Non è irragionevole dire che la medicina va dove va la società.
Una trasformazione della medicina richiede, idealmente,
una trasformazione della società, giacché le due cose
non possono più essere tenute separate.
Per ripensare gli scopi della medicina,
occorre ripensare nello stesso tempo gli scopi e i valori della società
e del substrato culturale della società
Daniel Callahan, La medicina impossibile, 1989.
Brevi note sul concetto di salute ai tempi del COVID-19
Nell’antichità greca la salute era concepita come un dono degli dei e la malattia veniva considerata un fenomeno magico-religioso. Tale visione cambiò radicalmente con Ippocrate di Kos (460 a.C. circa – 377 a.C.) con il quale si affermò il principio del Νόσων φύσεις ἰητροί, chiamato in seguito da Galeno “Vis sanatrix naturae”, o “forza curatrice della natura”. Secondo questa concezione il corpo umano era animato da una forza vitale naturalmente tesa all’equilibrio finale: la malattia e la salute di una persona dipendevano quindi da circostanze insite nella persona stessa, non da agenti esterni o interventi divini. La via della guarigione sarebbe consistita pertanto nel limitarsi a stimolare questa forza innata, non nel sostituirsi ad essa. La cura integrale della salute dell’essere umano è talmente importante che già nelle tradizioni terapeutiche dell’umanità vi è sempre stata la percezione che la salute sia un processo globale che avvolge la totalità dell’essere umano e non solamente una parte o un organo specifico. Oltre alla figura di Ippocrate, la nostra tradizione occidentale è legata anche a quella di Asclepio (o Esculapio per i Romani), un eroe curatore di Epidauro, nel cuore della Grecia. Per più di mille anni accorsero al suo tempio gli infermi da ogni parte del mondo antico. L’efficacia dei suoi metodi era tale che dopo la sua morte Asclepio finì per essere divinizzato. Nel portico del suo tempio, i malati potevano leggere il detto fondamentale della medicina del tempo: “Puro sia colui che entra nel tempio di incenso odoroso, puro è colui che in animo nutre pensieri santi.” A Epidauro le cure erano realizzate in forma olistica, attraverso metodi differenziati: con la danza, la musica, la ginnastica, la poesia, i riti e il sonno sacro. C’era l’Abaton, santuario dove gli infermi dormivano per avere sogni di comunione con la divinità che li toccava e li curava. C’era l’Odeon, locale dove si poteva ascoltare musica tranquillizzante e venivano letti poemi sublimi. C’era il Ginnasio, dove si facevano esercizi fisici allo scopo di integrare mente e corpo. C’era lo Stadio per gli sport di competizione controllata per migliorare il tono fisico. C’era il Teatro per la rappresentazione di situazioni complesse della vita in modo da sdrammatizzare e rendere più facile la cura. C’era infine la Biblioteca, dove si potevano consultare libri, ammirare opere d’arte e partecipare a discussioni sugli argomenti più diversi. Tutto ciò già allora era realizzato in funzione di una visione olistica della realtà della salute e della malattia. La moderna medicina olistica, non fa che riscattare questa memoria terapeutica della nostra stessa tradizione, troppo spesso soffocata da un paradigma scientifico dominante che tenta di curare solo gli organi malati, senza prendere in considerazione la totalità e la complessità dell’essere umano. È in questo contesto di cura totale dell’uomo che il poeta Decimo Giulio Giovenale (60-130 d.C.) ha scritto un famoso verso criticando gli eccessi culinari dei romani: “Orandum est ut sit mensa sana in corpore sano” (“Si deve cercare una mente sana in un corpo sano” Satire X, 356).” Solo nel Rinascimento la scienza medica cominciò gradualmente ad adottare una metodologia non più legata all’osservanza dogmatica degli scritti degli antichi maestri, Ippocrate e Galeno in primis, ma ispirata sempre più fortemente ai nuovi principi del metodo scientifico. Divennero quindi più stretti i rapporti tra la medicina e le scienze naturali. Nell’età moderna la medicina compie ulteriori passi sulla via dell’approccio rigorosamente scientifico, abbandonando definitivamente la matrice empirico-filosofica e approfittando dei progressi compiuti da altre discipline come la fisiologia, la biologia e la chimica. Si passa così da una fase denominata da alcuni “medicina eroica” alla moderna “medicina basata su prove di efficacia” (Evidence-Based Medicine, EBM), contribuendo così, assieme ai miglioramenti nell’alimentazione e nell’igiene, alla diminuzione del tasso di mortalità e all’aumento dell’aspettativa di vita.
