All’inizio del ventesimo secolo le cure psichiatriche si praticavano all’interno di manicomi, perlopiù statali, che si occupavano di persone provenienti da famiglie povere, o in piccoli manicomi privati per i più agiati. Oltre all’aspetto custodialistico e alle varie modalità di contenzione fisica, il trattamento consisteva nell’allontanamento dagli ambienti di vita e nella routine strutturata dell’ospedale, dove poter approdare a un impegno lavorativo rappresentava un segno di evoluzione. Nel contempo c’era un acceso dibattito su ipotetici fattori biologici dei disturbi mentali e forte era l’aspirazione a trattamenti fisici che potessero “curare la malattia”. Si susseguirono una serie di tentativi estremamente invasivi e poco sicuri. Il principio che li sosteneva era quello “dell’antagonismo reciproco tra alcune malattie e che alcune condizioni mentali potessero essere invertite o eliminate introducendo un altro tipo di malattia”. Negli anni venti fu introdotta la terapia malarica, alla fine degli anni trenta la terapia del coma insulinico e successivamente, all’inizio degli anni quaranta, lo shock indotto elettricamente. Queste terapie vennero largamente e lungamente utilizzate e furono celebrate dalla scienza dell’epoca, al punto che lo psichiatra austriaco Wagner Jauregg ebbe il premio Nobel per la medicina per l’introduzione della terapia malarica, malgrado si trattasse di una “terapia” che aveva scarsa evidenza di efficacia e un rischio di mortalità che si aggirava intorno al 5-10%. È interessante notare come anche riguardo a questo tipo di cure si cercava di individuare la specificità biologica relativa al processo patologico da “sanare”. Lo psichiatra Manfred Sakel “sosteneva che la terapia del coma insulinico uccideva selettivamente le cellule cerebrali ammalate come una microchirurgia fine”. Anche per la terapia elettroconvulsivante, per altro ancora ampiamente utilizzata, fu proposta l’ipotesi che producesse un’inversione dei “circuiti cerebrali disfunzionali”. Soprattutto l’introduzione delle terapie del coma insulinico, dell’elettroshock e della lobotomia diede forza all’idea di avere nuove procedure fisiche che potessero essere considerate efficaci strumenti per la cura delle malattie mentali e che fosse possibile la trasformazione dei manicomi in veri e propri ospedali, come quelli per le altre patologie di interesse medico.
Fu grazie agli studi del medico francese H. Laborit, un chirurgo che si occupava dello shock chirurgico (motivo di grave complicanza post-operatoria, peraltro con studi che si basavano su teorie piuttosto screditate e che miravano a realizzare tecniche di prevenzione che risultarono poi pericolose), che emerse l’efficacia sui sintomi psicotici della Clorpromazina. Questa molecola fu utilizzata, per le sue proprietà anti istaminiche, in un cocktail di farmaci che mirava a ottenere una “ibernazione artificiale” che avrebbe dovuto prevenire lo shock chirurgico. Fu nel corso di queste sperimentazioni che fu notata, da Laborit e altri, la qualità sedativa della Clorpromazina e nacque l’idea che questa sarebbe potuta essere utilizzata per tranquillizzare i pazienti psichiatrici.
Dopo che fu sintetizzata dall’azienda francese Rhone-Poulenc, la Clorpromazina cominciò a essere sperimentata sia direttamente da una psichiatra, la quale ne volle fare esperienza su se stessa, sia da altri psichiatri in ambito clinico. La prima descrisse gli effetti come un “estremo senso di distacco da se stessa e dagli altri” e un forte ottundimento senso-percettivo. Successivamente Jean Delay e Pierre Deniker, psichiatri dell’ospedale Sant’Anna di Parigi, utilizzarono il farmaco in vari tipi di eccitazione psichica, con una buona efficacia soprattutto in casi di stato confusionale (piuttosto che di disturbo schizofrenico). Vi sono dettagliate descrizioni sullo stato dei pazienti che assumevano questi farmaci, che non possiamo in questa sede riferire nel dettaglio. Ciò che voglio sottolineare è che oltre alla riduzione di alcuni sintomi psichici il farmaco influiva sulla persona determinando appiattimento emozionale, riduzione dell’iniziativa e della capacità di rispondere alle sollecitazioni ambientali, oltre a un effetto analgesico caratterizzato da indifferenza al dolore. Il farmaco in seguito si diffuse in altri Paesi, tra cui gli USA dove si manifestò il maggiore “entusiasmo” per la sperimentazione della nuova molecola e dove furono sottolineati gli effetti positivi su numerosi condizioni considerate psicopatologiche.
