Il bimbo e l'abisso
"Se la carriola dell'irredenzione
avesse un ruolo nell'oblio,
l'alba triterebbe il pensiero
fino a renderlo uno sfregio
sul volto della carne arsa
e lì, lì la mimesis declamerebbe
l'Alleluia dalle iridi tinte
dell'infinito baipassato." -
già sonorizza il bimbo
con le dita all'ombra della luna.
"L'abisso ha la voce della vita
ed un fruscio è il palliativo
delle mura terse, terse del non detto,
per essere lucidate
ove l'acqua si fa cielo
fino all'oceano del sorriso a due denti.
Io non indovino che il lancio
d'uno sciame di grida
e lì si annienta il compianto:
il seno smuore fino a farsi tana
per il soldato ferito allo specchio,
mentre il suo silenzio
è enorme redenzione." -
ribattè a cavalcioni
l'abisso, mentre si faceva cura
per il gioco in lettere rovesciate
del bimbo nascituro alla vita.
Saggiò il calco puro
dello screzio della vita
l'abisso - l'abisso
(lo avverto ancora mentre
il fuoco si quieta in una terra
senza palma di pace) -
e poi morse il fiato,
sparì per rifarsi attimo
d'un punto levigato
sul capo del bimbo:
sparì, si fece punto levigato,
morse il fiato; si compì
in un fiato morso, s'assentò
dalla presenza, s'irrigidì
in un unico punto sulla fronte.
Fu la diaspora ed il bimbo
al silenzio senza abisso:
"Ho incrinato le tue ali
perchè non sia io a crollare
ma il tuo volto al mio mondo.
La tua diaspora."
L'acero
È nel grembo dell'acero
che risiede la tumefazione:
siamo traslati sul muro,
in una scritta larga
che si fionda sul proscenio,
e le carni sono sintesi
di un’iride appena sfumata;
non vediamo.
La sordina di chi bisbiglia
ha già malaugurato il giorno:
è la notte perenne
sulla spiana isolata d'un roveto,
la soglia sul quale sbandiera
l'ultimo viatico in polvere
tra dita coronate dall'abisso;
ci caliamo.
"Io sottraggo un attimo
al retro dell'infinito" .
"Io maneggio l'inciampo
sul sorriso del verso".
La reminiscenza va.
Mito della caverna
Un giorno possedetti
il cucchiaio che mi distava
dalla vita in frantumi,
poi tu venisti, languendo
su un legno atterrito,
ed io sostai finché
non mi murasti le palpebre:
beata cecità - mi sussurravi
con l'ago ed il filo
già andati in malora - beata
cecità di flesse ombre
a schiarire
il dente uncino dell'abisso,
tu sventri il sonno
per farne il divaricarsi della veglia.
Lì capii la strada
da cui risuscitare
oltre il risuscitabile,
perché nella rifrangenza
d'un'anima essiccata alla luce
vi è ancora il maleodore
della morte appena superata.
Le ossa si attunicavano
sul tuo seno da smagrita:
quel pò di poppata, ribattuta
nei granai ove lavavo
il mio corpo di erba tritata,
era già affiorata
ed io non la sorseggiai,
mentre il silenzio straniva
e si catapultava
sul piatto castano dove
ti lasciavi mungere
solo al tramonto.
Ho sempre allontanato i tramonti -
ti sussurravo in ciò che restava
della mia voce e delle mie labbra.
Poi mi hai schiuso dal crogiolo
e, assuefatto all'incavo del buio,
ti ho lasciato sola
alla luce.