Diteci per cortesia la verità sulle REMS

Storia di una rivoluzione (forse) di civiltà

Le cooperative sociali aderenti a ConfcoopeREMS e OPG sono roba da matti. E da criminali. E da criminali matti. Questa è l’opinione comune con cui si scontra quotidianamente chi lavora nel settore.

“Nella realtà dei fatti chi entra nelle REMS si trova addosso un doppio stigma, quello del malato di mente e quello del criminale” dice Pietro Pellegrini, 65 anni, nei servizi sociali dal 1981, dal 2012 direttore del Dipartimento di Salute Mentale della AUSL di Parma. “è un pregiudizio da togliere, è pericoloso, produce un effetto negativo intrinseco, anche dal punto di vista legislativo”.

Le Leggi 9 del 2012 e 81 del 2014 creano per loro le REMS, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che dipendono dal sistema sanitario, hanno limiti precisi rispetto alle persone che possono accogliere (non più di venti) e sono radicate sui territori in cui vivono gli ospiti, che partecipano a un progetto di cura individuale che ha una durata che in ogni caso non può essere superiore a quella della pena.

Oggi le REMS in Italia sono 29 su tutto il territorio nazionale, per 562 ospiti, l’11% dei quali donne, una percentuale più che doppia di quella delle detenute, che oscilla tra il 4 e il 4,5%. Gli stranieri sono il 16%, contro il 32,5% dei detenuti stranieri.

“Il 15% circa degli ospiti della mia struttura sono donne, ed è un dato in crescita” dice Giuseppina Paulillo, 55 anni, psichiatra, che dal 27 aprile del 2015, giorno dell’apertura, dirige la REMS di Casale di Mezzani, che serve l’area di Parma, Fidenza, del distretto delle Valli di Taro e Ceno e quello del Sud Est della regione. Per venti posti, come tutte, o quasi, le REMS. “È circa il doppio della popolazione reclusa”.

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Si parla di altri numeri: secondo l’ultimo rapporto Antigone, le donne detenute in Italia, al 31 gennaio 2021, sono 2250. “Da noi arrivano donne con reati di tipo intrafamiliare grave, la percentuale di reati di questo tipo tra la popolazione maschile è più bassa”.

La percentuale di donne che lavorano nelle REMS, invece, è alta.

“Sono stata la prima donna a dirigerne una, ora non è più così. E tieni conto che il personale della struttura è prevalentemente femminile: su 23 operatori ci sono 3 uomini, oltre a un amministrativo e all’agente di vigilanza”.

Dirigere una REMS richiede sensibilità complesse, farlo dal 2015, alla nascita, quando delle strutture di cura prendevano il posto di strutture di custodia, ancora di più.

“Era un progetto complesso, tutto da costruire, e all’inizio la prospettiva di mettere insieme custodia e cura… non mi faceva stare bene, ecco. Pensavo: come fai a custodire e curare insieme?”.

Occorreva tracciare una rotta, lavorare sull’identità, anche su quella della struttura, oltre che su quella degli ospiti. Una sfida nella sfida. Che significa, oggi, dirigere una REMS?

“Intanto dipende da qual è la REMS che dirigi, ogni struttura recepisce un orientamento psichiatrico. La nostra struttura è molto orientata alla psichiatria di comunità, al recovery. Lavoriamo molto sul consenso, sul recupero della soggettività. Ci basiamo su quattro valori fondamentali: responsabilità, empatia, miglioramento, speranza”.

Quattro valori, quattro concetti teorici. Cosa significano concretamente per gli ospiti?

“Che puntiamo al recupero sociale. Tutti gli ospiti che entrano portano sulle spalle un costrutto, quello della pericolosità sociale, che in pratica esprime la probabilità concreta di commettere altri reati. La scommessa è abbassare la percentuale, puntare a una misura alternativa che permetta loro di avere libertà maggiori. Lo facciamo seguendo quelle idee”.

Il 50% circa degli ospiti è in REMS come misura provvisoria, non definitiva, e si tratta di un dato molto importante.