SCARICA GRATUITAMENTE IL NUOVO NUMERO DI DROMO
È importante sottolineare il fatto che in questa fase nessuno psichiatra considerasse l’idea che la Clorpromazina, e altri farmaci che iniziavano a essere sperimentati, potessero agire in modo specifico sul processo neuropatologico della malattia. Vi era piuttosto l’idea che le molecole avessero diversi effetti a livello neuropsichico e neuromotorio che potevano essere utilizzati nell’affrontare una serie di quadri clinici. Questo modo di vedere (modello centrato sul farmaco) ha determinato che le osservazioni riguardanti la sperimentazione considerassero con grande attenzione tutti gli effetti prodotti dal farmaco, sia quelli ritenuti utili sia quelli problematici che cominciarono a emergere. Fra questi assunse evidente importanza una sindrome associata alla Clorpromazina, caratterizzata da movimento ridotto e limitato, che assomigliava ai sintomi del morbo di Parkinson. Altri disturbi descritti furono uno stato d’irrequietezza motoria (acatisia) e una distonia acuta, costituita da uno spasmo dei muscoli della testa e del collo. Per necessità di sintesi citerò un articolo di Deniker del 1960 in cui lo psichiatra francese mette in luce il nesso fra uno stato neurologico simile al parkinsonismo post-encefalitico e l’efficacia clinica dei neurolettici: “Sembrano pietrificati, di solito sono indifferenti a se stessi e al loro ambiente, sono in uno stato stuporoso o frustrati, ben prima che compaia il sintomo clinico dell’ipertonia”; secondo Deniker queste manifestazioni precedono l’efficacia clinica e aggiunge che “è necessario puntare in modo risoluto e sistematico a produrre sindromi neurologiche per ottenere gli esiti migliori”. Il modello centrato sul farmaco è stato sinteticamente definito nelle conclusioni di un simposio del 1955 dove si affermava che la Clorpromazina poteva essere utilizzata per ottenere un effetto neurofarmacologico, non per curare una malattia.
Negli stessi anni cominciava a maturare, soprattutto negli USA, un’idea molto diversa dell’azione degli psicofarmaci, fino ad allora chiamati tranquillanti maggiori o neurolettici, cioè che questi colpissero il processo schizofrenico e avessero un effetto specifico sui meccanismi schizofrenici di base. Già nel 1955 il presidente della Società di Psichiatria Biologica degli USA affermò che i nuovi farmaci erano in grado “di cancellare i sintomi dei pazienti psicotici così come gli internisti possono usare l’insulina per l’eliminazione dei sintomi del diabete”. Il primo articolo in cui compare il termine “antipsicotico” risale al 1962: questi farmaci vengono definiti come capaci di antagonizzare i principali sintomi psicotici, distinguendoli dagli altri tranquillanti che miglioravano soltanto il sintomo dell’ansia. In molti mostravano sicurezza sul fatto che si sarebbero sviluppati agenti specifici capaci di agire sull’eziologia dei sintomi piuttosto che solo su di essi.
Il momento di svolta che determinò l’affermarsi del modello dell’azione del farmaco centrato sulla malattia è legato a uno studio del 1964, finanziato dall’Istituto Nazionale di Salute Mentale (NIMH) degli Stati Uniti, dove si affermava di aver dimostrato l’azione specifica sulla malattia dei nuovi farmaci per la schizofrenia. Nello studio si dimostrò non solo la maggiore efficacia dei tre farmaci fenotiazinici (una delle categorie di antipsicotici) rispetto al placebo, ma anche il fatto che essi agivano sui sintomi schizofrenici più basilari tra cui l’incoerenza del linguaggio, il ritiro sociale e l’apatia, le allucinazioni uditive e i vissuti persecutori. Gli effetti neurologici e neuromotori furono derubricati a effetti collaterali e furono considerati non direttamente collegabili alle loro proprietà terapeutiche.
