L’attuale drammatica situazione dell’Afghanistan pone l’Europa e l’Italia a fronte di scelte cruciali, e da come verrà affrontata oggi tale complessità (ed anche e forse soprattutto se verrà realmente affrontata) dipendono il futuro del diritto d’asilo e del diritto all’accoglienza. E con essi, le fondamenta etiche, politiche e sociali del consorzio europeo.
La tutela della popolazione afghana non può essere circoscritta alle sole poche migliaia di persone che sono giunte in Europa con le concitate e drammatiche operazioni di evacuazione degli ultimi giorni, i voli sono ora terminati. Le testimonianze dei rastrellamenti porta a porta a Kabul o delle violenze ai check point delle milizie taliban testimoniano una massiva persecuzione verso chi, per ragioni politiche, culturali, di genere, è considerato nemico ed è tragicamente impotente davanti alla violenza senza possibile tutela e senza diritti [1].
Altre migliaia di afghani e afghane, riusciti a filtrare attraverso i confini terrestri e a mettersi in viaggio negli ultimi mesi e anni, sono respinti ai confini dell’Europa dalle polizie di frontiera o sono intrappolati lungo le rotte che portano al rifugio, ad esempio lungo i Balcani o in Grecia, alla mercé di trafficanti e smugglers. Ad oggi non possono proseguire né rientrare. Erano già quasi 5 milioni gli sfollati afghani, più di 3 milioni internamente e più di 2 milioni già nei paesi limitrofi, Pakistan e Iran, prima della crisi di agosto, di questi 500mila solo negli ultimi mesi [2].
La crisi afghana ha radici profonde anche nel tempo. Nell’ultimo decennio i paesi europei (con l’eccezione, stavolta positiva, dell’Italia) non hanno tuttavia riconosciuto la protezione internazionale se non ad una minoranza di richiedenti asilo afghani (in Croazia e Bulgaria il tasso di riconoscimento è minore del 10%, in Slovenia del 25% [3]), nella illusione (o forse menzogna) di un paese finalmente pacificato e sicuro; perpetrando sino agli ultimi mesi i rimpatri forzati dei richiedenti diniegati, tra cui 15mila donne. Germania e Olanda hanno sospeso i rimpatri lo scorso 11 agosto [4]. Eppure anche l’agenzia Unama (United Nations Assistance Mission in Afghanistan) ha puntualmente monitorato la continuità delle violenze sui civili, arrivando lo scorso luglio a parlare di una crescita “senza precedenti” [5] della violenza sui civili tra gennaio e giugno 2021: più di 5000 morti.
Pur tralasciando in questa sede una dettagliata analisi delle responsabilità storiche degli ultimi vent’anni di guerra in Afghanistan, va osservato come l’UE, i suoi paesi membri e l’Italia abbiano assistito inerti prima al consolidarsi di una situazione di guerra endemica poi al degenare della situazione in una escalation di violenza sulla popolazione civile. Nel mentre hanno perpetrato anche verso gli afghani politiche di esternalizzazione dei confini, di respingimento ai confini, di diniego del diritto d’asilo, delegando ogni responsabilità ai paesi limitrofi.
Lo stesso Consiglio dei Ministri degli Interni degli stati membri dell’unione, lo scorso 31 agosto, non ha assunto alcun impegno ad accogliere i cittadini afghani in fuga, confermando quale obiettivo prioritario la “difesa” dei confini europei e il contrasto degli ingressi non autorizzati. Occorre però ribadire che anche nel contesto della crisi afghana (al pari di tutte le altre ad essa contestuali o che l’hanno preceduta: Siria, Tigrai, Libia ecc.), senza canali migratori legali, senza programmi di evacuazione, senza politiche dei visti (l’ufficio visti a Kabul era chiuso da oltre un anno), senza politiche sui ricongiungimenti familiari, o su “corridoi umanitari” da paesi di transito, gli “ingressi autorizzati” non sono prevedibili perchè non sono, letteralmente, possibili.
Questa realtà forse banale ma incontrovertibile, manifesta nuda la responsabilità dell’UE e degli stati membri, senza più infingimenti a coprirla. Gli strumenti, anche giuridici ci sono, a partire dall’attuazione della direttiva CE 55 del 2011 che individua le norme per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli stati membri che li accolgono.
Occorre tuttavia uno sforzo inedito e in controtendenza rispetto al passato nella produzione – a fonte della catastrofe umanitaria in atto – di un insieme di politiche organiche e coordinate, che, ripercorrendo l’analisi iniziale sulle diverse condizioni dei cittadini afghani (rimasti in patria, sfollati, in viaggio e qui), sappiano coniugare un intervento umanitario urgentissimo e misure efficaci “qua”, attraverso programmi di ingresso protetto, concerto europeo nelle responsabilità di accoglienza e – qui da noi – una accoglienza non più emergenziale, ma organizzata nel sistema pubblico SAI e attraverso questo, radicata nei servizi che tale accoglienza necessita, scolastici, sanitari, formativi dei territori.
