanno fornito abbastanza prosciutti?

Questioni non di nostra competenza. Ciò che ci riguarda invece, è pensare che il PIL sia davvero considerato il fattore che indica il benessere di un popolo. Chiaro, no? Se siamo felici o meno ce lo dovrebbe dire un freddo numero. Ma allora, lorsignori, nei grattacieli di vetro, ci sapranno anche dire perché il più alto tasso di suicidi e le maggiori diagnosi di depressione maggiore si riscontrano nei paesi ad alto reddito, ovvero i campioni del “benessere pilliano”? E perché, ancora, tra i professionisti della salute la depressione maggiore viene considerata una “patologia dei Paesi ricchi”?

Forse l’assioma «più produci, più consumi e più sei felice» è fallace? Forse la smart TV di ultima generazione da collegare al più aggiornato software di Alexa non è la panacea per la disfunzione monoamminica nel Sistema Nervoso Centrale?

I dati in possesso, pubblicati sulla prestigiosissima rivista Lancet, mostrano che i Paesi con più alta prevalenza di patologie dello spettro depressivo in Europa sono le agiatissime Islanda, Lussemburgo e Germania. Chiunque si approcci allo studio del disturbo depressivo sa bene che nella sua eziologia si incontrano numerosi fattori biopsicosociali: i fattori economici, tra questi, sono solo una parte di un grande e variegato insieme. E il PIL non valuta, per esempio, la qualità delle relazioni affettive o dei ritmi biologici.

Qualcuno ha anche proposto di valutare la felicità di un popolo attraverso altri parametri, come l’Indice di Sviluppo Umano o la Felicità Nazionale Lorda. Ma ciò riconduce sempre allo stesso problema: come si può mai riassumere in un numero la multiformità di ciascuna delle milioni di vite dei cittadini che abitano uno Stato? E chi si sente davvero rappresentato da una serie di cifre? Nessuna frase sembra esprimere più efficacemente questo concetto di quella pronunciata dal grande Sir Arthur Conan Doyle: «Mentre una singola persona è un intrico incomprensibile, nell’aggregato diventa una certezza matematica. O così dicono le statistiche». No, io non mi sento rappresentato da un numero.

«Saremo l’inferno che ci state lasciando», recita questo murales a Roma. E se ribaltassimo la prospettiva? Se è vero che, per chi siede sui “troni” di questo mondo neomercantile, “inferno” è un mondo che non conosca il PIL come ragione di vita, allora si potrebbe rilanciare questa minaccia e affermare che noi ce lo prendiamo tutto, questo “inferno”. Sulle macerie del PIL, potremo forse allora costruire il nostro “paradiso”, il loro “inferno”. Questo mondo lo erediteremo noi, e allora potremmo anche decidere di tenerci un mondo senza PIL, dove la felicità non sia un calcolo statistico.

Se ne può discutere con fiducia. Le tanto bistrattate nuove generazioni hanno una fine sensibilità rispetto alle precedenti: preferiscono difendere l’ambiente piuttosto che la fabbrica, preferiscono una vita ricca di esperienze piuttosto che una carriera scintillante, preferiscono dare peso alle emozioni dell’unica vita disponibile piuttosto che ai beni materiali che nemmeno Mazzarò riuscì a portarsi nella tomba.

Le nuove generazioni sorgono dall’inferno del catrame e del cemento, e scelgono la vita che si prende cura del benessere psicofisico dell’uomo più che del suo reddito. I giovani di oggi scelgono forse la vita, parafrasando e rivedendo Mark Renton. Optano per qualcosa che non si misuri con i numeri, riportando, per così dire, l’uomo al centro, dopo anni di dominio numerico. Potrebbe essere, con vesti che Pico della Mirandola non avrebbe potuto immaginare, la lezione umanistica nel ventunesimo secolo.

Ma mentre “il mondo vecchio” non scompare del tutto, e quello nuovo fatica a nascere, cosa si fa? In una delle sue più importanti hit, Michele Salvemini, in arte Caparezza, ci ricorda che dobbiamo fare ciò che ci fa stare bene. E allora, intanto, l’anno prossimo cerchiamo di stare bene, checché ne dicano le stime del PIL.

«qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.»

Eugenio Montale, I limoni, da Ossi di seppia

Alfonso Tarricone è nato a Corato, nella provincia di Bari, nel 1995.
Dopo la maturità classica ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia all’Università degli Studi di Bari. Attualmente è un medico in formazione specialistica in Psichiatria presso l’Università di Ferrara.
Ha interesse in molti ambiti della cultura, sia “bassa” che “alta”, e alla loro compenetrazione e integrazione.

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