In poco tempo, dai primi anni cinquanta al 1960 la psichiatria ebbe i suoi “proiettili magici”. Dopo l’avvento della Clorpromazina (1952) comparve sulla scena clinica il Meprobamato (1955) che inaugurò la categoria dei tranquillanti minori, poi rapidamente sostituito dal Clordiazepossido. Questi farmaci mostravano un potente effetto miorilassante e ansiolitico ed ebbero un immediato successo di mercato (nel 1975 nei soli USA si raggiunsero 103 milioni di prescrizioni). Fu nel 1957 che comparve il primo farmaco per i pazienti depressi, l’Iproniazide, soprannominato “energizzante psichico”. Questi progressi della psicofarmacologia generarono un grande entusiasmo creando la convinzione, nei medici e nel pubblico, che, sull’onda dei successi ottenuti in molti campi della medicina, anche la psichiatria si avviasse a collocarsi come solida disciplina medica che si occupava di specifiche malattie con origine biologica ben definita e che fosse dotata di strumenti di cura mirati ed efficaci. Fu sempre in questi anni che negli USA si stabilì quell’alleanza fra i medici, che assunsero una posizione privilegiata nella società americana anche grazie a un atto approvato dal Congresso nel 1951 che decretava l’obbligo di prescrizione medica per la maggior parte dei nuovi farmaci, e l’industria farmaceutica. Ciò che avvenne in effetti fu che l’American Medical Association (AMA) ridusse la propria funzione di controllo di qualità sui farmaci di nuova introduzione, abbandonò il ruolo di “cane da guardia” (R. Whitaker) e iniziò a lavorare fianco a fianco con l’industria farmaceutica per promuovere nuovi farmaci.
“La storia della ricerca sulla schizofrenia è disseminata di scheletri di ipotesi chimiche” (Iversen 1998). Di volta in volta l’attenzione passò dagli ormoni tiroidei, agli ormoni sessuali, alla serotonina, e, più di recente, al glutammato. La teoria dopaminergica, tuttavia, è quella che si è maggiormente affermata e ha mostrato una tenuta nel tempo. Tale ipotesi propone che la schizofrenia sia causata da un eccesso di attività della dopamina, più precisamente la malattia sarebbe causata da un’eccessiva attività di questo neuromediatore nella zona del cervello detta sistema limbico, correlata a una sua ridotta attività nella corteccia. In realtà questa conclusione, che appare contraddittoria nella sua formulazione, non sembra in grado di rendere conto della complessità delle funzioni cerebrali. Peraltro, i dati delle numerose ricerche che hanno avuto come oggetto questa teoria sono così articolati e ricchi di contraddizioni che possiamo affermare che non vi è nessuna fondata conferma della teoria. Vi sono buoni motivi per ritenere che la teoria sia nata e si sia mantenuta nel tempo perché quella maggiormente corrispondente alla necessità di fondare la diagnosi e la terapia psichiatrica su una specifica ipotesi fisiopatologica.
Fin dall’inizio dell’uso della Clorpromazina, e poi successivamente degli altri cosiddetti antipsicotici, emersero dei problemi clinici di un certo rilievo che furono derubricati come effetti collaterali ma che, per la loro rilevanza, non poterono essere nel tempo trascurati. Oltre ai già citati parkinsonismo, acatisia e distonia acuta, furono descritti dei movimenti involontari duraturi, in particolare della bocca e del viso, che potevano iniziare già alcune settimane dopo l’inizio del trattamento e più spesso in persone sottoposte a un trattamento a lungo termine. Negli anni sessanta la sindrome caratterizzata da questi disturbi neuromuscolari fu riconosciuta da scienziati e clinici di diverse nazioni e fu proposto il termine di “discinesia tardiva”. Compariva dopo un tempo generalmente lungo di terapia con neurolettici e persisteva o peggiorava anche dopo la sospensione della terapia. Negli anni ’67-’68 lo psichiatra americano George Crane pubblicò alcuni articoli che sostenevano che ¼ dei pazienti degli ospedali psichiatrici soffriva di discinesia tardiva, in molti casi irreversibile. Questo disturbo fu considerato da alcuni come una vera e propria encefalite chimica che determinava un danno cerebrale e si accompagnava a un declino intellettivo. La discinesia tardiva è stata oggetto di molte controversie: in ambito psichiatrico alcuni tesero a minimizzarne l’incidenza e la gravità, altri a sottolineare come fosse un aspetto di un più ampio “processo neurotossico cronico indotto dai neurolettici”. I forti dubbi sull’effettiva sicurezza dei neurolettici in uso, aprirono, nel mondo scientifico e nell’opinione pubblica colpita anche da cause di risarcimento vinte da numerosi pazienti, la strada alla comparsa di una nuova generazione di farmaci che avevano un minore impatto sul sistema extrapiramidale, responsabile dei disturbi neuromotori.