“La REMS dovrebbe essere una extrema ratio, uno strumento da utilizzare quando gli altri non è possibile applicarli” dice Paulillo “alla fine di un percorso che prevede tappe, perizie, decisioni giudiziali. Ci sono alcuni magistrati che, invece che tenere in carcere un reo, se realizzano che questi ha un problema psichico o lo aveva al momento del reato, lo mandano nella REMS con una misura cautelare che diventa definitiva all’interno della struttura, con un grande allungamento dei tempi che crea, tra le altre cose, le liste d’attesa”

Le liste d’attesa sono un problema nel problema. Le REMS hanno un limite di venti posti e se questi posti sono presi, si creano le liste d’attesa. Ma se il tempo di custodia all’interno delle strutture diventa quello dell’attesa della pena definitiva, il meccanismo si inceppa e la funzione delle REMS viene meno.

“Il primo anno avevamo una media di 4 mesi a progetto. Ora abbiamo superato l’anno”.

Gli ospiti vengono divisi dalla macchina giuridica in due categorie, i rei folli e i folli rei. I folli rei sono le persone considerate incapaci di intendere e volere e socialmente pericolose, cioè quelle per le quali sono stati pensati gli OPG e le REMS. I rei folli sono capaci di intendere e volere, sono riconosciuti colpevoli di reato, ma hanno una patologia psichica che si aggrava o sorge dopo l’ingresso in carcere e ne rende incompatibile la gestione con lo stato detentivo. In questo caso è frequente l’invio nelle REMS come misura provvisoria.

“Dall’apertura abbiamo avuto 47 persone e 37 dimissioni, perlopiù verso altre strutture, in minima parte verso le famiglie d’origine. 41 sono entrati per reati importanti: omicidi, tentati omicidi, lesioni gravi. Lavoriamo tantissimo sulla sicurezza relazionale, facciamo un lavoro continuo di osservazione e di accoglienza. Negli anni abbiamo avuto pochi casi di aggressività fisica, uno verso un operatore e tre degli ospiti tra loro. Anche gli allontanamenti dalla struttura sono stati pochi, cinque, tre da parte della stessa persona, un ragazzo peraltro molto conosciuto sul territorio, una promessa del calcio giovanile”.

È nella distanza tra i progetti e le risorse, oggi, che alcune strutture avvertono con più forza la distanza tra la promessa del reinserimento sociale e una realtà più complessa.

“Oggi si fa fatica a realizzare l’aspetto sociale del nostro intervento. Dopo i progetti terapeutici spesso manca anche la possibilità di un lavoro vero, che è un passo, un elemento fondamentale. L’obiettivo di fare lavorare gli ospiti sul territorio è difficile, anche solo perché serve predisporre accompagnamento, vigilanza, sorvegliare l’utilizzo di mezzi di trasporto”.

Progetti individuali per storie individuali, per persone, prima che ospiti, alcune delle quali hanno avuto nuove possibilità di vita attraverso la riforma che ha creato le REMS.

“Ogni storia è una storia, ovviamente, però… quando abbiamo aperto, uno dei dieci ospiti originari era una persona che aveva alle spalle già ventiquattro anni di OPG per due omicidi e due tentati omicidi. Riusciva a essere il prototipo del paziente modello, con lucida follia, per la capacità di adattamento, per la cultura creata nel lungo tempo passato in OPG. Però rimaneva molto inquietante, c’era la sensazione di una forte, costante imprevedibilità. Ci abbiamo lavorato tantissimo. E alla fine siamo riusciti a dimetterlo”.

Un po’ di storia, e di differenze

Prima c’erano i manicomi, e dalla legge che ne stabilisce la chiusura alla chiusura effettiva passano vent’anni.

Poi arrivano gli OPG, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che dovrebbero essere un passo avanti e spesso lo sono, però, di fatto, sono ancora strutture di detenzione, e per chiudere quelli ce ne vogliono altri venti.

Le REMS vengono formalmente istituite nel 2014, ma tra il dire e il fare passano ancora tre anni: gli ultimi pazienti escono dall’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto a maggio del 2017.

Nell 1978 la Legge Basaglia chiude i manicomi criminali e crea gli OPG, anche se l’ultimo manicomio criminale serra i battenti nel 1998, lo stesso anno in cui la Legge 419 del 30 novembre, nota come Legge Bindi, stabilisce il passaggio della sanità penitenziaria (tutta, comprese le strutture dedicate al disagio psichiatrico) dal Ministero della Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale. Per quello che riguarda il disagio mentale è un passo importante, una svolta epocale che rimarrà lettera morta a lungo, confinata a una “fase sperimentale” lunga quasi dieci anni.

In questi anni cosa è veramente cambiato?