La salute come bene comune
Con lo sviluppo della medicina scientifica tra Settecento e Ottocento, nasce il modello bio-medico, in concomitanza con la nascita della società industriale. Nel XX secolo si sviluppano invece le prime specializzazioni mediche, mentre l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), istituita nel 1948, propone il suo nuovo obiettivo: “il raggiungimento, da parte di tutte le popolazioni, del più alto livello possibile di salute”, definita come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale”. Per la prima volta nella storia del mondo, la salute viene considerata un diritto e come tale si pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone. Questo principio assegna agli Stati e alle loro articolazioni compiti che vanno ben al di là della semplice gestione di un sistema sanitario. Essi dovrebbero farsi carico di individuare e modificare, tramite opportune alleanze, quei fattori che influiscono negativamente sulla salute collettiva, promuovendo al contempo quelli favorevoli.In una riunione dell’OMS del 1998 è stata proposta la modifica della definizione originaria del concetto di salute nei seguenti termini: “La salute è uno stato dinamico di completo benessere fisico, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia”. La discussione non è arrivata all’Assemblea Generale. Conseguentemente è stato mantenuto il testo originario nonostante il voto favorevole della maggior parte dei rappresentanti dell’OMS stesso. Questo anche per ragioni linguistiche, culturali e religiose non universalmente condivise.
La salute è un diritto umano fondamentale e una risorsa per la vita quotidiana, che va difesa e sostenuta. Per arrivare a uno stato di completo benessere una persona o una comunità deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, modificare positivamente l’ambiente circostante o di farvi fronte. Deve intraprendere insomma un processo di promozione della salute che la metta in grado di aumentare il controllo sulla propria condizione e migliorarla.
Nel 2016, con la Dichiarazione di Shanghai, l’OMS ribadiva nuovamente che “la salute si sviluppa nei contesti della vita quotidiana – nei quartieri e nelle comunità in cui le persone vivono, lavorano, amano, fanno acquisti e si divertono.” La salute è uno dei più efficaci e potenti indicatori dello sviluppo sostenibile e di successo di ogni città (e comunità) e contribuisce a rendere le città (e le comunità) inclusive, sicure e resilienti per l’intera popolazione. La salute, cioè, non è una questione individuale ma una costruzione sociale, un bene da perseguire socialmente, l’esito di un preciso disegno di governance della polis.
Soprattutto la salute non è una merce in vendita a sistemi privati orientati al profitto e molti degli squilibri evidenziati dalla crisi della pandemia da SARS-CoV-2 indicano che le politiche di privatizzazione del bene pubblico “Salute” sono in parte responsabili delle debolezze mostrate dai sistemi sanitari di alcune regioni italiane. Nella sua accezione di benessere globale del singolo e della comunità, la salute diventa bene comune, qualcosa che è parte della comunità. Anzi è la ragione stessa della comunità, è in essa: non si sta bene da soli e nessuno guarisce da solo.
Valori base come uguaglianza, solidarietà, equità e dignità della persona sono enunciazioni prive di sostanza e di concretezza se è vero che le disuguaglianze sono aumentate in questi anni in Italia ed in Europa e si sono create le condizioni per escludere gli ultimi, coloro che a diverso titolo (povertà economica, di età, di istruzione, di lavoro, di contesto abitativo o provenienza geografica) non trovano nell’attuale sistema di welfare garanzie di accesso né di dignità né di equità.
La realtà drammatica è che si è abbandonata l’idea di comunità e sono state dimenticate le componenti più fragili di essa, come gli anziani, prime vittime della pandemia. Fanno parte degli ultimi anche le persone con problemi di salute mentale, i disabili, i senza tetto, gli immigrati, i carcerati e tutti coloro che vivono nella solitudine e nell’abbandono, al limite della povertà sia assoluta che relativa.
Affermava Ivan Illich che nell’Homo Sapiens l’aggettivo “sano” qualifica azioni culturali, etiche e politiche. Almeno in parte, la salute di una persona, e quindi di un popolo, dipende dal modo in cui la cultura, la politica e la società condizionano l’ambiente e creano quelle circostanze che favoriscono in tutti, e specialmente nei più deboli, la fiducia in sè stessi, l’autonomia e la dignità di esseri umani. Di conseguenza, la salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera nelle persone la capacità di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile. In questo senso, la salute equivale al grado di cultura e di libertà vissuta; designa un processo di adattamento; esprime la capacità di adattarsi alle modifiche dell’ambiente; di crescere e di invecchiare; di guarire quando si subisce un danno; di soffrire e di attendere più o meno serenamente la morte.