È importante mettere in evidenza, a questo punto, gli aspetti critici che caratterizzano gli studi controllati randomizzati che hanno dominato la ricerca sui trattamenti psicofarmacologici e che sono andati a costruire le evidenze di efficacia: la controversa definizione della diagnosi; le misurazioni degli effetti fatte attraverso scale di valutazione che includono fattori diversi, non specifici di una sindrome psicotica; le diverse opinioni sulla definizione di remissione; i problemi legati all’impossibilità di utilizzare il “doppio cieco” viste le evidenti alterazioni fisiche e mentali generate dai farmaci neurolettici. Si aggiungano a questo le molteplici denunce che hanno sottolineato la possibilità, per le aziende farmaceutiche, di non pubblicare gli studi che davano risultati “non soddisfacenti”. Gli aspetti però più significativi che mettono in discussione il valore della ricerca sono la brevità (poche settimane) dei trials clinici e il fatto che il campione dei pazienti che riceveva il placebo perlopiù proveniva da pregresse terapie con neurolettici repentinamente interrotte. Ciò che è emerso nel tempo è che esiste una vera e propria astinenza da interruzione dei farmaci antipsicotici. Negli anni ottanta lo psichiatra canadese Guy Chouinard propose l’idea di una psicosi da supersensibilità per descrivere un fenomeno individuato fin dagli anni cinquanta che poteva apparire sia durante il trattamento sia dopo la sua interruzione. Si trattava di un peggioramento dei sintomi psicotici probabilmente dovuto all’aumento dei recettori dopaminergici e della produzione di dopamina come tentativo da parte del cervello di opporsi al blocco recettoriale indotto dai farmaci. Quanto illustrato rende meno fondatamente dimostrabile la superiorità del farmaco rispetto al placebo nel prevenire le ricadute e mette in dubbio la qualità della ricerca su cui si fondano le evidenze che hanno accreditato la terapia farmacologica, da molti ancora considerata la prima scelta nella cura delle psicosi.
Nel corso degli anni settanta, proprio a causa dell’acceso dibattito apertosi sui pregi dei neurolettici nella terapia della psicosi, il NIMH promosse tre importanti studi. Tutti e tre mostrarono in modo chiaro che, rispetto alle ricadute, i vantaggi dei neurolettici si manifestavano nel breve periodo; già i risultati a un anno si invertivano a favore di altre modalità di intervento. Per altri aspetti chi non assumeva farmaci soffriva meno di depressione, ottundimento della vita affettiva e ritardo motorio. Rappaport ha seguito per un triennio 80 giovani ricoverati in un ospedale pubblico riscontrando che solo il 27% di questi, non trattati con farmaci, hanno avuto ricadute, contro il 62% di quelli trattati. Tali risultati furono confermati anche nello studio di Mosher del ’79.
Di grande interesse sono gli studi che, a partire dal 1969, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha realizzato per confrontare i risultati della cura della schizofrenia nei Paesi “sviluppati” e in quelli “sottosviluppati”. I pazienti furono sottoposti a controlli di follow-up a due e a cinque anni. Risultò che i pazienti dei Paesi più poveri avevano molte più probabilità di essere guariti clinicamente con “un esito sociale straordinariamente positivo”. Dopo 5 anni il 64% dei pazienti dei Paesi poveri non presentava sintomi ed era ben adattata, mentre nei Paesi ricchi solo il 18% presentava risultati analoghi. A causa delle forti critiche di cui fu oggetto da parte degli psichiatri, soprattutto americani, lo studio fu replicato con criteri diagnostici più stringenti e uniformi in 10 diversi Paesi, raggiungendo risultati analoghi. Questi studi mostrarono la grande incidenza dell’ambiente sociale e culturale sull’evoluzione della schizofrenia e, in considerazione del fatto che solo il 16% dei pazienti dei Paesi poveri aveva ricevuto una terapia farmacologica contro il 61% nei Paesi ricchi, pose il dubbio sull’effettiva necessità di tale trattamento.
