Questione di prospettive

Frammento di un diario di bordo per-formativo

Questo contributo nasce per un carissimo amico e compagno di viaggio nel mio travagliato percorso formativo, personale e professionale. All’inizio non aveva alcuna pretesa se non quella di condividere una particolare esperienza di seminario clinico, centrata una serie di vissuti professionali problematici da parte di psicoterapeuti di differente formazione, ciascun vissuto esposto in sette minuti, seguendo il canovaccio dei seminari clinici della Dolto. La conduzione di questa occasione di confronto stimolante e coraggiosa è stata affidata ad un noto psicoanalista, che ha chiesto di non conoscere anticipatamente le sequenze cliniche, esposte in ordine di prenotazione in diretta, on line, e commentate dai colleghi, coordinati da una sala regia. I commenti venivano integrati del conduttore, a mo’ di contrappunto. Il seminario si poneva l’obiettivo di rompere con la tradizione della psicoanalisi come terapia elitaria, per spalancarla al campo sociale, come progetto di apertura – “contro” la chiusura – di inclusione – “contro” l’esclusione – anti-segregativo, “contro” le nuove forme di segregazione ipermoderna.

Il lavoro di un analista deve essere collegato al rumore di fondo della città e al fluire delle dinamiche sociali, sulla scia del così detto “effetto Recalcati”, non va ridotto a mera capacità divulgativa psicoanalizzante, perché ciò che viene spiegato non esaurisce il mistero della comprensione inconscia, ma, anzi, lo rende più evidente. Il processo di soggettivizzazione è la sonda privilegiata per esplorare la teoria e la clinica lacaniana, diventando il criterio che guida il percorso analitico nei tre compiti impossibili indicati da Freud: governare, educare e analizzare.

Tutto questo mi ha riportato alla dimensione nostalgica delle mie prime esperienze di supervisione, collegiali, con Sandro Gindro, condivise con l’amico a cui l’articolo è rivolto e anche con altri che ho finito, purtroppo, col perdere di vista. Forse è stata questa nostalgia, questo nostalgico ritorno al passato, che mi ha spinto ad espormi in prima persona, forzando un po’ la mia natura ritrosa, indolente, per provare a estendere quanto riportato a un ambito che in gergo clinico definiremmo “apertura alla terzietà”. Ma adesso che mi ritrovo, solo e senza scuse, davanti al vuoto perturbante e invitante di una pagina bianca,  a dare forma e testimonianza di quella fiammella di gioia estatica, che solo un certo tipo di psicoanalisi della “domanda” (contrapposta a quella purtroppo vigente della “risposta”) sa riaccendere in tutti quelli che hanno osato superare le colonne d’Ercole imposte da una asettica, rattrappita, devitalizzata ortodossia replicante, mi accorgo con stupore che c’è dell’altro, perché le vie dell’inconscio sono infinite.

Bisogna sempre rinunciare a qualcosa per raggiungere qualcos’altro: questa è la dura legge che ci introduce alla parola nella trama di un discorso inserito in un tessuto linguistico condiviso. Questa legge, di sapore agostiniano, richiede non la sottomissione né la sopraffazione ma l’alleanza con la legge. Non è lo stare “sotto” alla legge, né sopra, ma solo lo stare “con” la legge, che consente a noi miseri mortali di ritrovare “il godimento sulla scala rovesciata del desiderio”.

Forse per questa scelta etica precoce mi sono ritrovato, ancora acerbo, a scrivere il mio primo articolo sulla rivista – manifesto Psicoanalisi Contro, presentata al suo esordio sul palco del Teatro dei Satiri. Proprio in quell’articolo, intitolato “Questa sera è di scena la rivista”, ho cominciato a fare i conti (che non tornavano, non tornano e non torneranno mai) con l’inconscio all’opera. Anche per questo allora come oggi mi sorprendo magicamente, magneticamente attratto dalla parola “contro”, che tanti fraintendimenti e turbamenti ha generato ai vari interlocutori della casta. Anche per questo alla madre chiesa elitaria ed esclusivista preferisco il ritorno alla casa del padre inclusivista, sulla falsariga di Lacan e di altri, come Facchinelli, Gindro e Recalcati, autore dell’occasione di incontro e confronto da cui traggono spunto queste pagine. Per questo non intendo esporre lo sviluppo logico e argomentativo di questi orientamenti, ma piuttosto proporre una lettura della prospettiva etica ed epistemologica su cui si sta adagiando la psicoanalisi contemporanea. In questa chiave di lettura ho cercato di assumere un atteggiamento tipico dell’analista, che non procede con l’addizione e con l’accumulo, ma con la sottrazione, operando tagli e interruzioni nel discorso dell’analizzante in modo che il flusso di pensieri acquisisca una punteggiatura inedita che metta al lavoro l’inconscio, operando con i detriti di quel sapere che viene fatto in frantumi durante un’analisi eticamente, oltre che episticamente, impostata.