“Chiariamo: gli OPG erano carceri, perché erano dirette da direttori penitenziari, e manicomi, insieme. Le REMS sono state una rivoluzione di civiltà. La riforma che ha portato alle REMS si basa grossomodo su quattro principi: territorialità, numero chiuso, durata del ricovero mai superiore a quella della pena edittale massima, rifiuto della contenzione meccanica”.

Lo dice Franco Corleone, 75 anni, ex coordinatore dei garanti territoriali per i detenuti. È stato senatore e parlamentare ed europarlamentare, e nel biennio 2016/2017 ha presieduto la commissione per la chiusura degli OPG.

Il 30 luglio 2008 un’altra commissione, presieduta da Ignazio Marino, onorevole e chirurgo, produce un’istruttoria da cui emerge una situazione di degrado disumano all’interno degli OPG. Vengono diffuse immagini e filmati atroci: persone abbandonate e legate ai letti, camicie di forza, trattamenti farmacologici assassini. Una bomba che tutti conoscevano ma che nessuno aveva mai affrontato, e che avrà un peso importante nel percorso che porta alle REMS, con le tappe legislative più importanti quattro e sei anni dopo l’istituzione della commissione.

Eppure non è corretto dire che le REMS abbiano sostituito gli OPG.

“Non sono state le REMS, a sostituire gli OPG” dice Pietro Pellegrini “ma il sistema di welfare di cui le REMS fanno parte. È un sistema di cura, che ha sostituito gli OPG”.

Un sistema, un percorso, fatto di prima e di dopo. E di obiettivi.

“Creiamo insieme a ogni ospite un progetto terapeutico individuale” spiega Paulillo “che prevede obiettivi e sinergie con i servizi territoriali e se possibile con le famiglie”.

La gestione delle REMS è esclusivamente sanitaria, la vocazione è riabilitativa, l’attività di sorveglianza e custodia è solo eventuale.

“Siamo andati molto avanti, chiaramente, nel percorso di riforma, ci sono state tappe importanti. Intanto nel 2008 la Sanità penitenziaria passa dalla Giustizia al Sistema Sanitario Nazionale, e quella riforma produce, di fatto, due interventi di legge, nel 2012 e nel 2014, molto importanti ma incompleti. Vengono fissati principi fondamentali, per esempio che il periodo di trattamento non può essere superiore alla pena, e questo è importantissimo per combattere la tendenza manicomiale degli OPG; e poi che non si può determinare la misura in funzione del contesto sociale. Non vuol dire che non conta, attenzione: vuol dire che è lo stato che si assume il compito di risolvere quella complessità. Per capirci: se uno non ha famiglia ed è povero, non per questo rimane in REMS a vita”.

Non solo. Per evitare la “tendenza manicomiale”, cioè la tendenza a trasformare delle strutture di cura in depositi con o senza termine per soggetti con disagio mentale, che è stata una delle più gravi malattie degli OPG, è stato fissato un limite di venti ospiti per struttura e si è stabilito anche di diffondere le strutture in modo capillare sul territorio, in modo da sfruttare al meglio sinergie, risorse, eventuali rapporti familiari o sociali.

Quando si dice che “la durata massima delle misure di sicurezza non può superare la durata della pena edittale” significa che se un ospite reo ha una condanna a dieci anni, non può rimanere dentro quindici, o più. E non è quello che succedeva con gli OPG, in cui gli “internati”, una volta scontata la pena, rimanevano dietro le sbarre (sbarre vere) se ritenuti socialmente pericolosi, in un fine pena mai reale, noto come ergastolo bianco.

Senza.

Alcun.

Limite.

È uno dei motivi della riforma, che versa in una fase intermedia. Il percorso, cioè, non è finito.

“Dopo il periodo di grande impegno della commissione di Franco Corleone per il superamento degli OPG, e del tavolo di Coordinamento del processo di superamento degli OPG, istituito presso il Ministero della Salute del sottosegretario Vito de Filippo, la riforma è caduta in una specie di oblio, è andata avanti soprattutto per la forza degli operatori del settore, che portano il peso e il valore principale della riforma, che riguarda aspetti specifici e più generali. La riforma riguarda non solo l’aspetto legale, ma induce una riflessione sul senso della pena per i detenuti. Come ci prendiamo cura di chi commette un reato? Quali strumenti di redenzione, no, di ravvedimento, mettiamo in campo? L’applicazione della riforma non riguarda solo gli oltre cinquecento ospiti delle strutture, che sono fondamentali, ma anche gli oltre cinquantamila detenuti dell’intero sistema”.

FOTO PIXABAY

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