Una più recente ricerca sul trattamento a lungo termine con farmaci antipsicotici è stata condotta dallo psichiatra olandese Lex Wunderink e pubblicata sulla rivista Jama nel 2013. L’importanza di questo studio è legata all’utilizzo della distribuzione randomizzata (che è considerata il gold standard della ricerca e che mancava in precedenti ricerche che avevano raggiunto le stesse conclusioni) dei pazienti nelle due coorti a confronto. Sono state arruolate 128 persone con acuzie schizofrenica, stabilizzate per 6 mesi con farmaci. Un gruppo ha poi ridotto fino a sospensione la terapia farmacologica; l’altro gruppo l’ha continuata nel tempo; tutti sono stati seguiti con un follow-up di 7 anni. Al termine di questo periodo il tasso di recovery, misurato sull’evoluzione clinica e il funzionamento sociale, era del 40% nel primo gruppo rispetto al 16% del secondo. Le differenze tra i due gruppi sono cresciute con il passare del tempo. L’ipotesi fatta dai ricercatori per spiegare questo andamento è stata che “il blocco post-sinaptico nel sistema dopaminergico indotto dagli antipsicotici (…) non solo corregge i sintomi psicotici, ma può anche compromettere importanti funzioni mentali come la vigilanza, la curiosità, l’iniziativa, il livello di attività e, in parte, la capacità esecutiva, necessarie per il funzionamento sociale”.
Numerosi studi di brain-imaging hanno dimostrato che in persone trattate a medio-lungo termine con farmaci antipsicotici si verifica una riduzione del volume cerebrale .
Uno studio condotto da Nancy Andreasen, ricercatrice leader in psichiatria biologica, conclude che è stata rilevata una forte e statisticamente significativa correlazione tra la dose di antipsicotico che un individuo aveva ricevuto nel corso della vita e la quantità di restringimento cerebrale rilevato. È bene precisare che le problematiche legate alla discinesia tardiva e tutto quanto detto sui disturbi connessi alle terapie a lungo termine si presentano anche con l’uso dei neurolettici di nuova generazione, sia pure con una frequenza leggermente minore.
Un altro capitolo molto importante riguarda gli effetti dei neurolettici sul metabolismo. Tutti gli antipsicotici fanno ingrassare, anche se c’è una certa variabilità tra i diversi farmaci; aumentano il rischio di sviluppare diabete e influenzano il metabolismo dei grassi portando a un aumento del colesterolo. Le anomalie, che configurano una vera e propria sindrome metabolica, si possono sviluppare anche dopo brevi periodi di trattamento. Va sottolineato come i bambini, che vengono sottoposti a trattamento con antipsicotici sempre più di frequente, sembrano essere particolarmente sensibili alle complicanze metaboliche di questi farmaci. La sindrome metabolica aumenta in modo considerevole il rischio di sviluppare malattie cardio e cerebro-vascolari. Questi farmaci inoltre generano anomalie della conduzione elettrica nel muscolo cardiaco aumentando il rischio di morte improvvisa di due o tre volte rispetto alla popolazione generale. È noto che persone con gravi disturbi mentali hanno un’aspettativa di vita più breve della popolazione generale. Certamente, essendo le morti precoci attribuite a malattie cardiovascolari, l’alto tasso di fumo e la mancanza di attività fisica incidono negativamente; ma è altrettanto certo che influiscono anche la durata dell’assunzione e il dosaggio dei farmaci neurolettici.
Conclusioni
In questo scritto, per brevità, ho preso in considerazione solo una categoria di farmaci usati in psichiatria, ma anche gli antidepressivi, gli ansiolitici e i cosiddetti stabilizzatori dell’umore sono stati oggetto di numerosi studi che ne mettono in discussione l’efficacia e la sicurezza a lungo termine. In particolare gli antidepressivi cosiddetti serotoninergici, tra cui si ricorderà il Prozac presentato come “pillola della felicità”, hanno mostrato una superiore efficacia rispetto al placebo solo nelle depressioni gravi. Nonostante ciò hanno avuto un larghissimo uso nelle più diverse condizioni di disagio. Già da tempo si sa della sintomatologia da astinenza dovuta alla sospensione dei farmaci ansiolitici, anche essi prescritti generosamente dai medici, ma negli ultimi anni è stata dimostrata un’analoga sindrome per gli antidepressivi. La sintomatologia può essere molto grave e, se confusa con una ricaduta depressiva, dare luogo a un protrarsi ingiustificato dell’uso del farmaco.
