I costi sempre crescenti dei sistemi sanitari possono essere letti secondo molti e separati punti di vista: uno riguarda il vertiginoso aumento dei costi delle pratiche sanitarie, solo in parte giustificato dagli investimenti necessari per garantire i processi terapeutici: di fatto i sistemi sanitari garantiscono profitti altissimi, e questo porta ad un costante espandersi dei budget sanitari. E’ indubbio, del resto, che i sistemi sanitari oggi spendano molto più per prevenzione, cronicità, protesi, riabilitazioni: è l’idea stessa di salute e malattia che è cambiata. La malattia coesiste alla salute, e la salute non è più un concetto statico di assenza di malattia, bensì una condizione dinamica tra salute e malattia che consente una relativa pienezza di vita. In questo scenario, la medicalizzazione è dato costante nei paesi occidentali che si infiltra in quasi ogni azione della vita. In un’accezione olistica ogni attività può produrre salute o ammalare: dal mangiare al fare attività fisica. Questa medicalizzazione non soltanto ha condotto ad una crescita enorme di professioni di cura (dal logopedista al podologo, dal riabilitatore al counselor psicologico, al nutrizionista….) ma ha esteso le condizioni nelle quali ci si rivolge a questi professionisti. Nel complesso l’aumento delle prestazioni si è accompagnato, almeno nella percezione comune, ad un considerevole miglioramento della qualità vita. Si ha, così, un rapporto di relativa soddisfazione tra la domanda di salute posta alle professioni di cura e la sensazione di beneficio per i trattamenti ricevuti.
Abbiamo, invece, l’impressione, che nel caso della salute mentale l’accresciuta domanda di cura, e sovente l’accresciuta diagnosi di condizioni patologiche, non produca la medesima sensazione di un miglioramento delle condizioni di benessere. Gli approcci terapeutici che tanto avevano acceso le speranze nel corso del secolo precedente, hanno visto un a progressiva perdita di favori. La psicoanalisi è stata certamente una delle prime forme trattamentali ad andare sotto attacco: per i tempi della cura, per i suoi costi, e per i suoi risultati, ritenuti meno soddisfacenti del previsto, e poco conta che il primo a metterci sull’avviso fosse stato propri Freud in uno dei suoi ultimi scritti.
E tuttavia anche gli altri approcci, dal comportamentismo al cognitivismo, alla terapia sistemico-relazionale, si sono mostrati strumenti di media potenza terapeutica: si è giunti così alle conclusioni che sovente è utile sottoporsi a una psicoterapia, ma è difficile affermare che un trattamento funzioni necessariamente meglio di un altro, e soprattutto di tutti è più o meno ignoto il meccanismo di funzionamento, nonostante l’apparente solidità delle teorie di riferimento.
Del resto non è andata meglio alla psicofarmacologia, che risente della stessa modestia di risultati e di un impianto teorico, relativamente ai meccanismi di cura, persino più vago di quello delle psicoterapie.
Tutto questo ha certamente contribuito di molto a ridimensionare la presunzione dei vari approcci, a ridurre la conflittualità tra le varie scuole, e a sostenere, di fatto, modelli più integrati: risultato certamente lodevole, ma che corre il rischio di far scivolare tutti in una sorta di eclettismo confuso e arraffone.
In questo scenario, in cui l’insoddisfazione per la capacità di cura del sistema di salute mentale è come un basso continuo nelle nostre società avanzate, ogni tanto tale insoddisfazione esplode in una vera e propria rabbia quando si attribuisce ai sistemi di cura la responsabilità di aggressione alla sicurezza dei cittadini, confondendo di fatto la funzione di cura con la funzione di controllo sociale. E’ evidente di come tale confusione sia uno di nodi più dolenti della storia stessa della psichiatria: la sua compromissione con il potere, e soprattutto con la funzione repressiva e di controllo sociale, forse inevitabile, ha generato, come noto, dei veri mostri etici e sociali.
Ma, a parte questa deriva, per cui se c’è qualcuno che spara e uccide in preda a un raptus è sempre colpa del sistema di cura che ha fallito nella presa in carico, vi sono due linee di pensiero che costantemente vengono riproposte. Quella che vede l’affermazione di un modello di presa in carico della salute mentale sempre più di tipo medico, diciamo costruito sulla medicina evidence based, e di fatto centrato su servizi specializzati. E c’è poi quello che per comodità chiameremo di stampo basagliano, invece portato a ritenere che solo un’azione fortemente integrata tra prestazione sanitaria e tutela sociale possa garantire una risposta più piena e soddisfacente. Insomma, dietro una qualsiasi patologia psichiatrica c’è qualcosa di più e di diverso che un neurotrasmettitore che non funziona.
I lavori raccolti in questo numero di Dromo sono forse ideologicamente connotati in questo senso: credono poco nella riducibilità dei processi di presa in carico in prestazioni iperspecialistiche, o peggio, nel contenimento dei pazienti in luoghi di cura iperspecialistici. E tuttavia crede che il modello proposto sia quanto mai vicino al modello della medicina “organica”, in cui si è ben capito che la prestazione ultraspecialistica funziona solo se sostenuta da adeguati interventi sociali, e dove, quindi, l’integrazione tra sanitario e sociale sia effettiva. Di fatto di questo si parla da che la pandemia è esplosa e il mito della sanità ultraspecialistica si è infranto.