Minneapolis, Minnesota, aprile 2020. Susan piange. Alle sue spalle vedo un ambiente che mi pare più simile ad una roulotte che a una casa. Lei singhiozza e dice “my home”, “doing nothing”. Quindi per lei è casa. Poi dice “social” “workers” e poi “illness”. Non ho difficoltà con l’inglese ma la connessione è instabile e lei ha la voce tremula. Da lei è giorno, da una finestrella, che poi mi pare un finestrino, vedo una luce tersa. Lì è circa mezzogiorno, a Roma le ventuno. Finalmente ascolto una frase compiuta. Dice che essere chiusa in casa mentre altri hanno bisogno di tutto, assistenza, denaro, lavoro, la fa sentire inutile. La sua salute la costringe alla massima cautela e quindi lei deve stare a casa o appena fuori. La sua assistente sociale la chiama attraverso Zoom per vedere come sta.
Rimango sempre impressionata da come facciamo diventare nostri il dentista, l’ortopedico, lo psicologo, l’assistente sociale, quasi che l’uso del possessivo ne aumenti la potenza d’aiuto nei nostri confronti. Io e lei siamo lì con altre cinque donne (la circostanza del genere è una casualità) dopo una sessione di meditazione con un noto ricercatore americano. Le dico, senza averci mai pensato prima: ti rendi conto di quanto stai facendo tu lì, in isolamento, per centinaia di persone? Se sei malata eviti diffusioni, se non lo sei eviti di contagiarti e questo va a beneficio di te, di chi non si ammala, dei medici, degli infermieri, di chi lavora negli ospedali. Facendo Distacco e distanza di Mariella De Santis niente stai facendo tantissimo per molti. Susan smette di singhiozzare, le si illuminano gli occhi. Dice: non ho mai pensato a questo. Non ho mai visto che poteva essere così. Cambia tutto, non sono passiva, sto facendo qualcosa anche io. Trattengo delle parole chiave. Ho poche energie e il pensiero di sintesi aiuta. Niente, casa, malattia, solitudine, inutilità. 1998, Val d’Aosta, convento di monaci. Con l’abate parliamo di Dio, della solitudine dell’uomo e della solitudine del religioso, del mio sentimento di fede agonico. Poi lui guarda verso un monastero sull’altro lato della strada di montagna e dice: lì ci sono le nostre sorelle di clausura. Non sa quanto conforto ci dia la loro preghiera. Quanto ci renda forti. La sentiamo senza nessuna distanza. Io chiedo: e voi pregate per loro? Certo, mi risponde, ma la loro preghiera è più forte perché non è intaccata dai rumori del mondo. È salito inatteso questo ricordo, chiamato da Susan. Forse quella remota conversazione mi ha fatto dire quello che ho detto a Susan. Ma ci credo? Ai miei studenti in università facevo fare molta riflessione ed esercitazione sulla differenza tra distacco e distanza nella relazione di aiuto. Era un rischio ma insegnavo loro ad aver molta fiducia nelle parole e nel loro etimo per capire dove stavano, cosa stavano davvero dicendo. Luigi dai grandi liquidi occhi neri mi disse: perché
L’errore sta nel pensare che un processo sgradevole possa produrre solo risultati sgradevoli
Frans de Waal
dovrei provare simpatia per un pedofilo? Chissà quante vite ha rovinato. C’era un fremito doloroso nella sua voce. Un brivido scivolò sulla mia pelle. Mi rivolsi a tutti dando una risposta tecnica, accessibile e abbastanza corretta. Dissi che le persone con cui lavoriamo le incontriamo per una peculiare esperienza o situazione della loro vita e noi diamo a quella parte la nostra competenza professionale. Non ci è chiesto di diventare amici e non è neanche utile. Ma la parte di noi che agisce non giudica. È distante ma non distaccata. Nella distanza ognuno di noi decide quanto sta vicino o quanto lontano, nel distacco la misura è rigida. Quand’anche fosse vicina, è rigida. Distacco e distanza non si misurano nella dicotomia vicino o lontano ma nella qualità di tendersi e accorciarsi, secondo quello che è utile e necessario allo scopo della relazione di aiuto. E il diritto di muoversi non è solo dell’operatore ma di entrambi. Solo che il professionista ha il dovere di sapere quando lo fa e deve farlo nell’interesse dell’obiettivo di lavoro concordato. Non siamo scissi ma non ci con-fondiamo. A questo sì, ci credevo. Qualche lezione dopo, inevitabilmente, si sarebbe parlato di empatia. Si forma? Si sviluppa? Cresce? Scompare? Oggi questa è una parola quasi usurata, se ne parla come del seme del bene e invece gli studi più accurati ci dicono che non è esattamente così, anzi, l’empatia ha un lato oscuro che va ben conosciuto (Legrenzi, 2020). Si parla del modello della matrioska (de Waal, 2008) per indicare i lunghi processi di stratificazione emotivi che partono da esperienze di contagio emozionale presenti anche in diverse specie animali che poi assumono tratti di empatia cognitiva e che attraverso il processo di assimilazione e immedesimazione in un’esperienza che non sia la propria permette di riconoscere non solo i sentimenti e le emozioni dell’altro ma anche configura la nostra disponibilità alla considerazione del suo punto di vista e dei vissuti altrui.