Un’altra importante questione da considerare è lo stretto legame che è intercorso tra lo sviluppo della psichiatria clinica, intesa come branca della medicina, e l’affermarsi delle terapie farmacologiche come principale strumento di cura. In coerenza con l’idea che bisognava costruire una classificazione delle malattie psichiatriche come parte di una nuova branca della medicina, (in attesa di individuarne la base biologica) l’APA (American Psychiatric Association) ha promosso una nuova edizione del DSM (manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali).
Questo manuale, a partire dalla sua III edizione, si è liberato della cultura psicoanalitica fortemente presente nelle precedenti, e ha coltivato l’ambizione di consentire una diagnosi che indirizzasse a una specifica terapia medica, generando una proliferazione di descrizioni di sindromi cliniche. Il manuale, che è giunto ora alla sua V edizione, ha incrementato notevolmente il numero di sindromi descritte, al punto che qualcuno sostiene essere divenuto luogo di una vera e propria medicalizzazione dei diversi modi di essere delle persone e dei loro comportamenti. Considerando che a tale proliferare di diagnosi ha corrisposto un conseguente incremento dell’uso dei farmaci, anche rivolti a un’ampia platea di bambini e di giovani, è ragionevole nutrire una certa inquietudine su ciò che Robert Whitaker ha descritto come una “vera e propria epidemia dei nostri tempi”. Con ciò si riferisce al forte sospetto che il trattamento farmacologico, attualmente così estesamente utilizzato, stia alimentando l’instaurarsi e l’estendersi di gravi disabilità psichiatriche.
Alla luce di quanto detto non è ragionevole pensare che la rivoluzione farmacologica in psichiatria stia manifestando una battuta d’arresto? Non è forse lecito chiedersi se la terapia farmacologica sia sempre necessaria per affrontare qualsiasi crisi psichiatrica o difficoltà emotiva? Non è lecito temere che, almeno a lungo termine, la terapia farmacologica crei più danni che benefici? Non è lecito pensare, come numerosi studi hanno dimostrato, che sarebbe meglio affrontare la crisi prima attraverso altri interventi terapeutici (psicoterapia, approcci relazionali dialogici e psicosociali) e solo eventualmente con l’ausilio dello psicofarmaco? È evidente, dal panorama che ho presentato, che ci troviamo di fronte a una e vera e propria “crisi della psichiatria”, come oggi è largamente riconosciuto in ambito scientifico, e che per risolvere questa crisi la psichiatria debba dare risposta a queste e altre domande e modificare radicalmente i propri fondamenti epistemologici e le proprie pratiche, che rimangono, malgrado tutto, ancorate a una prassi routinaria e indifferente alle evidenti criticità.
Bibliografia
– Andreasen N.C. et coll, 2011: Progressive brain change in schizophrenia: a prospective longitudinal studio first-episode schizophrenia. Biol psychiatry 70,672-9;
– Chouinard G., Jons B.D., 1980: Neuroleptic-induced supersensitivity psychosis: clinical and pharmacologic characteristics. Am J psychiatry 137,16-21;
– Crane G.E. 1967: Tardive dyskinesia in schyzophrenic patients treated with neuroleptic drugs. Aggressologie 9,209-18;
– Crane G.E. 1973: Clinical psychopharmacology in its 20th year. Late, unanticipated effects of neuroleptics may limit their use in psychiatry. Science 181,124-8;
– Moncrieff J. 2013: The Bitterest Pils; the troubling story of antipsycotics drugs. Trad. italiana: Le pillole più amare. La storia inquietante dei farmaci antipsicotici. Giovanni Fioriti ed. 2020;
– Whitaker R. 2010: Anatomy of an epidemic. Trad. italiana: Indagine su un’epidemia. Giovanni Fioriti ed. 2013;
– Wunderink L. et coll. 2007: Guided discontinuation versus maintenance treatment in remicted first-episode psicosis: relapse rates and functional outcome. J Clin Psychiatry 68,654-61.
FOTO PIXABAY