A loro e tutti quelli come loro sono debitore per la testimonianza incarnata di passaggio da un transfert immaginario, basato su un Io ideale /oggetto speculare, a uno simbolico, ancorato a un ideale dell’Io/oggetto fallico, per approdare infine ad un transfert reale lavorativo performativo. Quest’ultimo trasfert è centrato sulla sublimazione/oggetto piccolo al di là del principio di piacere, ma anche al di là del padre fondamento/simbolico, per farci avvicinare al padre soggetto/desiderante che affronta la solitudine dell’atto “soggettivante” o, per dirla con linguaggio gindriano, dell’atto ” eroico artigianale”, fondato sulla relazione  con Eros.

In questo seminario di incontro e confronto allargato a una parte della communitas psicoterapica psicodinamica, senza muri di confine, viene fornita una bussola che non garantisce di esser capaci di navigare in mare aperto, o per dirla con Facchinelli, nel “sentimento oceanico”, in quanto una mappa non è il territorio. E’ necessaria l’assunzione singolare e coraggiosa del proprio desiderio affinché ciò che viene trasmesso con la testimonianza possa prendere corpo nell’esistenza del soggetto. E’ il paradosso dell’eredità che Freud ha sintetizzato efficacemente con le parole di Goethe: “ciò che hai ereditato dai padri devi riconquistarlo per farlo tuo”.

Il Nome del padre non è esaustivo ma è propedeutico al Nome proprio del soggetto, in quanto il primo non può sostituire il secondo ed è illusorio farsi un Nome proprio senza passare per il Nome del/dei Padre/i. Per questo la testimonianza paterna va situata più sul piano della sublimazione, scevra dalla sua forma difensiva ma intrisa di quella forza generativa a cui cerca velatamente di dare una forma, invece di appiattirsi sul piano della simbolizzazione metaforica condensata nel “punto di capitone”. Seguendo la prospettiva di Recalcati, di cui non a caso i libri veramente più clinici sono quelli che riguardano l’estetica della psicoanalisi, potremmo accostare la testimonianza a un’opera d’arte, perché il Reale non viene metaforizzato, in quanto il simbolo non uccide la Cosa, ma la rende visibile in filigrana, mostrando un maneggiamento significante del Reale, un modo di costeggiare o bordeggiare il suo resto incandescente, spigoloso ed angoscioso, senza illudersi di esorcizzarlo, estinguerlo o pretendere di poterlo riportare ad un senso Universale.

Nella psicoanalisi lacaniana-recalcatiana-facchinelliana – ma oserei dire anche gindriana – è la necessità-caducità di un rapporto singolare, contingente, con il Reale che diventa ed assurge ad Universale, in quanto il padre deve incarnare la trasmissione della testimonianza di annodamento tra interdizione e donazione, rinunciando a farsi portavoce assoluto del senso della vita a favore della possibilità immanente che la vita possa assurgere ad un senso relativo singolare. Il padre come soggetto non è qualcuno che sa quale bene debba realizzare il desiderio, poiché considera il bene solo nella realizzazione del desiderio come “vocazione” singolare, non in quanto principio morale che orienta e determina la realizzazione del desiderio, piuttosto come movimento etico del non cedere sulla sua stessa realizzazione.  L’ideale aristotelico della virtù mediana, tanto cara alla normalità statistica dominante, lascia il suo posto alla singolarità sempre spiazzante e deviante del desiderio, a mo’ di “ parole di viandante che aman sempre vagare”, anche in un testo di verifica basato su quattro domande aperte contrapposto ai consueti test a risposta chiusa multipla, correlati di un copione  espositivo fatto di una sequenza di slides, invece che a uno stile teatrale di recita a soggetto su un canovaccio di base, più consono alla “ripresa” o all’occasione di ripartenza psicoanalitica.