E siamo quindi allo strato più esterno della matrioska, il più distante dal nucleo. Se distacchiamo una delle bambole cave interne da una matrioska, avremo alterato l’oggetto. Questo ci dice che l’empatia è un processo evolutivo di specie e anche personale e che da come usiamo distanza e distacco dipende anche la nostra capacità di usarla verso fini non dannosi per l’altro. Nel tempo della pandemia Covid19 molte cose interessanti sono accadute, attraverso la rete si sono manifestate azioni collettive orientate al supporto, alla solidarietà, sulla cui durevolezza e persistenza ancora non possiamo esprimerci. E nuove modalità di lavoro si sono attivate nelle professioni di aiuto a partire da una ridefinizione degli strumenti e delle tecniche usuali. Il colloquio è l’esempio più lampante. Di fatto utente e operatore hanno operato dentro un contesto di isolamento e forse solitudine e sovviene facilmente l’elegante distinzione che Hannah Arendt operò tra isolation, solitude, loneliness (Arendt, 1948) per tratteggiare quelle condizioni al contempo individuali e collettive che possono essere le basi per stravolgimenti di un sistema politico.
Qui si desidera soffermarci su un microcosmo all’interno delle cosmogonie esperenziali e fattuali connesse alla pandemia che è quello della relazione di aiuto e della conservazione o mutazione di alcuni tratti ad essa ritenuti pertinenti. Parliamo dei costrutti quindi di empatia, distacco, distanza, aiuto, controllo che sono stati attivati, mantenuti o forse disattivati nella prassi quotidiana sia con gli utenti che tra colleghi. Desidero riportare alcuni stralci di testimonianze che vengono periodicamente pubblicate sul sito del Consiglio Nazionale degli Assistenti Sociali (CNOAS)1 che offrono spazio ad alcune narrazioni dal vivo, senza apparati di teorizzazioni o metodologiche di alcune esperienze di lavoro: “Non mi piaceva Alexandra, perché a pelle non può piacerti un’anima sfigurata da tutto il male del mondo. Devi prima ingoiarla, digerirla; solo dopo puoi accoglierla e amarla”. D.C. Piemonte (12 luglio 2020); “Le dico come si definisce per ora il procedimento amministrativo, lei si lamenta un po’, poi ci salutiamo. Forse la rivedrò un’altra volta, ma ho la sensazione di non essere riuscita a toccare nulla di lei. A 19 anni ha già visto e vissuto tanto, troppo. Chissà se ce la farà, lei, ad andare oltre”. E. M. Toscana (7 giugno 2020); “Io per prima dico e mi dico: “È il mio lavoro” (sottintendendo quasi un distaccato “mi pagano per farlo”, “ho studiato per fare questo”), faccio riferimento alla normativa, alla tutela dei diritti umani, agli obblighi dello Stato italiano per 1 www.conoas.it- le storie- Le storie pubblicate sono testimonianze dirette o raccolte, di vicende personali e/o professionali degli assistenti sociali. Non hanno la pretesa di essere esempi universali, né di suggerire soluzioni, ma di raccontare, per chi scrive, cosa significhi questo lavoro. Anche in questi difficilissimi giorni. «Non mi piaceva Alexandra, perché a pelle non può piacerti un’anima sfigurata da tutto il male del mondo. Devi prima ingoiarla, digerirla; solo dopo puoi accoglierla e amarla» cui lavoro. Ma sappiamo tutti, noi operatori del sociale, che quella è solo la cornice: l’immagine di fronte a cui fermarsi ad osservare, la sostanza, è un’altra”. S. G. Veneto (5 luglio 2020); “9 marzo 2020.