La crisi afghana ha rivelato un fatto in parte inatteso: una ampia e profonda partecipazione solidale di ampi strati della società. Una solidarietà che pressoché ovunque, in Italia, assume forme concrete: offrire alloggi, disponibilità di accogliere in casa propria, di pagare studi, di mettersi in gioco. Una solidarietà riconosciuta indirettamente anche nelle circolari del Ministero degli Interni alle Prefetture locali, in cui si legge “preme rilevare la disponibilità manifestata a partecipare solidaristicamente all’ospitalità”. Le responsabilità dello stato non possono essere delegate ai privati cittadini. Piuttosto una comunità ricettiva e solidale è un fattore fondamentale nel qualificare l’accoglienza pubblica e nel tutelare chi ne beneficia. Con essa deve dialogare questo moto di solidarietà spontanea.
Un moto che sarebbe banale definire già oggi “emotivo” e effimero, perché ha (anche) una indiscussa valenza politica: nega nel suo stesso manifestarsi l’affermazione circa l’ineluttabilità delle politiche restrittive alla protezione e all’accoglienza giustificate dal principio sovranista che assume la popolazione contraria e ostile alle popolazioni sfollate.
In conclusione: sarebbe possibile non assistere impietriti e impotenti a questa ennesima tragedia. Tale possibilità non è semplice e implica un profondo ripensamento critico delle politiche internazionali e nazionali. Svelandone il fallimento, l’urgenza di tutela e protezione della popolazione, potrà dar vita a un cambiamento reale e ad nuova narrazione?
L’accoglienza degli afghani a Parma
Nel progetto di associazione che riguarda Ciac la tutela, la protezione e l’accoglienza sono funzioni che emergono dalla capacità dell’associazione stessa di dialogare direttamente sia con i rifugiati, sia con le istituzioni che con la comunità. Non solo quindi “pratiche” esperte e professionali in una dimensione squisitamente “tecnica” rivolta ai soli “beneficiari”, ma anche una azione che trattando di diritti, contempli sempre una dimensione pubblica, politica e culturale al tempo. Anche nella crisi afghana, l’intervento complessivo ha provato a costruire questo dialogo su più fronti con più interlocutori: verso i cittadini afghani, certamente ma anche verso i comuni e le istituzioni del territorio per costruire le prospettive di continuità e verso le comunità tutta, che nell’occasione di questa crisi ha manifestato una forte solidarietà e vicinanza.
L’impegno di Ciac sul tema Afghanistan è così consistito, nell’ambito della provincia di Parma dove opera come ente di tutela, in una attivazione straordinaria su più aspetti. In primis, e nei pochi giorni antecedenti il termine del 31 agosto, ossia prima che finissero i voli, nel raccogliere i nominativi delle persone in pericolo all’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri e facilitarne, se possibile, l’evacuazione. Sono state segnalate dalla provincia di Parma più di 300 persone, parenti, familiari dei rifugiati afghani presenti sul nostro territorio. Questo intervento, urgente e complesso, considerando l’angoscia dei molti rifugiati afghani per i propri parenti e familiari in pericolo non è stato chiaramente un mero servizio burocratico: si è svolto fianco a fianco con la comunità afghana, in un clima emotivo dove speranza e disperazione si alternavano sulle notizie – sempre più drammatiche – provenienti dai parenti stessi via telefono o social, bloccati all’aeroporto o dai nascondigli dove alcuni avevano cercato possibile salvezza o riparo, un flusso di notizie ha scandito l’evolversi della crisi. Molti rifugiati giunti a Parma negli scorsi anni hanno garantito nei giorni e nelle settimane dedicato a queste operazioni, un contributo fondamentale, supportando operatori e mediatori Ciac affinché questa operazione avvenisse con grande cura di tutti gli aspetti, anche emotivi e psicologici, ad esso connessi: dalla percezione della propria impotenza verso i propri cari, dal senso di colpa (dei sopravvissuti) che necessariamente si manifesta in queste occasioni, alla attesa di notizie dai propri congiunti. Particolarmente drammatica la condizione di chi aveva effettuato tutto l’iter del ricongiungimento familiare (magari da molto tempo), ed attendeva i visti, una attesa che il rapido volgere degli eventi ha rivelato vana.
Nell’ambito dell’accoglienza pubblica SAI, particolare attenzione è stata data al sostegno a chi arrivato via terra negli scorsi mesi o settimane riuscendo a completare la fuga verso l’Europa, spesso con drammatici viaggi lungo la Balkan Route o attraverso la Grecia, ma separandosi dai familiari; ed in particolare a chi, nei drammatici giorni di agosto ha avuto lutti. Tra questi, un giovane richiedente asilo da poco tempo in Italia e da pochissimi giorni sul nostro territorio è stato raggiunto dalla notizia dello sterminio della sua intera famiglia ad un check point delle milizie taliban. Altri ancora hanno perso amici, conoscenti, parenti. A fronte di simili tragedie, individuali e collettive al tempo, la partecipazione, il supporto, il sostegno devono trovare forma ed espressione concreta, immediata, ma mai semplice. Oggi a Kabul, ieri, oggi e domani in Libia, Nigeria, nel Tigrai, in Siria, in Somalia – chi vive in prima persona il dolore causato dalle guerre, dalle persecuzioni, dagli atti di terrorismo, porta un bisogno non solo di accoglienza ma anche di riconoscimento, spesso trascurato dalle politiche dello stato e dal funzionamento dei servizi.