Sulla falsariga del paradigma del taglio ermeneutico/euristico per sottrazione e non per accumulo, interrompo la mia digressione, per riportare testualmente la testimonianza di un’occasione (non perduta) di fare della necessità universale –  statale, formativa, formale, quantitativa, a punti linear – un’occasione qualitativa di ripresa-rilancio, singolare, pulsionale, performativo, spiraliforme. Ecco qui lascio la scena al resoconto finale di questo seminario che ha rimesso di nuovo al lavoro quello che il nostro compianto maestro Gindro definiva inconscio sociale, cioè un inconscio che non sta in me e/o altrove di me nell’altro, ma oltre, cioè tra me e l’altro. Da questa formulazione deriva la fondazione postuma dell’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali: il resto è “en-core” in atto, e questo contributo lo dimostra.

Prima domanda: elenca i capisaldi della tecnica psicoanalitica nella conduzione del caso clinico.

Parafrasando Recalcati nello schema per la costruzione del caso clinico possiamo usare, come una bussola, 4 punti cardinali. Il punto cardinale “A” indica l’Altro, del linguaggio e della parola, pertanto nella formulazione del caso clinico bisogna considerare il rapporto tra il soggetto e l’Altro, e sondare fino a che punto il soggetto può esprimere la propria soggettività, cioè fino a che punto sia separato, o invece quanto è assoggettato, cioè alienato. Il punto cardinale “I” si riferisce all’identificazione, sia dal versante costituente, come matrice ininterpretabile della singolarità, che dal versante costitutivo, come tratti interpretabili che il soggetto condivide con altre persone significative che ha incontrato nel corso della vita. Il punto cardinale “D” rappresenta l’iniziale di Desiderio, ma anche della Divisione soggettiva, in quanto il desiderio è il modo in cui viviamo la divisione soggettiva, riportando l’attenzione sul duplice versante del desiderio dell’Altro o desiderio d’Altro, vedendo in che modo si articola il bisogno reale del grido alla domanda simbolica del dono e la domanda al desiderio, cioè è il desiderio che non si appaga nella dialettica del riconoscimento e che si configura piuttosto come desiderio d’Altro.  Il punto cardinale “(a)” indica l’oggetto piccolo (a), cioè questo resto residuale alla soddisfazione della domanda al di là della domanda stessa, ma nella costruzione del caso clinico ci guida anche nel delineare l’economia libidica del soggetto, con le sue spinte, fonti, mete, oggetti su cui ruota in torsione spiraliforme, nonché il modo in cui pulsione e amore convergono o si scindono.

Seconda domanda: l’importanza della gestione del transfert. Porta un esempio clinico.

Recalcati trova nella formula lacaniana transferenziale del “tacere l’amore” un centro di gravità permanente della sua prassi clinica, che non esiste senza amore. Parafrasando un detto giuridico, questa forma di transfert potrebbe essere considerata un silenzio, tacito assenso dell’analista alla soggettività dell’analizzante. Questo dono che l’analista è tenuto a fare in ogni seduta può essere basato sull’instaurarsi di un transfert simbolico che, a sua volta, si fonda sulla trasformazione del grido disperato di bisogno reale impossibile, insopportabile ed inesprimibile  in domanda di cura, impregnata nella dimensione immaginaria, per poi tramutarsi in domanda di sapere su un piano prevalentemente simbolico, legando così il bisogno alla domanda e la domanda al desiderio dell’Altro, per poi tendere oltre ed altrove verso il desiderio d’Altro, ma non senza l’Altro. Questa mutazione transferenziale trova una collocazione esclusiva in una direzione della cura centrata sull’etica del non cedere al desiderio, priva di ogni implicazione moraleggiante, estetica, epistemica, che richiede da parte dell’analista una “postura” da amante non dichiarato, evocato dalla figura del Maestro Zen. L’esempio clinico può essere evocato dalla sequenza didascalicamente definita “Branduardi” da Recalcati nel corso del seminario clinico, in cui l’attrazione magnetica del desiderio è tutta sbilanciata dalla parte dell’analista verso l’analizzante e non viceversa, eludendo il dono dell’ascolto e del silenzio, dono che avrebbe potuto calamitare il transfert motore della cura, spezzando il giogo del punto fermo della “replica” rilanciandolo in punto mobile di “ripresa”.