Al lavoro si respira un’aria nuova , il timore e l’incredulità hanno preso il posto del solito impegno quotidiano e del solito sprint: armi potenti per affrontare con forza le giornate di lavoro a contatto con la sofferenza. Siamo sempre noi, ma la frenesia e l’energia che tutti i giorni si respirano in un Servizio di Territorio come il mio nel comune di una grande città del Piemonte, appaiono frenati all’improvviso. Sembriamo immobili, non sappiamo come si andrà avanti e come sarà il nostro prossimo futuro. I giorni passano, tutto si modifica in modo naturale”. S.T. Piemonte (28 maggio 2020); “Decido di rispondere anche se è tardi, e se fosse un’urgenza nell’emergenza? È l’operatore della Protezione Civile: hanno trovato Mango! Sono le undici di sera ma non posso aspettare domani. Chiamo Norma, un’anziana sola e isolata che rischia una grave depressione: mi chiama tutti i giorni perché vorrebbe un cagnolino di cui prendersi cura. Mi capita spesso mentre torno a casa da lavoro, con la testa ancora in ufficio, di pensare quali siano davvero i bisogni di prima necessità, ad oggi non credo di avere una risposta”. N.A.M. Liguria (21 maggio 2020); “Parla almeno per dieci-quindici minuti di fila, la signora; non risparmia dettagli e circostanze. Parla. Adesso è stanca, però, e non capisce come mai non ci sia nessuno che vada a casa sua per fare un prelievo alla figlia. Alla fine si congeda, un po’ più calma di quando le ho risposto al telefono. Non mi ha detto neanche il suo nome e io non l’ho potuta aiutare. Ma ho fatto per lei l’unica cosa che un assistente sociale può, e deve, fare sempre, di presenza o al telefono, se ha risorse economiche o se non ne ha, se ha tempo o se è oberato di lavoro. L’unica indispensabile e insostituibile: ascoltare”. S.R. Sicilia (21 maggio 2020). Non è difficile intuire quali siano gli episodi riportati prima dell’instaurarsi del lockdown e lo sappiamo immediatamente per l’evidenza della presenza fisica, della vicinanza dei corpi e di come essa renda quasi più facile una sorta di autovalutazione del sé professionale. L’esercizio della distanza lascia lo spazio necessario alla riflessione.
È quell’intercapedine tra una matrioska e l’altra che permette il riconoscimento dell’oggetto come tale. Il rischio del distacco è sempre presente quando qualsiasi persona con cui abbiamo a che fare in virtù del lavoro che esercita ci dice, apparentemente con modestia, che sta solo facendo il proprio lavoro. Lì si insinua la difesa dello spazio relazionale al quale l’umanità non deve accedere ma quando poi entriamo in quelle che evidentemente sono cronache dal lavoro in tempi di Covid19, si assiste inaspettatamente ad una sorta di vicinanza parossistica. Certo, lo chiedevano le circostanze, ma c’era anche la protezione del dispositivo tecnologico (telefono o pc) a permetterlo.
L’assenza del corpo rende meno minaccioso il rischio di non saper stare nella distanza, di trasformarla in distacco. Dopo trentadue anni di professione, trovo difficile immaginare che in contesti ordinari di lavoro si ritenga proprio dovere procurare un cucciolo ad una signora sola o si possa impiegare tempo in ufficio nell’ascolto illimitato di qualcuno che forse non dovrebbe neanche accedere al servizio in cui operiamo. Al di là di considerazioni di metodo che non sono lo scopo di questo scritto, è l’organizzazione che non lo permetterebbe. Quindi in qualche modo gli operatori hanno determinato in maniera autonoma tempi, modi e spazi di lavoro. Forse anche con un maggior dispendio di energia, sicuramente nel consapevole coinvolgimento del periodo emergenziale ma oltrepassando i confini tra mondi diversi (quelli dell’organizzazione e della risposta ai bisogni) inventando timidi, forse avventurosi fronti contro la malattia in tutti i suoi aspetti di minaccia all’integrità dell’individuo e della comunità. Il distacco fisico sembra, per paradosso, aver attenuato la distanza e ora si dovrà capire se tutto questo rientrerà nella norma operativizzata e rassicurante del passato o se c’è qualcosa che rimane nelle comunità sociali e professionali.
Sembrano essere emerse le vite minori, pallide, dispensabili come quella dell’ultima narrazione senza neanche un nome ma che ha potuto campeggiare di presenza in un incondizionato ascolto. Ma lo scopo del lavoro sociale professionale si definisce oltre l’atto e il gesto del momento o dell’emergenza e quindi la vera domanda è: quale potere hanno sperimentato gli operatori nel maneggiare la distanza e il distacco anche verso le organizzazioni di lavoro? Quale uso dei dispositivi si è disposti ad esplorare affinché la propria azione professionale risponda meglio a deontologia, metodologia e tecnica a favore di un empowerment di comunità e civismo? I professionisti con cui ho parlato sembra che, al netto della fatica data dall’adattamento e dall’inventiva richiesto dalla situazione, abbiano fatto esperienza di uscita da una condizione di loneliness incontrando non solo la marginalità degli utenti ma anche le condizioni di isolation senza la rimozione delle quali nessun margine potrà essere oltrepassato. A me pare che possano aprirsi gli spazi di una negoziazione congiunta tra chi porta competenza tecnica, chi determina il valore economico delle esistenze, il potere politico e forme di collettività che nel post Covid19 vanno sostenute perché possano determinare la distanza da esercitare nella dinamica delle relazioni sociali senza più esserne distaccate.