La salute abbraccia anche il futuro e perciò comprende l’angoscia e le risorse interiori per vivere con essa. Esprime un processo di cui ognuno è responsabile, anche se solo parzialmente. Godere di buona salute significa quindi non soltanto riuscire a fronteggiare la realtà, ma anche gioire di questa riuscita, esser capaci di sentirsi vivi nel piacere e nel dolore, significa fondamentalmente “innamorarsi della vita”.
La salute e la sofferenza come sensazioni vissute e consapevoli sono fenomeni propri degli uomini, che in ciò si distinguono dagli altri animali. La salute è definita dallo stile con cui ciascuna società si esprime nell’arte di vivere, di gioire, di soffrire e di morire. Lo stile è immerso in un insieme complesso di simboli, valori e rappresentazioni, in base a cui l’uomo spiega e organizza la sua presenza nel mondo, qui e ora: è espressione della sua cultura.
Gruppi vulnerabili e promozione della salute mentale
È noto che più una persona è socialmente ed economicamente svantaggiata, più è probabile che soffrirà di malattie croniche e degenerative, tutte in gran parte prevenibili. Anche i disturbi mentali e psicologici che, per dell’attuale pandemia, sono ulteriormente aumentati a causa dell’isolamento, della paura e dell’insicurezza, sono più frequenti nei soggetti più vulnerabili. Oggi, l’attenzione è prioritariamente centrata sul controllo della diffusione del COVID-19. Successivamente sarà necessario affrontare gli alti e crescenti livelli di malattie croniche nelle nostre società e ridurre la pressione sui servizi di assistenza.
Gli individui economicamente più vulnerabili sono anche più esposti al contagio. Hanno difficoltà a mettersi in auto-isolamento a causa di condizioni di insicurezza lavorativa che non consentono il telelavoro o non garantiscono un congedo per malattia o per prestare assistenza e cura. In genere abitano in luoghi che favoriscono situazioni di vicinanza con altre persone, in case sovraffollate. Hanno maggiori probabilità, sia nel breve sia nel lungo termine, di essere disoccupati, di vivere condizioni economiche precarie. Il tema delle disuguaglianze di salute esiste da sempre, ma adesso si è acutizzato. Riguardo alla preparazione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ad eventi epidemici credo sia giunto il momento di intraprendere azioni di sistema, che siano durature.
Il 14 aprile 2020, la rivista The Lancet pubblicava un editoriale dal titolo “Redefining vulnerability in the era of COVID-19” in cui discute su come la pandemia abbia cambiato le carte in tavola anche rispetto ai gruppi più fragili. Il concetto stesso di “vulnerabilità” è un concetto dinamico, perché una persona non considerata vulnerabile all’inizio di una pandemia potrebbe divenire tale in seguito ad una perdita improvvisa di reddito o di lavoro. L’OMS ha condotto un’indagine su 130 Paesi del mondo che ha evidenziato l’impatto devastante del COVID-19 sull’accesso ai servizi di salute mentale. La pandemia ha di fatto interrotto i servizi di salute mentale nel 93% dei paesi del mondo, proprio quando la domanda di salute mentale aumentava. Inoltre ha evidenziato l’urgente necessità di maggiori finanziamenti. La perdita delle persone care, del proprio reddito, l’isolamento e la paura stanno innescando problemi di salute mentale o aggravando quelli già esistenti. Molte persone si trovano ad affrontare livelli aumentati di consumo di alcol e droghe, insonnia e ansia. Nel frattempo, la stessa infezione da SARS-CoV-2 può portare a complicazioni neurologiche e mentali, come delirio, agitazione e ictus. Le persone con problemi di salute mentale rappresentano un gruppo vulnerabile molto complesso, come sottolineano Yao e Chen nella loro lettera al Lancet Psychiatry, in cui raccontano come il virus in Cina abbia colpito numerosi pazienti di ospedali psichiatrici. La scarsa consapevolezza del rischio, la minore aderenza alle misure igieniche e di distanziamento fisico possono esserne responsabili. Inoltre accanto all’epidemia di COVID-19 è sorta un’epidemia parallela di paura, ansia e depressione, che colpisce in misura maggiore queste persone più suscettibili allo stress rispetto alla popolazione generale. Si sono anche ridotte o spesso annullate le visite periodiche presso gli ambulatori e le prescrizioni o rimodulazioni di farmaci. Più dell’80% dei Paesi ad alto reddito ha riferito di utilizzare la telemedicina o la tele-terapia per colmare le lacune in materia di salute mentale, rispetto a meno del 50% dei Paesi a basso reddito. Ma paradossalmente, rileva l’OMS, si assiste a una continua cronica riduzione del finanziamento della salute mentale, che già era bassa prima della pandemia, quando i Paesi spendevano meno del 2% dei loro budget sanitari nazionali per questo settore.