Terza domanda: esponi sinteticamente il rapporto tra sintomi, diagnosi e trattamento del caso clinico.

Nella pratica psicoanalitica il caso clinico non riflette la regola, si configura sempre come un’eccezione.  Nella diagnosi psicoanalitica lacaniana la logica dell’uno per uno è finalizzata a includere il carattere contingente e irripetibile dell’incontro con la singolarità del paziente. Nella costruzione del caso clinico il fantasma inconscio del soggetto costituisce il luogo dove la dimensione universale della struttura entra in rapporto con l’elemento singolare che contraddistingue il soggetto. Nella prospettiva recalcatiana la conduzione del caso clinico implica che l’attenzione venga orientata su due versanti del soggetto dell’inconscio: la pulsione e l’intersoggettività, cioè rispettivamente sui modi di godimento del soggetto, ossia la replica della coazione a ripetere del sintomo, ed il rapporto del soggetto con l’Altro, ossia il desiderio di riconoscimento e le relative vicissitudini delle identificazioni. Da qui la particolare insistenza di Recalcati sull’incalzare i partecipanti al seminario clinico a essere più “spudorati” nel setting, ovviamente a livello esplorativo sull’area delle varie forme di godimento personale.

Quarta domanda: fai un esempio di direzione della cura in rapporto a una particolare struttura di personalità (ad esempio ossessiva, isterica, psicotica).

Tra gli schemi performativi con cui Recalcati ha ricostruito il campo freudiano-lacaniano riporto quello relativo alle tre declinazioni della struttura psicotica, essendo rimasto folgorato dall’ultima sequenza, centrata su un delirio erotomone antitetico all’innamoramento. Nella paranoia il postulato fondamentale è il postulato di innocenza: l’oggetto è il senso e il delirio è sistematico/semiotico, esistendo un rapporto inversamente proporzionale tra innocenza personale e colpevolezza inconfutabile ed antidialettica dell’alterità, immerso in una semiosi infinita delirante. Nella schizofrenia il postulato fondamentale è il postulato dell’inesistenza, l’oggetto è il corpo e il delirio frammentato è di dissoluzione identitaria. Il delirio schizofrenico non è semiotico ma somatico, in quanto ristagna nel corpo e non è separato dal corpo. Nella melanconia il postulato fondamentale è un postulato di indegnità, l’oggetto è la dimensione dell’esistenza e il sentimento stesso della vita, il contenuto è morale, o, meglio, la declinazione particolare del delirio morale, in quanto la colpa non rimanda a un cedimento sul proprio desiderio, assumendo i connotati del senso di colpa, come nella nevrosi, ma diventa colpa inesauribile di esistere o dolore lancinante di esistere, di cui può rimanere traccia residuale nella “cicatrice malinconica” evocata da Recalcati. Come esempio di direzione della cura con un caso di sospetta struttura psicotica modificherei il motto giuridico “di presunta innocenza fino a prova contraria” in “presunta psicosi fino a prova contraria”, da utilizzare come costellazione di riferimento nella buia notte della nostra quotidiana prassi clinica, in cui siamo sartrianamente soli e senza scuse, soprattutto nello spazio/tempo intermedio dei colloqui preliminari, che delimitano il tempo/spazio  tra le due porte dell’analogia sulla presa in carico formulata  da Colette Soler e ripresa da Recalcati nel precedente seminario sulla direzione della cura. Presa in carico che con questi casi ci costringe a ripiegare su un percorso psicoterapico ad orientamento psicoanalitico di supporto/supplenza senza tregua, certamente complesso e pieno di insidie, ma fondamentale ed indispensabile, circoscritto in questo spazio intermedio in un tempo infinito senza poter mai valicare la soglia psicoanalitica della seconda porta.

FONTE FOTO: PIXABAY

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