Nell’immediatezza dell’arrivo di diversi nuclei afghani evacuati da Kabul e inseriti nei covid hotel della provincia per le quarantene preventive, Ciac è intervenuto per portare operatori legali e mediatori culturali, per l’orientamento e per rendere possibile l’intervento sanitario di Ausl Parma e alla Protezione civile. Le convulse operazioni, probabilmente, hanno portato a una scarsa organizzazione delle prime urgenti operazioni di ospitalità e i nuclei familiari necessitavano di beni di prima necessità, trovandosi esattamente come avevano lasciato l’aeroporto di Kabul: necessitavano di vestiti, alimenti per i neonati, occhiali e scarpe, persi nella precipitosa fuga, ma anche sigarette, caricabatterie per contattare chi era rimato in patria, prodotti per l’igiene. Necessitavano anche e soprattutto di orientamento: capire dove erano e cosa sarebbe successo, cosa mangiare e come comportarsi qui, dove erano in quarantena preventiva, in albergo, con tanti bambini e qualche persona anziana. L’intervento degli operatori legali e mediatori di Ciac hanno permesso di instaurare sin da subito un dialogo, su aspetti quotidiani (le taglie dei vestiti, i cibi, gli spazi per il gioco dei bambini), sugli aspetti sanitari per chi ne ha avuto bisogno, così come sulla comprensione del percorso di asilo e di accoglienza. Uno stretto e auto-organizzato coordinamento con Ausl, Protezione civile, Croce rossa e anche un Comune (Sissa-Trecasali) che ha voluto manifestare la propria solidarietà consegnando al nucleo quanto la disponibilità dei propri cittadini aveva immediatamente raccolto, ha permesso anche in questo caso una risposta pronta, attenta e sensibile; volontaria, ma professionale.
Parallelamente, unitamente ai Comuni della Provincia abbiamo provato a costruire la prospettiva di un ampliamento del sistema pubblico Sai, per una risposta organizzata e strutturata e non emergenziale, ma anche a rilanciare con gli stessi comuni la nostra iniziativa dei mesi scorsi circa i corridoi umanitari [6] per chi, non solo afghano, si trova lungo la rotta, bloccato alle frontiere dell’Europa e spesso, troppo spesso alla mercé di trafficanti e speculatori. Insieme al coordinamento “la civiltà dell’accoglienza” che riunisce in rete l’associazionismo etico parmense abbiamo promosso verso Prefettura e Enti locali, un coordinamento territoriale interistituzionale – da tempo ahinoi sospeso – perché una situazione simile necessita più che mai di luoghi di governance pubblica, per una programmazione congiunta e per una piena trasparenza di metodi e azioni. Dobbiamo infatti considerare che i bisogni di accoglienza e tutela legati alla crisi afghana intervengono su una realtà in cui molti rifugiati di diverse provenienze si trovano in condizioni di bisogno.
Sabato 28 agosto insieme alla stessa comunità afghana [7] è stata organizzatala partecipazione ad una manifestazione pubblica, che ha visto una forte partecipazione. Nell’ambito dello sportello Immigrazione Asilo e Cittadinanza di Ciac è stata infine prevista l’attivazione di un numero speciale per raccogliere e coordinare le disponibilità di chi, privato, enti, voleva mettere disposizione alloggi, ospitalità in famiglia, azioni solidali. Questo per far sì che questo fondamentale moto di solidarietà fosse valorizzata ma non lasciata sola a supplire alle responsabilità dello stato, e potesse partecipare invece al sistema di accoglienza pubblico, qualificandolo.
A fronte di una immensa tragedia umanitaria, pur nella consapevolezza che queste azioni sono evidentemente sproporzionate al suo cospetto, riteniamo tuttavia significativo che Ciac, le sue competenze, abbia saputo creare e attrezzare uno spazio, anche fisico, accessibile e agibile da rifugiati, cittadini parmigiani, istituzioni e privati. E che in quello spazio, ciascuno di questi abbia potuto in qualche modo incontrare una diversa concretezza e dialogo, costruendo una qualche prospettiva comune, in modo non separato. Pensiamo a questa dinamica come un piccolo ma significativo spazio di tutela e di libertà, di contrasto al senso di impotenza e di isolamento che queste tragedie spesso portano con sé.
In realtà molto è possibile fare, anzi necessario e doveroso fare e ci riconosciamo nelle proposte del Tavolo Asilo e Immigrazione cui partecipiamo e che con un documento ricorda come gli strumenti esistano, ma serva una chiara volontà politica [8].
Note
[2] https://www.unhcr.org/afghanistan.html
[4] https://www.open.online/2021/08/11/germania-stop-rimpatri-afghanistan/
[7]https://www.gazzettadiparma.it/parma/2021/08/28/news/_le_donne_afghane_esistono…
[8] https://altreconomia.it/le-proposte-del-tavolo-asilo-per-proteggere-le-persone-in-fuga-dallafghanistan/