L’OMS ha raccomandato che i paesi stanzino risorse per la salute mentale come componente integrante dei loro piani di risposta e recupero ed ha inoltre esortato i paesi a monitorare i cambiamenti e le interruzioni dei servizi, in modo che possano affrontarli come richiesto. Sebbene l’89% dei paesi abbia dichiarato che la salute mentale e il supporto psicosociale facciano parte dei loro piani di risposta al COVID- 19, solo il 17% di questi paesi dispone effettivamente di finanziamenti aggiuntivi sufficienti per coprire queste attività
Coloro che investono nella salute mentale ne raccoglieranno i frutti, sottolinea ancora l’OMS. Le stime precedenti al COVID-19 rivelano che quasi 1 trilione di dollari di produttività economica vengono persi ogni anno solo a causa della depressione e dell’ansia. Tuttavia, gli studi dimostrano che ogni dollaro investito in cure per la depressione e l’ansia, ne restituisce almeno cinque.
Oggi ci sono nel mondo 270 milioni di migranti e il numero è destinato almeno a raddoppiare. Dei 150 milioni di lavoratori migranti internazionali in tutto il mondo, il 95% risiede nelle cinque regioni dell’OMS più colpite dal COVID-19.
Ora più che mai, appare chiaro ed evidente il contributo essenziale dei lavoratori migranti per sostenere le economie europee, i servizi pubblici e colmare le carenze di manodopera. Questi lavoratori si trovano nei settori più colpiti dalla crisi: agricoltura, lavori domestici e di assistenza, sanità pubblica a tutti i livelli, industria alimentare, edilizia, turismo, trasporti. Mettendo a repentaglio la propria vita per il bene di tutti noi, essi svolgono un lavoro essenziale. Ma nonostante questo sono dimenticati. I lavoratori migranti, e in particolare quelli irregolari, rappresentano la categoria meno protetta. Hanno sempre dovuto affrontare una serie di sfide, ma a causa della crisi del COVID-19 la loro situazione si è aggravata, rendendo necessaria una risposta urgente. Le difficoltà sono legate alle condizioni di lavoro e di occupazione, all’accesso al sussidio di malattia o alla disoccupazione o alle prestazioni sociali, ai dispositivi di protezione personale, all’assistenza sanitaria pubblica e all’alloggio, nonché ai permessi di soggiorno e di lavoro. Questa categoria di lavoratori ed in particolare collaboratrici familiari, incontrano più barriere nell’accesso ai servizi sanitari nei paesi ospitanti rispetto ad altri migranti internazionali (ad esempio, gli studenti). In condizioni normali hanno un elevato carico di disturbi mentali comuni (es. depressione) e una qualità della vita inferiore rispetto alle popolazioni locali. Questa situazione potrebbe peggiorare durante l’epidemia di COVID-19 a causa della perdita di reddito dovuta alle misure adottate dai governi. In assenza di informazioni affidabili nella propria lingua, potrebbero anche non riconoscere la gravità dell’epidemia e non ricevere informazioni accurate su come proteggersi dalle infezioni. Molti possiedono uno smartphone che può essere utile nel fornire supporto informativo e sociale durante l’epidemia, tuttavia può anche diffondere informazioni imprecise e panico che potrebbero indurli a ritardare le visite ai centri sanitari a causa della stigmatizzazione di coloro che sono infetti.
La pandemia ci ha insegnato una verità, tanto semplice quanto urgente: per sopravvivere a questo virus, e agli altri che verranno, le nostre strutture socio-politiche e sanitarie devono diventare più eque e più giuste. La sopravvivenza di tutti noi dipende dalla nostra capacità di comprendere il rapporto diretto tra salute e giustizia e dalla volontà di alleviare l’eterna pandemia delle disuguaglianze, il vero perenne virus del pianeta. Abbiamo sottovalutato il COVID-19 e le sue conseguenze economiche, sociali e culturali. La spaventosa minaccia alla nostra salute ha messo a nudo le nostre debolezze e allo stesso tempo ci ha ricordato che siamo tutti uguali e che nessuno si salva da solo. È questo il lato positivo di tutta la situazione. Sotto la minaccia di una pandemia c’è stata data l’opportunità di capire, che a dispetto delle croniche divisioni artificiali, le comunità e le società dipendono le une dalle altre. Non è esagerato dire che siamo tutti tessere di un immenso mosaico. Qualcuno è più vulnerabile di altri, ma siamo tutti a rischio di cadere
Bibliografia
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